Sigarette su ceramica

 
 
 
di Michela La Grotteria
 
 
 

A. era venuta a casa mia perché nel pomeriggio aveva rotto con R., e non voleva stare sola. Erano le nove e trenta e nessuna di noi aveva cenato, abbiamo preso delle ciliegie e le sue sigarette e le abbiamo portate sul terrazzo. Stacca il gambo – tac. Mastica mastica. Tin – nocciolo nella ciotola. Aspira. Io non fumo. Però mi piace guardare il gesto fluido che A. fa nel trattenere la sigaretta vicino alla bocca e poi allontanarla, sazia. Nel terrazzo accanto al mio si illumina un’altra punta di sigaretta. Un’ombra di mano la tiene, fa su e giù tra la coscia e le labbra. È così buio che mi sembra un’illusione. Un fantasma che ha creato la mia mente per distrarmi dal pianto di A.
Te lo chiedo ma non dovrei.
Mh?
Poi non ne parlo più.
Okay.
Se ci fossi andata a letto, avrebbe cambiato idea?
Cose del genere. Per questo la mia mente aveva inventato il ragazzo che fumava sull’altro terrazzo. No, sapevo da un anno e mezzo che in quel monolocale ci abita uno, capelli scuri, sigarette sempre sparse sulle piastrelle del terrazzo. Tutta quella cenere sulla ceramica porpora. Ho visto l’altra mano alzarsi e muoversi, come a mimare un saluto. Ho salutato anch’io, di riflesso, con un rapido cenno della mano, e subito dopo ho avuto la certezza che niente fosse accaduto. Ho spolpato una ciliegia con gli incisivi, mentre tenevo lo sguardo sull’ombra e la punta rossa della sigaretta. Il buio mi gratificava con la promessa di non violare il segreto del mio sguardo.
A. ha detto, mangerei un po’ di pasta ora, così visto che pasta non ne avevo siamo scese a prendere dei falafel dal ristorante marocchino.
Era una brava persona, ha detto. Pausa/sospiro. Ma sono contenta di aver avuto una chiusura.
Già, ti fa bene. I vent’anni, la vita, l’esame di letteratura contemporanea di domani, mi raccomando concentrati su quello, giorno dopo giorno, attenta ti cade la maionese: ecco più o meno quello che ho detto. Quello che pensavo: com’è più bello essere al posto mio, nelle prime fasi dell’amore. Mi chiedevo come avessimo potuto non incontrarci nell’anno e mezzo in cui avevo vissuto lì. Forse non ero abbastanza matura l’anno scorso, e A. quella sera mi aveva detto che mi vedeva cambiata. Ti è tornato il tuo spirito, sai? L’anno scorso ti era preso una specie di panico della vita, se mi spiego. Secondo lei era dovuto alla morte di E. Ci mancherebbe, aveva detto, ti muore un’amica e cosa dovevi fare? Ma ora ti sei ripresa, si vede, aveva aggiunto.
Il dirimpettaio doveva essere il premio per la mia esperienza di catabasi e ri-ascesa alla vita. Domani, gli avrei detto ciao.

