Palermo

 
 
 
 
Dopo Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt Books, 2016), Giorgio Vasta torna a far dialogare la propria scrittura con gli scatti del fotografo statunitense Ramak Fazel in un progetto dedicato alla sua città natale: Palermo. Un’autobiografia nella luce (Humboldt Books, 2022). Autobiografia non convenzionale, dedicata a un tema centrale nel percorso di ogni scrittore: come trovare il proprio punto di vista?
 
Il testo muove da una crisi d’identità, quella dei trent’anni. Preso da una sorta di afasia (“l’aria mi parlava nella bocca”, p. 9) e, più in generale, dall’incapacità di dominare il proprio linguaggio, il protagonista vaga in una vita impersonale consumando il proprio tempo con un programma di grafica: “Chiara mi fece scoprire l’esistenza di un software che permette di decidere non solo l’angolo dal quale illuminare un modellino realizzato al computer, ma anche la particolare qualità della luce proiettata su quel render (…) una città del mondo, una stagione Palermo GIorgio Vasta Ramak Fazeldell’anno, un’ora del giorno” (p. 10).
 
Eccolo gingillarsi con la luce di Istanbul, di Buenos Aires o di Reykjavik, perdersi in una sequenza inconcludente di esperimenti senza affrontare la propria impasse esistenziale. Il confronto con la città natale, non a caso, è rimandato di continuo (“il pensiero di vederla materializzarsi [la luce di Palermo, ndr], anche solo come finizione, mi faceva stare male”, p. 13). Eppure, nella luce c’è la chiave per comprendersi. La sua vita è infatti stata fino a quel punto un continuo abbaglio – parola chiave nell’opera -, un accecamento perenne che ha impedito alle forme del reale di emergere e di essere colte da un punto di vista personale. D’altronde: “la luce è dappertutto e da sempre e per sempre, ma io sapevo che a esasperarmi era il bisogno di individuare nel dappertutto e nel da sempre e nel per sempre, una sua forma specifica, o meglio una mia forma specifica, una luce mia, sapevo che quella forma esisteva ma non sapevo dove (…) in una mia archeologia fantastica dove memoria e invenzione erano indiscernibili” (p. 18).
 
E se vista e linguaggio (voce) sono legati intimamente, serve tornare dove quel linguaggio, in quella luce, è nato: a Palermo. Il narratore vi rientra ormai nell’età adulta insieme a Ramak Fazel, coautore trasformato in personaggio, il bianconiglio che saprà guidarlo verso l’agnizione: abbandonata ogni velleità di comprensione assoluta (“penetrati ormai entrambi nella famigerata vita adulta, e avendo iniziato a precipitare verso non si sa bene cosa, noi non potevamo che andare a zonzo, parlare a vanvera, passare il tempo nella vulnerabilità del senso.”, p. 33), l’unica soluzione disponibile è l’esplorazione casuale della realtà nelle sue zone d’ombra, dove lo sguardo si assottiglia e diviene capace, finalmente, di dire: “era come se a quel punto delle nostre vite il mio modo di immaginare e quello di Ramak – il suo modo di fotografare, il mio modo di scrivere – fossero inseparabili dal crepuscolo” (p. 34).
 
È proprio il fotografo a offrire la chiave di volta della ricerca risalendo all’esperienza primigenia del suo punto di vista, la camera oscura dove ha dato per la prima volta forma alla luce: “un lenzuolo sulla spalliera di due sedie, lui e sua sorella se ne stavano accovacciati uno accanto all’altra in quel teepee improvvisato in soggiorno (…) pomeriggi trascorsi sotto il lenzuolo. (…) tutto ciò che c’è esiste sottovoce” (p. 36 – 37).
 
