Il paradosso della sopravvivenza

 
 
 

Ne Il paradosso della sopravvivenza, romanzo uscito per Einaudi nel febbraio del 2023, Giorgio Falco narra la storia di Federico Furlan dalla nascita alla maturità.

Federico, se per i pochi che gli sono intimi è Fede, per gli abitanti dell’immaginario paese alpino di Pratonovo, dove trascorre i primi decenni di vita, è “il ciccione”.

Fede, già da piccolissimo, adopera il linguaggio per riferirsi prevalentemente al cibo: il bibeto è il biberon, il granello di zucchero che dalla brioche della madre cade sulla piastrella diventa il “nenello su tetella” (p. 18, corsivo nel testo).

Il protagonista, insomma, fin da subito si relaziona al mondo da consumatore, e la merce che non smetterà di attrarlo (e che lo farà diventare un ragazzo, e poi un adulto, di centocinquanta chili) è il cibo.

Il bisogno continuo di alimenti isola Fede dalla vita, intesa come fonte inesauribile di desiderio e sorpresa; e lo tiene in un mondo in cui non trovano spazio le emozioni, i rischi. Il Il paradosso della sopravvivenzacibo, che permette a un corpo di non deperire, da mezzo diventa fine: è il paradosso della sopravvivenza (che nel romanzo di Falco corrisponde, inoltre, a una strampalata teoria medica per cui gli obesi avrebbero un tasso di mortalità inferiore rispetto alle persone normopeso).

Anche il rapporto di apparente sottomissione sessuale che instaura con la bella Giulia – se dal punto di vista della declinazione concreta può essere considerato sadomasochistico – non procura a Fede particolari sconvolgimenti: è una cosa che accade durante il suo sopravvivere, e al pari delle altre va consumata.

Da adulto, trasferitosi a Milano, Federico Furlan lavorerà per un certo periodo in un’azienda, dove si alternerà in due mansioni: inserire i tag ai filmati pornografici e aggiornare un sito di meteorologia.

È una duplice catalogazione, un lavoro che riduce nuovamente la materia pulsante della vita (la sessualità e i fenomeni atmosferici) a somma di beni di fruizione individuale.

La lingua di Giorgio Falco asseconda con grande perizia questo disincanto che ci restituisce esistenze bradicardiche, monocordi. Falco mostra qui la sua formazione visiva, modulando l’ampiezza della sintassi alla scena via via descritta, come se di volta in volta modificasse l’obiettivo fotografico. Evitando così il doppio rischio del compiacimento e dell’intervento paternalistico nella vicenda trattata. E non permettendo al lettore alcuna identificazione emotiva; come se – trappola metatestuale – il lettore stesso fosse chiamato a un consumo meccanico del romanzo.

Anche il comico o il grottesco, le rare volte che appaiono (come quando Salvo e Tony, i superiori di Fede, guardano con lui alcuni video porno per insegnargli l’uso corretto dei tag), scaturiscono quasi sempre dai dialoghi. Dialoghi che forse, ecco l’unica debolezza del libro, negli scambi tra Fede e Giulia risuonano eccessivamente sentenziosi e perciò poco credibili.

Poi ci sono i corpi. Che è come se non resistessero all’usura della sopravvivenza, si opponessero all’imperio della norma proprio con l’abnormità (quando non con la morte, che ha un ruolo centrale nel romanzo).

E così, per colleghi di un lavoro svolto precedentemente a quello citato (un altro lavoro di catalogazione: memorizzare i codici a barre di un supermercato di prossima apertura), Fede avrà tre giovani disabili: Luca, Mario e Granit.

“Quando torna a casa – un altro monolocale in affitto, l’ennesimo di una lunga serie – Fede ripensa ai suoi colleghi: Luca e Mario appoggiano le mani sulle ruote ferme della carrozzina, Granit appoggia la gamba artificiale al muro della stanza e si siede sul divano. La condizione di ciccione è invalidante quasi come un incidente, ma Fede non ha avuto alcun trauma improvviso, soltanto l’accumulo dei giorni, la vita. Non basta questo? Si chiede mentre apre il frigorifero e l’anta cigola sopportando il peso del tempo di fabbricazione, di altri inquilini finiti chissà dove” (pp. 178-9).