Sono rientrata a casa per pranzo, il giorno dopo, e prima di mettere su l’acqua per la pasta ho dato uno sguardo alla porta-finestra del suo terrazzo: era chiusa, le tende abbassate a metà. Comecosacome? Accesso sbarrato. Il lino spiegazzato delle tende era un’offesa. Ho scolato la pasta e ci ho versato due cucchiai di pesto: poi ho mangiato solo le penne rimaste scondite. Mi sono portata fuori una sedia della cucina, e ho letto per qualche mezz’ora. Sbirciata: porta semi-aperta, forse esce? No. Sei pazza. Pazza scriteriata. Sono tornata dentro, ho buttato giù i due articoli che dovevo consegnare entro la sera. Saranno state le oscenità della società contemporanea di cui scrivevo, o il branco di nubi color piccione che passava sopra il mio palazzo, ma mi sentivo a terra. Ho preso un libro di Nick Hornby per cercare il conforto tiepido dello humour letterario. Mi sono sistemata sullo sgabello fuori, ho posato le caviglie sulla ringhiera del terrazzo. La ruggine si attacca ai talloni? Un clac di maniglia che ruota, la ventosa della porta finestra cede, si apre una fessura, ne esce una gamba, poi una maglietta bianca, un cespo di riccioli neri, un bicchiere di vino riempito a metà. Le parole del mio libro si fanno tutte confuse, proprio nel punto in cui i protagonisti si stanno per buttare dal tetto. Forse mi sta guardando, forse no. Faccio finta di niente.
Ci sei stata al parco, mi ha chiesto mentre giravo pagina sessantasette per la sessantotto.
Dove?
La statua di Montanelli.
Aaah. L’hanno ripulita però, no?
Sì, ha detto, ero andato in bici a vedere la vernice rossa ma ho trovato solo una signora che mi ha chiesto cosa ne pensassi della pubblica celebrazione del sessismo che quelle statua rappresenta.
Gli ho sorriso. Ha ricambiato e abbiamo parlato di noi. Delle nostre biciclette – la mia è arrugginita, l’ho posteggiata all’aperto, lui l’ha messa nel garage. Delle nostre città: ha detto che è di Taranto e ho pensato, un uomo di mare. Navigato, baciato dal sole. Serie di metafore a basso contenuto.
Ha chiuso le mani a coppa attorno alla bocca, poi le ha schiuse su una luce arancione e un rivolo di fumo. Mi sono accorta di essere in piedi, e mi è sembrato ingenuo stare lì, sulla ceramica del mio terrazzo, senz’altra occupazione.
…per cui ho due casse di vino in casa da smaltire.
È un invito? Voglio accettare. Zuuuuum. Citofono. Il mio citofono fa zum invece che drin: il Tartaro delle onomatopee.
Scusa, devo…
Tranqui.
Rientra e si chiude la porta finestra alle spalle. Mi spingo fino alla cornetta del citofono: voglio non aprire ad A. Sollevo la cornetta e sono pronta a dire: vattene via, a bassa voce. Stai rovinando tutto. E intanto? Il momento è andato, la porta finestra è chiusa. Premo il bottone, la sento spingere vetro e metallo.
Non importa, mi dico mentre prendo le chiavi per aprire, vi ribeccherete dopo. Sono appena le otto e quaranta. Con A. dobbiamo solo restare qui a studiare, fino a verso le undici-mezzanotte. A volte mi rassicuro al pensiero di una vastità di tempo a mia disposizione per fare qualcosa. Di solito, poi non lo faccio mai.
Quando esce dall’ascensore A. dice, credo di stare meglio di quanto pensassi.
Che ti ha detto la psico?
Mi ha fatto i complimenti, dice con voce entusiasta. Entra e posa lo zaino vicino al porta ombrelli.
Che?
Per quello che ho detto a R.
A., inginocchiata, alza un secondo gli occhi dalle Vans che si sta slacciando. Ha lo sguardo deluso e mi viene da ridere.
Di quello che provavo.
Mh, giusto, butto lì. Eri innamorata.
No non credo. Però volevo una storia seria.
Che mucchio di parole sprecate. Di minuti che non torneranno. E se in questo stralcio di tempo mi fossi giocata l’occasione? Un nuovo amore strozzato in partenza per assistere i resti di un amore maciullato, finito. Quanto egoismo nella pretesa di A. che io sia lì per lei, che il mio monolocale sia sempre aperto per tamponare le sue ferite.
Metto la tovaglia intanto?
Mangiamo in fretta, un hamburger duro, sa di panettone raffermo, poi lei tira fuori i libri e io faccio avanti e indietro col terrazzo. La tovaglia da scrollare. Il bucato, è finita la lavatrice, devo stendere. Parla parla, che io ti ascolto: sto solo qua fuori a prendere un po’ d’aria. Il ragazzo non è più uscito, per tutta la sera. Si è messo sul divano, davanti alla tv, non ha più guardato nella mia direzione o forse non ci siamo coordinati bene. Molto intricato, molto improbabile. Ho mollato verso le dieci e mezza. Sono rientrata, marcando bene ogni passo e chiudendo la porta-finestra con decisione. Volevo che il suono della mia delusione arrivasse fin dentro al suo salotto, a disturbare l’antenna della tv.