Ecco allora la ricognizione della voce narrante di ogni “esperienza della luce” (p. 19) della sua vita, la rielaborazione di quel “prodigio della cecità e dei bagliori” (ibidem) in cui è cresciuto. Dagli abbagli infantili (“rivedevo la luce elastica arancione trapelare dal Super Santos che nel 1977 calciavo lungo i vialetti del giardino pubblico di fronte casa”, p. 19), al cinema, in sala o in dvd (definito “giacimento di luce”, p. 23), alla televisione, cardine di quella cultura pop così importante per Vasta (si pensi al tessuto culturale in cui si muove il protagonista de Il tempo materiale, minimum fax 2008), a internet e alla pornografia.
 
Fino alla luce di Palermo. In presa diretta, passeggiando fra le sue strade. Perché solo adesso il protagonista è pronto a incontrarla per davvero nelle sue mille apparizioni spaesate, fuori luogo: “A Palermo il cretaceo è ieri. (…) Palermo era come il dinosauro: una cosa ignota e ignara, anteriore a ogni trama, e se a Palermo una trama c’era, aveva aggiunto, allora era come quando all’inizio del gioco si gettano i bastoncini dello Shangai e guardandoli sparpagliarsi si avverte un senso di euforia e di sgomento. (…) Il fatto che Palermo fosse sempre a pezzi era sì frustrante ma allo stesso tempo gli sembrava una rivelazione: questo continuo eccedersi e disperdersi riguardava non solo una specifica città ma l’umano” (p. 35).
 
La ricerca sulla luce, da astratta, diventa materica. Coincide con i rullini di Ramak (“lo sguardo ha una consistenza, mi ero detto in quel momento, una temperatura e un peso”, p. 39) e con lo spazio occupato dal protagonista bambino: “Palermo coincideva con i metri quadri nella casa in cui ero cresciuto” (p. 39). Una casa dove tornare, cercare vecchi filmini e riconoscersi nelle inquadrature frammentate, piene di spezzoni mancanti. Ricongiungersi a sé stessi ma nello sguardo di un altro, quello del padre. Risalire all’atto primigenio, indietro e avanti nel tempo, tornare alla nascita biologica e artistica della soggettività: “la luce che illumina la camera da letto non sa niente e non sa niente il padre che osserva il neonato nudo al centro della trapunta” (p. 42). Ascoltare la voce di quell’uomo per trovare la propria (“domandandomi se tutta la mia nostalgia della luce non fosse altro che una nostalgia della voce: di una voce”, p. 45). Trovare infine le parole per trasformare uno sguardo in linguaggio. In un percorso continuo – vanverare, zonzare – alla ricerca di un corpuscolo di realtà da vedere, da dire.
 
La seconda metà del volume è dedicata alle foto di Ramak Fazel (City of Phantoms). È la luce del flash del fotografo statunitense, la tecnica insistita del fill-in in pieno giorno fra le strade della città, a imporsi sul reale. Un corpo a corpo fra il proprio lampo (punto di vista) e la luce circostante, un sortilegio per evocare forme (fantasmi, appunto) dalla massa tumultuosa della città (quella Palermo come “Absoltely everithing”, p. 36). Un punto di vista lontano dalle celebrazioni storico-artistiche o dalla denuncia giornalistica, aderente al flusso della vita presente: un modo di guardare, esserci – dietro le espressioni dei soggetti si percepisce il contatto col fotografo, la relazione in atto – per andare il più vicino possibile alla propria comprensione.
 
Un libro remoto, un a parte lento – tratto inconfondibile della prosa di Vasta, della sua assoluta precisione lessicale che impone al lettore una pausa su ogni singola frase. La riflessione scritta sottovoce di un artista sul senso del proprio operare, con tutte le sue zone grigie e i pezzi mancanti. Procedendo per lacune, abbagli, fino a definire un corpuscolo di reale. Relativo, e per questo personale. Tutto quello che forse è concesso di fare a un artista e a ognuno di noi. Perché, come recita la chiusa del testo: “Nei pressi. Le parole vivono nei pressi di qualcosa, di quella cosa che si nasconde nella luce” (p. 47).
 
 
(Agostino Bimbo)
 
 

Lascia un commento