Temevo dicessi l’amore

 

 

I racconti di Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo (TerraRossa Edizioni, 2023) hanno un centro gravitazionale: Ofelia. Non riusciamo a ricostruirne il volto, gli accadimenti della vita in sequenza lineare. Poco importa. Sappiamo solo che la protagonista è un personaggio lunare che spiazza gli interlocutori con le sue osservazioni eccentriche, spesso al limite del surreale. Ofelia che parla con i cani e con i loro fantasmi, con esseri umani vivi e morti, costruisce cavalli di legno per le giostre, spara al tiro a segno e va sulle montagne russe al lunapark, ama donne e uomini con la stessa profondità, anche se per un periodo della sua vita è stata un angelo.

Temevo dicessi l'amoreNon c’è una vera trama nella raccolta. Sappiamo che Ofelia è madre, sorella, figlia e amante nelle epoche della narrazione – infanzia, giovinezza universitaria, maturità. Quello che importa sono le relazioni che ha intessuto di volta in volta e che continuano a rincorrersi, sovrapporsi. Relazioni delineate con grande sensibilità nei loro meccanismi di attrazione e repulsione, sincronia e disaccordo, detto e non detto. Narrate a più voci, quanti i personaggi.

Ma a Mattia Grigolo non interessa la polifonia, la distinzione stilistica dei vari frammenti, né l’evoluzione della protagonista fra un blocco narrativo e l’altro. Tutto appare immobile, rarefatto. Un album fotografico dedicato a un solo soggetto inesauribile da ritrarre utilizzando lo sfuocato, il mosso, per vivificare le mille espressioni. Ciò conferisce al libro il carattere di una costruzione lirica: una raccolta di poesie in cui, direttamente o indirettamente, è l’io della protagonista a parlare. A svelare o nascondere i propri sentimenti. A portarci in profondità grazie alla giustapposizione di attimi distanti nel tempo, situazioni indefinite, emozioni fugaci.

L’elemento unificante dell’opera è l’uso sapiente dei dialoghi. Si ha la sensazione di ascoltare frammenti di un’unica conversazione. Ogni battuta spiazza e tiene in bilico il lettore, suggerisce un’interpretazione o la sospende, spinge alla ricerca di un senso ulteriore al di là delle singole situazioni, come in un libro sapienziale.

Fra i tanti esempi:
«Parli ancora con tuo padre?» (…)
«A volte.»
«Cosa ti manca di lui?»
«Il nostro cane.»
«Parlami della tua solitudine» (pp. 79-80)

«Sai dove mi ha portata?» (…)
«In un cantiere.»
«Un cantiere qualsiasi?»

«Il cantiere che c’è ora dove prima c’era la sua casa d’infanzia.»
«Che cosa commovente.»
«Gli ho chiesto di portarmi in un posto dove non avrei dovuto pensare.»
«E invece ti ha portato nel posto dove lui non può fare a meno di pensare.»
«I suoi pensieri che sotterrano i miei.» (p. 84)

O ancora:
«Signora, non c’è nessuna casa qui.»
Uno di loro si butta dentro l’abitacolo e abbassa il volume dell’autoradio.
«La casa è proprio qui, dove avete parcheggiato la vostra macchina. Non si può parcheggiare in un salotto.» (p. 131)

La conseguenza fondamentale è che in questo paesaggio narrativo diafano ogni elemento assume una grande forza evocativa, magica. Gli animali e gli oggetti disseminati nel testo – pappagalli, cavalli, cani, gatti randagi da adottare, fenicotteri, coyote, volpi – riflettono aspetti taciuti, sotterranei, delle relazioni fra i personaggi, di cui vediamo solo la parte esteriore nei dialoghi e nei gesti compiuti. Persino i capelli rasati di una cameriera diventano lo spettro di un legame: “Entrati nel bar sentimmo odore di bruciato. Chiedemmo di lui alla ragazza con lo straccio in mano. Portava i capelli rasati e, di tanto in tanto, passava una mano sulla testa, come se ne sentisse la mancanza” (p. 99).

Tutti cercano Ofelia, e viceversa. Il suo passato e il suo presente si rincorrono – nell’ultimo racconto, Una cosa da streghe, il buco sul pavimento del bagno in ristrutturazione di una donna anziana sembra un varco temporale per riannodare una relazione perduta. Lo stesso fanno i vivi e i morti intorno a lei – in Eravamo, Ofelia frequenta una associazione di aspiranti suicidi e conversa con i fantasmi di suo padre e del suo cane (“Suo padre sgancia una lattina di Pepsi e ci attacca le labbra. Ingolla rumorosamente. Ofelia si domande se, nella realtà, la stia bevendo lei. Si fa un appunto mentale: ricordati di controllare se domani trovi la lattina aperta”, p. 81).

Ogni personaggio tenta di chiudere il cerchio della sua vita affettiva ma non ci riesce. Lo stesso titolo riflette tale irresolutezza, così vicina a quella della vita reale. A lettura ultimata si ha infatti la sensazione di aver attraversato decine di esistenze, familiari e allo stesso tempo aliene grazie alla parabola eccentrica di Ofelia, forse anch’essa simbolo dell’evanescenza – affettiva, geografica e sociale – delle relazioni umane.

 

 

Agostino Bimbo

Lascia un commento