E se lo strumento che ci rende dipendenti dal consumo (il consumo attivo dei prodotti, il consumo passivo del nostro tempo, della nostra vitalità), per l’intero corso dell’esistenza, fosse il linguaggio?

O meglio la parola utilitaristica, che si apprende in tenera età e che da allora, senza più scampo, ci fa pretendere o essere pretesi: “Fede perde la prima forma di innocenza, ripete bibeto, la parola da lui inventata, sapendo di dover dire biberon; Fede accetta il gioco linguistico, ma entra nella lingua degli adulti, si osserva vivere e, colmo di sgomento, inizia a dimenticare se stesso” (p. 16).
 
 
(Claudio Bagnasco)

 
 
 
 

All’ombra delle fanciulle in fiore

 
 
 
 

Alla sua uscita, nel 1919, All’ombra delle fanciulle in fiore si aggiudica (non senza brogli, peraltro) il Premio Goncourt. Ha così inizio per Proust, che morirà tre anni dopo, una breve stagione di fama e gloria letteraria: fino a quel momento era stato considerato un dilettante.

A riscattarlo è quindi il libro della Recherche imperniato sui temi della giovinezza e del desiderio nascente: oltre seicento pagine, dall’inverno parigino al mare di Balbec, in cui riappaiono diversi comprimari di Dalla parte di Swann che solo adesso svelano il loro ruolo effettivo nella storia.

L’opera è ripartita in due corpose sezioni: Intorno a Madame Swann racconta dell’infatuazione dell’io narrante per Gilberte, volubile figlia dell’ex cocotte, tra giochi ai Champs-Élysées e merende esclusive; Nomi di paese: il paese riporta invece il soggiorno estivo in un Grand Hotel della costa normanna, che frutta anzitutto la conoscenza di Albertine (altro personaggio centrale della Recherche).

All'ombra delle fanciulle in fiore

I travagli d’adolescente sono affrontati in una quotidianità ritirata, nevrastenica e debilitata dall’asma; ma la morbosa aspettativa di protezione non impedisce all’io narrante di emanciparsi, a poco a poco, dalla madre e dalla nonna (i suoi riferimenti più certi). A teatro, assiste alla tragedia Phèdre di Racine, maturando – in rapporto all’interpretazione della famosa attrice Berma – una propria autonomia critica; stringe amicizia con lo scrittore Bergotte, di cui già si era letto in Dalla parte di Swann, e con Elstir, pittore che era stato a lungo alla corte dei Verdurin (forse il più meschino dei salotti descritti da Proust).

Ogni anelito, ogni languore dell’io narrante sviluppa immaginazioni fluttuanti e costruisce mondi che presto o tardi si dissolvono nell’inappagamento. Tutta la semina emotiva di Combray (aspirazioni letterarie, amore per Gilberte) produce raccolti deludenti. Ma è una constatazione a cui si giunge valutando il prototipo masochistico di Un amore di Swann (primo volume) con i tre elementi che intervengono sulle “intermittenze” (p. 199): nell’animo umano, sensibilità intelligenza e volontà battagliano tra loro; talvolta si alleano o si avvicendano, scandendo l’ineffabile imprevedibilità degli affetti e dei tormenti.

“Avevo la sorpresa di scorgere, in fondo a me stesso, un giorno un sentimento, il giorno dopo un altro, perlopiù ispirati da una certa speranza o da un certo timore concernenti Gilberte.” (p. 242)

L’amore non corrisposto ripiega in una strategia di allontanamento e silenzio opposta alla perseveranza dei tè in Casa Swann, quando l’obiettivo dell’io narrante era di accendere i sentimenti nell’amata e di conquistarne i genitori. L’insieme di proiezioni che generava (o addirittura inventava) l’interiorità di Gilberte opera anche dopo la rottura, per riempire il vuoto con un rammarico che la fanciulla non prova.

Infatti, l’origine stessa dell’innamoramento e, ancor prima, quella del desiderio, è sempre correlata alla proiezione, a un ignoto in cui imbastire nuovi legàmi erotici. Il criterio somiglia alla geometria arbitraria di una costellazione, là dove, in strada, ogni passante (a Combray, a Parigi, a Balbec) brilla con seducente significazione nel firmamento del caso.

