Leida

 
 

di Morgana Chittari.

 
 

La storia inizia dal nome. Un nome di donna.
 
Ogni storia di donna inizia dal ventre sfatto di un’altra donna dalla quale dipenderà per sempre. La donna, Delia. Una cosa – creatura – dura e dolente.
 
Quindi D. Dalie? Un fiore? No, banale. Dilea, o Diale? Non suona.
 
Generare è far esistere. Per far esistere bisogna dare un nome. E che sia una forma franta e sfatta di me ma che sia lieve e stia bene sulle labbra. Un suono. L. Lieda, o Ladie? Non suona.
 
Leida?
 
Sì, Leida.
LeidaIl nome ricompose un volto di bambina sul post it numero dieci. Ancora non esisteva e già aveva un nome. Di più, aveva un suono. E quante volte lo avrebbe ripetuto nell’arco di un’intera vita, anzi due. Le loro due vite intrecciate inchiodate inchiavardate.
 
Così da Delia doveva nascere Leida, come una necessità, un suono dipeso, appeso per sempre alla nota storta che l’ha generato.
 
La storia inizia al 99 di via Finisterre. L’ultima casa della via più lunga di Roccaperciata: 3,9 chilometri, ventisei cipressi, tredici per lato.
 
Una casa – come un nome, come una strada – si può misurare. Ventisettemetriquadri è la misura della casa.
 
Delia vi si trasferì dopo la nascita della bambina. L’uomo con cui l’aveva concepita era stato pagato per accoppiarsi con lei e poi sparire, la notte stessa, senza far domande.
La voleva tutta per sé, quella bella cosa – creatura – e tutto ciò che stava fuori dal perimetro della casa non sarebbe dovuto esistere per Leida.
 
Non si poteva gettare in pasto al mondo un suono così delicato, lasciare che altri se lo infilassero in bocca, lo consumassero.
 
Bisognava proteggerlo, tenerlo dentro, intatto, puro, quel suono.
 
Il solo modo per impedire che la vedessero, che la sporcassero, quella cosa – creatura – era tenere serrate e inchiavardate porte e finestre.
 
Prima di andare a dormire, il rito: guardare la loro immagine riflessa allo specchio.
 
Vedi? Non siamo sole, sussurrava Delia.
 
Sì, lo so, mamminacara. E con noi ci sono anche Gregor e le formichine.
 
Leida sfiorava con l’indice la propria immagine riflessa, e rideva. Nello specchio, l’Altra Lei ripeteva il gesto senza far rumore.
 
Quando Leida rideva le pareti in cartongesso vibravano, mobili e oggetti avanzavano o indietreggiavano di qualche centimetro.
 
Allora Delia si ancorava al bordo del lavabo e Va bene, basta, è ora di dormire, dichiarava, secca. Le quattro donne si congedavano con un rapido movimento della mano.  
Stesso naso aquilino, stesso volto scavato, stesse labbra, fini come lame, differenti solo nella curvatura: in Delia era una mezzaluna con le punte rovesciate, tirate in basso dalla mancanza, da un desiderio finito male.
 
Dal lavello della cucina alla bergère marrone, procedendo in diagonale, c’erano sette passi, sette mattonelle, bianca-nera-bianca-nera-bianca-nera-bianca, sette rombi di una scacchiera. A Delia piaceva calpestare questa geometria perfetta, posizionare i passi e le cose sul tabellone. Impartì ordini e posizioni alle cose e Qui dovete stare. Parlava alle cose. Le cose avevano capito e non si erano ribellate.
 
All’inizio.
 
Millequattrocentosessantacinque giorni, dieci minuti e diciassette secondi dopo Delia udì una risata cristallina, poi un botto, un crepitio, e un suono sordo come il buio misto a uno stridio straziante: lo specchio del bagno in frantumi, trentuno maioliche sbreccate, diciotto fessure sul cartongesso, cacche di topo sette, formiche rosse nella cesta del pane ventuno, la sedia F spostata in B 4-B 5, la sedia X ribaltata con le gambe spezzate in B 12-B 13, l’armadio G abbattuto in soggiorno tra F 1 e F 5.
 
Delia inarcò la colonna vertebrale all’indietro fin quasi a spezzarsi, le sue grida convulse ridestarono dal sonno Gregor che sbucò fuori dal suo nascondiglio e prese a girarle attorno in A 2-A 3.
 
In preda a un moto di rabida ferocia, Delia sollevò il piede destro e schiacciò Gregor.
 
Il sangue della creatura schizzò in A 7 bianco. Si voltò di scatto e si diresse con passo marziale verso la camera di Leida. La trovò in piedi sulla sedia Y. Le tende strappate, il vetro della finestra crepato, Leida provava a forzare la serratura delle inferriate con un coltellaccio.
 
Si voltò verso la madre e glielo puntò contro.
 
Al posto del sorriso, una mezzaluna rovesciata.

 
 

Morgana Chittati nasce nel 1986. Si laurea in Lettere Moderne a Milano dove si occupa di giornalismo. Nel 2011 è tra i fondatori della redazione di Stampo Antimafioso, sotto la direzione di Nando Dalla Chiesa, e tra i vincitori del concorso di poesia dell’Università Statale, premiata con la pubblicazione da Mimesis. Ha collaborato con L’Eco della Stampa. Suoi racconti, poesie e recensioni sono apparsi e appariranno sulle riviste Sulla Quarta Corda, Suite italiana e Risme. Per Lekton Edizioni è uscita nel 2021 la raccolta di racconti Frantumi. Sedotta dal dialogo tra discipline si è formata e ha avuto esperienze nell’ambito della recitazione teatrale, studia le neuroscienze, pratica la boxe e la pittura. È ghostwriter e responsabile comunicazione.

 
 

Illustrazione originale di Elena Baila.

 
 

Elena Baila Artista poliedrica, visual&sound storyteller. Ha partecipato a svariate letture, esposizioni personali e collettive, ha collaborato e pubblicato elaborati artistici, fotografici e testi con diverse riviste e case editrici. Altre tavole sono apparse su Squadernauti, qui e qui.

 
 

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