Come una santa nuda

 
 
 
 

“Non ostie, non visioni obnubilate, non visioni strettamente personali, non verbigerazioni, non verbigerazioni […] Un mondo verbigerato. Un mondo suicidato. Scrittori e scrittrici tutti voce.” (p. 24-25)

È opportuno lasciare spazio da subito in questa lettura alle parole di Alessandra Saùgo e del suo Come una santa nuda (Wojtek, 2023). È opportuno lasciare spazio alla sua voce, la vera protagonista del libro che, dopo una lunga serie di rifiuti (come rivelato da Antonio Moresco nella recensione apparsa su La Stampa, 21 settembre 2023), viene pubblicato postumo dalla casa editrice di Pomigliano d’Arco.

Come una santa nuda

E di voce, si parla, non di verbigerazione. Perché Alessandra Saugo è una scrittrice dalla parola potente, dalla scrittura protesa, oltre che alla sperimentazione stilistica, alla ricerca di senso. A farsi strumento conoscitivo e di resa dei conti col reale. Elementi che, a giudizio di chi scrive, definiscono il valore letterario di un’opera, qui riscontrabile in ogni pagina.

Il libro si presenta come un insieme di stralci narrativi, spezzoni del discorso in prima persona rivolto a un interlocutore silente, tale Jhon. La scrittura attraversa i generi più disparati, dalla pagina di diario al componimento poetico, dal canovaccio teatrale alla relazione accademica (“Lectio magistralis ipermoderna per John che dorme”, p. 57) cambiando di continuo intonazione – ora è un’invettiva tonante, ora la confessione più docile, l’invocazione accorata, la denuncia sottile – senza mai cadere in riempitivi fiacchi, facili in un testo dalla struttura così disarticolata.

Non c’è trama, infatti. Non c’è spazio né tempo – la voce è persa in una non meglio definita estate, stagione solitaria (“è un agosto stravolto”, p. 39; “E non mi vedi, che sono qui, a scorticare l’anguria, da sola, in mutande e canottiera, nel tramonto”, p. 17). Una sceneggiatura dell’assurdo senza personaggi significativi, tranne quelli elencati dall’autrice in un passaggio metanarrativo: “Dove sono i personaggi. Ci sei tu, John, poi c’è quello inserito nel mondo dei riflettori indefessi, c’è quella che recita Molly Bloom inutilmente e c’è il mio gigante, solo la punta di un capello, dato che è il deus ex machina e deve rimanere occulto. E c’è anche la punta lucida della scarpa elegante di uno psicologo dinamico milanese […] Cosa fanno. Fanno da voci a un commentario, e fanno gli apparati di un testo erudito” (p. 23).

Un testo che assomiglia a un lascito, al testamento vacante, acre, di una donna che fa i conti con i temi cardinali della sua esistenza: il talento, il successo, la scrittura, i rapporti di forza nel teatro sociale (in particolare quelli del mondo dell’arte e dell’editoria), le brutture della cultura pop in cui siamo immersi, e poi l’amore, il sesso, la maternità. Su tutto si stende uno sguardo disilluso ma mai disperato, sempre pronto allo scatto ironico e spiazzante.

Caustici i brani dedicati al mondo dell’editoria. I tanti riferimenti al “libro scabroso… libro rivelazione” (p. 8), alla “editoria tendente al premio” (p. 15), al tale “ben inserito negli ambienti romani” (p. 11). Al palcoscenico patetico degli scrittori che “leggono le loro auree merdoline in pubblichino, con le musichine di sottofondo, e sono tutti amici. Chi suona, chi leggiucchia, chi si sbaciucchia, soft, piacevolezze. Amenità” (p. 16). Esponenti di una letteratura ammiccante, istrionica: “Tutto voce, lui. Chi lo dice, sa di esserlo. Maschi. Meravigliosi scrittori tremebondi. Sono aggressivi. Tutti, anche quelli tutti voce, ti danno di quelle evitate per farsi largo loro, di quelle spallate, per spiccare loro. Anche i gigli assolati del grande candore che arde, come Tonon, che non hanno idea di dove siano i personaggi neanche loro. Cosa tramino. O ma dov’è la voce lo sanno, è dove ciucciavano il seno. In bocca ce l’hanno la voce. Ciucciano” (p. 25).

E ci sono l’amore, i rapporti fra maschi e femmine, la sessualità. A smontarne la versione grottesca fornita dalle star televisive e del web (“quella piccola scrittrice erotica, quel chihuahua del Delta di Venere […] e i suoi diari erotici”, p. 69), con i loro corpi ridotti a merce e i loro istinti psicoanalizzati (“Nella psicologia dinamica […] è come liofilizzato, asciutto, e non sporca neanche [il sesso, ndr]. Lo inali in aerosol. Antibiotico. O balsamico. Omeopatico. O antistaminico”, p. 60). C’è il racconto, duro, della violenza subita da un altro scrittore dopo un rifiuto (p. 102-103).

Ma non c’è risentimento fine a sé stesso. Solo la consapevolezza di essere incapaci di flirtare col presente (“la frustrazione di non trovare pratoline in riva al mare, solo conchiglie. John, il rumore del mondo. I soloni concionanti nei festival culturali. Gli scrittori parlanti. I pensatori di grido. John, non ce l’ho fatta. E sai, la vera saggezza è starsene fuori dal mondo senza inacidire”, p. 97) ma, allo stesso tempo, di averne vissuto le esperienze più autentiche. Commuovente e lontano da ogni retorica, ad esempio, il passaggio dedicato al parto: “Ti nascono. Te ne nascono. «Lo so», sussurravo alla mia terza bambina appena me l’hanno messa tra le braccia. […] «Lo so». La baciavo. Glielo sussurravo. «Lo so». Solennità. Sei cruenta di esserci. […] Spondina mia, sono la tua riva timida che non si ritira. Che ti rimira. Mia rimirata, affetta da tutta la mia vita. Mia guarita, mia benarrivata” (p. 156).

C’è la speranza di incontrare esseri umani degni di questo nome (“ma qua bisogna solo continuare a parlare con fiducia piena ai giganti che si sono chinati, che si sono avvicinati, e seduti vicini. Con i loro occhi crocifissi al cranio, due passioni cupe che si sono inchiodate ai miei occhi di legno […] C’è un Quijote trafitto di più di San Sebastiano che si impenna nel mio cuore e fa paura, e fa bontà”, p. 29) e assistere a sprazzi di innocenza nel mercimonio culturale (“Il mondo dell’arte è una fogna, lo dice anche il mio gigante. Ma come ti sei accorto anche tu […] vi circola una impareggiabile verginità che quando guizza è oro puro”, p. 27).

Un testo senza consolazione, a tratti respingente. Il monologo di una santa senza redenzione che, nonostante la sua postura polemica, volutamente impubblicabile, siamo grati sia venuto alla luce con tutta la sua fiducia antiletteraria nell’esistenza: “Voglio dimenticare tutto lo sterco intellettuale che ho appreso nella vita. Voglio azzerare, pulire, capire altrimenti, capire patendo. Quelle belle frasi, quei bei teatrini al teatro, lo sterco della recitazione dei palchi. […] Pensano bene di sé. Questa è la atrocità. Pensano sempre e solo bene di sé. Non si sentono mai umiliati. Mai finiti. Mostri infiniti. Sterco di verbi al sicuro, loro sì. Ma poi è giusto che la mancanza d’amore renda lucidi. Quasi quasi mi passa anche la paura di morire” (p. 136).

 

 

 

Agostino Bimbo

 

 

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