“Questa fugacità degli esseri che ci sono ignoti e ci costringono a evadere dalla vita abituale in cui le donne che frequentiamo finiscono col rivelare le proprie tare, sollecita in noi una sorta di rincorsa nella quale più nessuno ostacolo frena l’immaginazione.” (p. 449)

Si configura, nel desiderio, una fatale intercambiabilità degli oggetti. Esemplare in tal senso l’irruzione di Albertine, a Balbec, con la piccola banda di fanciulle che movimenta la scena della località balneare. L’io narrante non individua subito la preferita. Intimidito, lontano dalla routine dei salotti parigini, girovaga e resta frastornato da una femminilità collettiva che il suo sguardo non riesce a scomporre e differenziare.

“Simili agli organismi primitivi nei quali l’individuo è di per sé quasi inesistente, e consiste più nell’intero polipaio che in ciascuno dei polipi di cui questo è composto, se ne stavano strette l’una all’altra. A volte, qualcuna faceva cadere la vicina, e un riso irrefrenabile, che sembrava la loro manifestazione di vita personale, le scuoteva tutte insieme, cancellando, confondendo quei volti indecisi e contratti nella gelatina di un unico tremante grappolo di scintille.” (pp. 481-82)

L’incapacità di mettere a fuoco, discernere e separare deriva da una sessualità che va componendosi, lenta e un po’ angosciata, fra gli stimoli veloci della realtà circostante. Era già accaduto per il colore degli occhi di Gilberte (neri, ma all’io narrante erano parsi azzurri). Ora è la piccola banda ad amalgamarsi in una simultaneità di volumi e cromie. I mutamenti di luce e il punto di osservazione possono stravolgere il quadro – e nei dettagli catturati dalla rètina, Proust sembra trasporre in letteratura i princìpi impressionisti.

I nomi della petite band affiorano e si intrecciano: Andrée, Gisèle, Rosamunde, e – appunto – Albertine. Sopraffatto, l’io narrante scopre in sé una molteplicità analoga a quella delle fanciulle.

“A rigore, dovrei dare un nome diverso a ciascuno dei miei io che, in seguito, pensarono ad Albertine; un nome diverso dovrei anche darlo, a maggior ragione, a ciascuna delle Albertine che mi apparivano dinanzi”. (p. 628)

Il desiderio ha una valenza esplorativa che finisce sempre per confliggere con il buio inconoscibile dell’amata. Essere felici nel profondo di una reciprocità amorosa risulta impossibile: “il tempo di cui l’altro cuore avrà bisogno per cambiare, servirà al nostro per cambiare a sua volta, e così, quando l’obbiettivo che ci siamo prefissi sarà a portata di mano, avrà smesso d’essere per noi un obbiettivo. […] La felicità ci arride quando ormai ci lascia indifferenti.” (p. 244)

Questo determinismo inquieto, in un romanzo che esubera di vitalità e appetiti, sembra nascondersi all’ombra dalle fanciulle in fiore. La stagione della gioia si palesa al suo epilogo, quando Balbec si svuota e anche i pochi villeggianti superstiti si accingono a ripartire. Tutto il senso dell’umanità dilaga in questo congedo che si stempera ogni giorno di più, circondato dall’Oceano; e il vivere stesso brucia in una luce che si depotenzia smarrendo la bellezza da illuminare. Perciò, ecco, la funzione del ricordo – scrittura che cerca il tempo perduto – somiglia all’atto supremo di chi non può rinunciare alla vita, nonostante tutto.

“E mentre Francoise toglieva gli spilli dalle imposte, staccava le stoffe, tirava le tende, il giorno d’estate che veniva scoprendo sembrava qualcosa di non meno morto, non meno remoto d’una mummia millenaria e sontuosa che la nostra vecchia domestica stesse liberando con cautela da tutte le sue fasce prima di farla apparire alla luce, imbalsamata nella sua veste d’oro.” (p. 636)

 
 
Giulio Neri
 
 

Chiromantica medica

 
 
 
 

Forse non sono una cura, le storie. Ma che siano almeno un tentativo di diagnosi del male che ci circonda (ed è in noi) ce lo ricorda Chiromantica medica, la raccolta di racconti pubblicata da Alessio Mosca per Nottetempo (2022).

