Fubbàll

 
 
 
 

Lo avevamo lasciato tra le stradine di un villaggio ridotto in macerie dal terremoto sull’appennino abruzzese, Remo Rapino, scrittore e poeta classe 1951, premio Campiello nel 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax, 2019), e in noi ancora echeggiavano le malinconiche voci di Mengo e degli altri abitanti del borgo immaginario cui aveva dato vita con Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax, 2021), mentre approcciavamo Fubbàll, la raccolta di racconti brevi con cui è di recente tornato in libreria per la stessa casa editrice delle due opere precedenti.

FubbàllIl libro contiene le storie di dodici ex calciatori narrate in prima persona, a formare una simbolica squadra, dal portiere al centravanti, allenatore compreso. Ma, ancora una volta fedele al proprio immaginario, Rapino attinge alle seconde linee del campionario umano. Coloro che parlano, restituendoci l’inconfondibile timbro narrativo dell’autore teso a un sapiente utilizzo della lingua parlata con efficaci contaminazioni gergali, non sono i divi del pallone, le stelle che riempiono le pagine dei giornali ed esaltano le fantasie dei tifosi, sono i proletari del prato verde, quelli che hanno fatto la gavetta nelle serie minori, arrabattandosi tra sterrati polverosi e un lavoro vero per guadagnarsi di che campare, in attesa dell’occasione della vita da cogliere al volo. Gregari votati alla fatica, “Che alla fine così rotola il mondo, farfalle e calabroni. Le farfalle belle colorate che svolazzano in silenzio col sole che le fa brillare, i calabroni, invece, che ti ronzano intorno senza pietà fino a farti venir voglia di spiaccicarli sul muro, che vanno a sbattere sempre contro un vetro come balenghi, però non mollano mai” (p. 66); sfortunati o incompresi giocolieri di talento; eroi che hanno assaporato la gloria per una stagione, per un giorno o solo per una manciata di minuti, bravi ma non abbastanza per raggiungere la consacrazione definitiva.

Come Milo, portiere comunista, poi anarchico — perché socialista come il nonno e il padre gli sembrava poco — e infine “portiere e basta” (p. 13). Milo, che leggeva Stendhal e giocava solo per squadre che vestivano di rossonero. “Rosso e nero come la bandiera dell’anarchia” (ibid.).

Uomini di sostanza e di cuore come Glauco detto il bagnino, terzino dall’entrata pesante, “operaio del pallone” (p. 36) che perdeva il sonno per Gigi Moroni, Roberto Boninsegna e Gigi Riva, e voleva far capire “che il mondo ha bisogno di tutti e di tutto, pure delle persone come me che fanno al meglio quello che gli dicono di fare, che non gli fanno tanti complimenti se azzecca qualcosa oppure lo riempiono di offese terribili quando sbaglia” (ibid.). E chissà quali epiche battaglie avrebbero ingaggiato, se la sua strada avesse intersecato quella di Baffino, il fantasista col vizio del fumo e dei colpi di tacco?

Anche Pablo era comunista, l’attaccante diventato “calciatore per caso, e operaio per necessità” (pp. 110-111), “un passeur, un tiracalci di contrabbando, nato e cresciuto tra le contrade piemontesi” (p. 110, qui e oltre, corsivo nel testo), ingenuo al punto che “per fare gruppo regalavo ai compagni di squadra i libri di Pavese e Lee Masters, Márquez e Corto Maltese, però, per farmi perdonare accettavo poi di andare a vedere film tipo Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, mica solo Buñuel, Fellini, Antonioni” (p. 115).

Per metterli in campo con un minimo di disciplina forse ci sarebbe voluto uno come Oliviero, detto Levriero perché a Lanciano qualcuno un giorno aveva cominciato a storpiargli il nome, “quasi che giocare con i nomi fosse un’usanza di quei paesi” (p. 145). Giocatore e allenatore, per un po’ l’uno e l’altro insieme, ma pure partigiano nella Brigata Maiella e calzolaio, anche se “un po’ speciale, che soprattutto modificavo scarpe normali in scarpe da calcio” (p. 148).

Nel libro di Rapino c’è il fubbàll di un tempo ormai lontano. E, sullo sfondo, la storia nazionale del secolo scorso, segnata da conflitti bellici e sociali. Lo sport amato e raccontato da Nicolò Carosio e Gianni Brera, di cui hanno scritto autori come Osvaldo Soriano, Pasolini, Saba, Pennac, narrato dalle periferie del pallone, passando talvolta, quasi per caso o per errore, dalle grandi città: Roma, Firenze, Torino, Genova, Buenos Aires.

Il calcio qui visto non come metafora della vita, ma come parte di essa. D’altro canto, “dare due calci al pallone […] era un segmento dei […] giorni, semplicemente un altro modo di consumare il tempo” (p. 113), e “il campo è quello che è, mica puoi uscire dai suoi confini. Sarebbe come uscire dalla vita” (p. 15). Piccole e romantiche epopee ellittiche che, tra nostalgie e rimpianti, si chiudono lì dove tutto ha avuto inizio, con il rettangolo di gioco e il pallone a fare da fuochi e la giovinezza nel mezzo.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Lascia un commento