La soluzione l’ho trovata la mattina dopo. Ho aperto gli occhi sulla limpidità della mia rivelazione. Dovevo solo restare sul terrazzo il più a lungo possibile, ma facendo altro. Sigarette. Ho infilato le scarpe e sono uscita in strada con addosso il pigiama e la pelle schiacciata dal cuscino. Un pacchetto di Chesterfield, grazie. Rosse? Mh? No, blu. Buona giornata, a rivederla. Ci ho messo più educazione del solito per nascondere la vergogna. Che cosa sporca da fare di sabato mattina: comprare le sigarette. Un pacchetto bianco con un piede in cancrena stampato sopra. Che cosa volgare, da dipendenti, da esauriti che le hanno finite tutte durante la notte. È solo un espediente come un altro, mi dico. Quando staremo insieme potrò dirgli, sai quella volta che abbiamo chiacchierato sul terrazzo, io fumavo Chesterfield blu? Era una scusa per attaccare bottone. Mi vengono in mente le parole di A. la prima volta che ha comprato un pacchetto, in quarta liceo. Non sei un fumatore finché non le compri. Sono rientrata in casa col pacchetto in mano, l’ho aperto, ho preso una sigaretta e l’ho posata sul palmo aperto. Dovevo fare delle prove per sembrare disinvolta. Accendino? Non ce l’ho. Fornello. Cik cik cik. Fiamma. Mi avvicino con cautela. Aspiro. Colpo di tosse, aspiro di nuovo: tosse più forte, corro a chiudere la porta-finestra. Ne fumo tre di seguito. Mi gira molto la testa, ma la cosa mi rende allegra. Prendo la quarta in mano: sono pronta.
Quando esco lui c’è già, è al telefono. Aspira lunghe boccate ogni volta che parla l’altro. Che dice? Non ora, concentrati. Aspira-trattieni-espira. Movimento fluido della mano. Scuoto un po’ i capelli, mi guarda in modo diverso. La sigaretta fa il suo effetto.
Come va? Gli chiedo quando riattacca.
Sono alla prima videocall della giornata. Non benissimo.
Dai, io devo studiare tutto il giorno, ti invidio un po’.
Sorride, sorrido. Aspiriamo.
E poi oggi ho lezione di francese, aggiungo.
È proprio bello.
Mh?
Il francese. Io so bene lo spagnolo, l’ho imparato vivendo in Spagna e in America Latina.
Ma quanti anni ha?
Però il francese non l’ho mai imparato.
Si tu veux je pourrai t’enseigner.
Guardo la sigaretta mentre soffio via il fumo. Le sono immensamente grata per il potere che mi sta conferendo. La scioltezza.
Volentieri, dice lui.
Cosa rispondo? Porto la sigaretta alle labbra, cerco ispirazione in lei. No: sento caldo. La sigaretta è un mozzicone, sto fumando il filtro. Qualcuno al liceo aveva detto che fumare il filtro è peggio che inalare un tubo di scappamento. Non importa: fumerò fino a raggiungere le dita, poi fumerò anche le mie falangette se necessario. Che si fa quando la sigaretta finisce? Non l’ho provato prima, le ho spente sotto il getto d’acqua gelida del lavandino. Guardo lui: la schiaccia sulla ringhiera, faccio lo stesso, poi dice, beh a dopo, e io, certo, e rientriamo. Disinvolta. Ottimo lavoro. Mi chiudo la porta-finestra alle spalle, mi lascio scivolare sul parquet. Ma come si chiama? Strano, non ci siamo presentati. Mi tremano le braccia, tutta quella nicotina assunta in una volta. Mi guardo in giro: il mio appartamento è invaso da un vapore grigiastro. L’odore di sigaretta spenta è annichilente. Non si fuma in casa, lo so: si impregnano i muri, i mobili, i vestiti lasciati sull’appendiabiti. I capelli. Inalo a fondo: mi sembra un odore dolcissimo. L’odore della rinascita.
Poi mi alzo, esco e mi tiro la porta dietro. Sono in calzini, per far meno rumore nel pianerottolo. Porta, porta, scarpe lasciate fuori, zerbino. Questa dev’essere la sua. Ecco il campanello. In mezzo, trionfale, scritto in nero, orgoglioso: il suo cognome. Clac clac, stong: sta uscendo. Oddio. Oddio, merda. Posso infilarmi nel porta ombrelli?
Ehi, mi dice, sembra una domanda.
Ehei…
Che fai?
Stavo uscendo peper… comprare le siga. Rette.
Oh. Annuisce, ridacchia. In calzini?
Si beh no, oddio non me n’ero accorta! Ah-ah, ora vado a mettermi le scarpe.
Brava, dice, e scavalca lo zerbino.
Mi volto, mortificata, faccio per tornare a casa.
Hai preso la spazzatura?
(Dice a me? È una battuta?)
No in effetti…
Sì amore.
?
Okay bene. Vado io giù, tu aspettami allo zero.
Sullo zerbino compare un altro paio di piedi, unghie smaltate di blu polvere, dei sandali gioiello. La testa che si volta a dare due giri di chiave è bionda, ha un caschetto corto, liscio. Si piega verso il ragazzo e si lascia dare un bacio sulle labbra. Poi mi dà un’occhiata allegra, dice, ciao! e scompare con lui nell’ascensore.
Il pianerottolo mi sembra un campo di battaglia ora. Cadaveri sparsi ovunque, sangue sulle pareti. Rientro in casa, metto il chiavistello, mi siedo alla scrivania. Le sigarette sono ancora lì dove le ho buttate rientrando dal terrazzo. Ne estraggo una, accendo il fornello. Cik cik cik. Fiamma. Aspiro.

 
 

Michela La Grotteria, classe 1999, è nata a Genova, ha studiato Lettere a Milano e si sta specializzando in Italianistica a Bologna. Ha scritto per le testate studentesche Vulcano Statale e LoSbuffo, e alcuni suoi racconti sono apparsi su Blam!, Bomarscé e Quaerere. Facebook: Michela La Grotteria. Instagram: @chez.michelle

 

Illustrazione originale di Carlotta Mazzi.

 

Carlotta Mazzi (03/04/1992) Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera dove ho conseguito il Diploma di II Livello in Grafica d’Arte. Oltre alla passione per la grafica e la stampa d’arte coltivo da anni l’interesse per l’illustrazione. Oggi parallelamente alla ricerca artistica personale sono occupata come docente di arte e grafica nella scuola secondaria di I e II grado. Alcune mie tavole sono apparse su Squadernauti, qui, qui, qui e qui.

 
 

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