Il filo rosso fra i brani, oltre alla materia pulp (sesso, cronaca nera, droga, voyerismo social), è proprio il desiderio di indagine clinica sulle patologie, fisiche e metafisiche, che affliggono la società contemporanea.

Chiromantica medicaIl lessico scientifico è molto presente  (“Sindrome di Cushing”, “ecchimosi”, p. 39, “papule purpuriche”, “eczemi”, p. 44, “attacchi ischemici transitori”,  p. 73, “bouffée psicotica”, p 75, “contusioni”, “materiale organico estraneo” p. 127, “malattie veneree”, p 132) e uno spirito diagnostico-investigativo guida i tanti medici, giornalisti e inquirenti protagonisti dei racconti, impegnati nel tracciare una mappa credibile della realtà in cui si muovono (“La donna aveva conservato le foto che ritraevano tutti gli sfoghi e le malattie della pelle avuti negli anni e su quelle foto aveva disegnato linee e schemi, preso appunti e sovrapposto planimetrie e carte topografiche, era una sorta di trattato di dermatologia e urbanistica” p. 43).

Ma non basta, perché più che malattia quello che affligge il reale è possessione demoniaca. E dato che “la comprensione è un sortilegio” (p. 133) è necessario ricorrere alla teologia, alla cartomanzia e alla chiromantica per vederci chiaro. Il narratore-commissario deve perciò coniugare razionalità e mistica per manipolare la sua materia (“I commissari hanno il piede del funambolo per camminare negli spazi liberi tra impronte e cadaveri, i loro occhi sono quelli del cartomante che leggono il passato in una sequenza di indizi e predicono il futuro nel susseguirsi dei tarocchi” p. 127), deve compiere esorcismi per evocare e governare (?) le forze malefiche in gioco: Cruciani e Wanna Marchi (in esergo), Lapo Elkan, Andrea Dipré e Rocco Siffredi, divinità panica protettrice dell’infoiamento cosmico.

Il tutto in chiave fantastica. Dietro il reale c’è sempre un varco verso l’altra dimensione, dove l’Ikea diventa un covo di neofascisti (Io odio l’Ikea, p. 26), la periferia romana una Terra santa (Cristo s’è fermato a Spinaceto, p. 85) e TikTok lo specchio dell’antropologia borghese italiana (La verità, vi prego, su TikTok, p. 135).

Alla corruzione del mondo umano si contrappone l’innocenza di quello naturale, descritto con toni favolistici di grande efficacia (“Il canto delle balene era il lamento di esseri banditi dalla terra, costretti ad adattarsi all’oceano, a vivere trattenendo il fiato. La loro carne grondava il risentimento degli esuli, la loro mole la rivalsa: le pinne creavano vortici, spruzzi in grado di invertire il cielo col mare, pupille capaci di inghiottire un uomo” p. 106). Un mondo naturale che, deturpato dagli uomini (“136 colpi in tutto, recisione del fusto alla base con esposizione di anelli di crescita e midollo, fuoriuscita di parenchima vegetale e recisione di florema” p. 126), appare l’ultimo custode del divino in un universo corrotto (“La musica è una voce e la voce è la liturgia delle fronde. «Beati i funghi, perché di essi è il regno dei cieli»” p. 130).

Nell’eterogeneità della materia trattata e dei generi adoperati (giallo, memoir, letteratura scientifica), il punto di vista del narratore rimane coerente e capace di generare inquietudine nei suoi lettori dinanzi ai crimini e, forse, alle loro stesse nevrosi disseminate fra le pagine.
 
 
 
(Agostino Bimbo)

 

 

Notturno francese

 
 
 
 

In Sei passeggiate nei boschi narrativi (Bompiani 1994), Umberto Eco racconta di essere stato invitato al Museo della scienza e della tecnica di La Coruña. Alla fine della visita il direttore del museo ha condotto Eco nel planetario, dove è stato riprodotto il cielo di Alessandria nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1932, ovvero i primi minuti della vita del semiologo e romanziere.

“Ero così felice che ho provato la sensazione (quasi il desiderio) che potevo, che avrei dovuto morire in quel momento – e in ogni caso altri momenti saranno ben più casuali e inopportuni. Avrei potuto morire perché ormai avevo vissuto la più bella delle storie che avessi mai letto in vita mia, avevo trovato forse la storia che tutti cercano tra pagine e pagine di centinaia di libri, o sullo schermo di molte sale cinematografiche, ed era un racconto i cui protagonisti eravamo io e le stelle” (p. 174).

Dunque, ricongiungersi col proprio inizio è forse il vero motivo per cui si vive, e il vero motivo per cui vivendo si rovista fra le storie. A queste due ragioni, il protagonista di Notturno francese (scritto da Fabio Stassi e uscito per Sellerio nel febbraio del 2023) ne aggiunge una intima, la ricerca del padre a lui ignoto, al quale per lungo tempo egli ha scritto una lettera al giorno.Notturno francese

Protagonista che risponde al nome di Vince Corso, e che è già apparso in tre precedenti volumi: La lettrice scomparsa, Ogni coincidenza ha un’anima e Uccido chi voglio.

Anche Notturno francese, come tutte le opere di Stassi, è un libro fatto di altri libri. Il primo debito appare già nel titolo, che si rifà a Notturno indiano di Antonio Tabucchi (peraltro uscito presso il medesimo editore).

Parte delle citazioni letterarie e musicali disseminate tra le pagine sono, come di consueto, svelate dall’autore nella nota conclusiva. Ma questa volta il doppio fuoco letterario (il fitto di rimandi e l’elemento giallistico sui cui Vince Corso, che di mestiere fa il biblioterapeuta, si ritrova immancabilmente a investigare) passa in secondo piano.

Questa volta è la vita dello stesso Corso che chiede di essere indagata e in un certo senso risolta.

Agli individui inclini a rifugiarsi nelle opere di fantasia, solo il caso può imporre di occuparsi dell’esistenza senza possibilità di dilazioni. Così accade a Vince Corso il quale, convinto di essere salito su un treno da Roma a Napoli, si ritrova invece su un convoglio diretto a Milano. La persona che condivide con lui il medesimo posto (anche se teoricamente di due treni diversi), simile nell’aspetto fisico a Léo Ferré, gli suggerisce che “potrebbe interpretare questo errore come un segno” (p. 25).

E così, raggiungendo prima Genova e poi Nizza, Vince Corso affronta la quête definitiva, quella del proprio inizio. Soggiorna all’hotel Negresco, in cui da giovane sua madre ha lavorato come cameriera. Lì suo padre ha transitato e lì Vince è stato concepito.

Corso riuscirà nel suo intento, e il disvelamento dell’identità paterna, assieme a quello della propria origine, produrranno in lui una sensazione forse opposta forse identica a quella di Eco: quella di percepirsi per la prima volta compiutamente vivo. “Credo di non avere mai avuto così forte la consapevolezza della mia esistenza. Mi guardavo le braccia, le mani, ascoltavo il mio respiro spezzato che rimbombava per tutta la sala, e mi pareva di scoprire soltanto allora di avere un corpo, un corpo come quello di tutti gli altri, deperibile e in continua trasformazione” (p. 73).

Ma il continuo gioco di specchi tra realtà e finzione, come sempre accade nelle opere di Stassi, non ci permette di acquietarci al cospetto di una fine univoca, ossia l’uscita di Vince Corso dal ruolo di personaggio e la sua promozione a persona. Questo perché, a ben vedere, Corso si sente del tutto vivo esattamente quando la propria narrazione si completa.

Allora Vince Corso è diventato pura persona o puro personaggio?

Oppure Fabio Stassi, disinteressato a sciogliere questa ambiguità, vuole piuttosto suggerirci che, irrisolvibile com’è la vita, possiamo ambire alla sua pienezza di senso solo se la nostra vicenda esistenziale diventa vicenda letteraria?

 

(Claudio Bagnasco)