Cuccioli

 

 
 
 
di Elena Soprano
 
 
 

 

(Greta 15-30-45)

Greta era quella che Emma avrebbe voluto essere. Eterea e con senso dell’umorismo, bella nell’essenziale, senza alcun problema tecnico con Mozart.  E i suoi esami in conservatorio sostenuti con la naturale semplicità di chi fa quello per cui è nato. Voti eccelsi e nel frattempo il liceo classico.
Gli esami di Emma invece fatti sgobbando, ogni volta con un principio di tachicardia e la sensazione di essersi imbarcata sulla nave sbagliata, i voti poco più che sufficienti e la scuola superiore una di quelle dove poi l’università la puoi anche non fare.
All’ultimo esame prima del diploma, lei, inizia anche composizione. E tutti i compagni di corso comuni mortali che pensano: “Minchia, la Greta!” La si immagina in un futuro di sale da concerto in Germania e in Australia, in prime esecuzioni assolute di suoi pezzi a New York.
Nel turbinio dell’adolescenza si perdono. Emma ha il suo momento di gloria e liberazione quando alla fine di una lezione dice all’insegnante: «Guardi, qui mi sento sul Titanic, mi fiondo sulla prima scialuppa che c’è».

CuccioliÈ un mattino di pieno inverno di un 31 dicembre senza un piano A e neanche un piano B. Il chitarrista che frequenta è un turnista di studio e di affetti, e questa notte la session non è a casa sua. Nell’instabilità delle sue relazioni Emma ha capito che l’unico punto fermo è l’assenza degli uomini alle feste da calendario.
La sua amica K si è involata a Berlino a fare il cervello in fuga dormendo sul divano di un amico film maker. Per la serata potrebbe accettare l’invito della sua portinaia Carmela. Napoletana, ha undici fratelli e la notte di Capodanno la fanno sempre al ristorante. Ne affittano uno  per stare in famiglia: un centinaio di persone tra cugini e nipoti. Ci penserà all’ultimo.
È fuori dalla sua zona, ha pranzato col direttore di un mensile specializzato in architettura. Fa un giro nei pressi, tra gente che si affretta per gli ultimi acquisti prima del cenone e bar che anticipano gli aperitivi. Trova un negozietto di roba niente male, vende abiti usati di tutti i tipi e non solo vintage.
C’è una donna di spalle, i capelli corti biondo sabbia, una maglia di ciniglia verde acqua e dei jeans larghi, sformati, Clarcks beige. Una al di fuori da qualsiasi trend. Sta parlando al telefono, sta dicendo qualcosa su delle tende usate: – No, mi spiace, qui non possiamo venderle… Ha provato alla Caritas?
È allora che la riconosce dalla voce, dal suo timbro pieno, ma leggero, dalla risatina a metà frase quasi fosse una congiunzione. Greta non ha mai dato importanza all’aspetto esteriore, mai un filo di trucco, mai indossato qualcosa che fosse alla moda. Ora ha un look che si nota per la troppa mancanza di importanza che gli è stata data. 
– E i tendoni di velluto grigio della Merri per insonorizzare ogni slancio di fantasia? – fa Emma.
– Ma no! – esclama Greta girandosi e ridendo. 
Baci e abbracci, in un nano secondo si ritorna all’epoca dei brufoli gialli alla base delle narici, del seno all’improvviso imbarazzante, dei troppi peli sulle gambe per mettersi gli shorts, dei primi mestrui da gestire col terrore di macchiare il letto. L’epoca dove la natura con la sua pelliccia e le sue ghiandole mammarie prende il sopravvento e confonde. Poi il pensiero: “Ma non doveva essere a Melbourne o a Boston?”. E mentre parlano realizza che Greta non è una cliente del negozio, ma la commessa.
– E la musica? – le esce di botto. 
– Eh, adesso è un po’ difficile, con quattro figli. 
– Quattro?
Ride. La sua risata cherubina, che sembra uscire da una nuvola, ha sempre reso tutto più sopportabile. Sì, dai ventidue ai trenta ne ha fatti quattro. E le racconta in moviola qualcosa di sé. Abita in una cascina insieme ad altre otto famiglie. Una comune, ogni famiglia dà una quota mensile per le spese di bollette e affitto, ognuno dà quel che può. Nessuno si sente obbligato, tutti collaborano. Non è qui da molti anni, è stata in Burundi, i primi tre figli sono nati là. Ha quasi rotto con i suoi genitori quando come regalo di matrimonio ha chiesto a tutti di fare un’offerta per l’ospedale del paese di Karusi, dove poi si sarebbero trasferiti. 
– Sai che coi soldi risparmiati là abbiamo comprato diciassette letti e allestito tutta la nursery?
“Minchia, la Greta!” vorrebbe dire la Emma. Chiede invece del marito. 
– È stata antipatia a prima vista, lui fa sempre questo effetto.

– Programmi per la serata?
– Niente di che.
– Vieni in cascina da noi, no?

La cascina, ristrutturata di fresco, è un intero complesso di villette mono o bifamiliari. – Alla faccia! – esclama Emma guardandosi intorno, fissando il pavimento in cotto del patio.
– Ma è una roba da Smartbox per week end da anniversario… Io ho quaranta metri quadri in un palazzo grigio topo di via MacMahon. Ho per modo dire: il solito affitto sfinente.
– Sai, c’è un sacco di gente che aiuta e vuole aiutare. Son quattro anni che in vacanza andiamo a Forte dei Marmi, gratis. 
Gli va incontro un tizio con una cuffia di lana color vino calata quasi sugli occhi. Non troppo alto, corporatura compatta, carnagione chiara con quel tipo di barba che rasi la mattina e al secondo pomeriggio è già lì in agguato. Eccolo, l’Alberto.

Quando al mattino dopo Greta la riaccompagna al metrò, Emma ha la precisa convinzione che non la rivedrà mai più. C’è un sole pallido come i tuorli di certe uova che ti ricordano un limone, sono le nove del mattino, presto per andarsene dopo una notte di Capodanno ma anche tardi per rimanere. La stessa aria di immobilità che si avverte dopo una catastrofe, nessuno per strada. Arrivano alla stazione di Cascina Gobba alla fine di un discorso tanto neutro quanto inutile sul noleggio delle fotocopiatrici, in cascina almeno una ne servirebbe. Emma la saluta come se dovesse partire per la luna. Per carità, tutto è andato per il meglio, ha anche visto il famoso album del matrimonio, giocato a Shangai e a Monopoly con i suoi figli, cantato Hey Jude con una quarantina di sconosciuti. 
È per la storia dei cuccioli. In tutta questa bella vita di comunità e strategie alternative, di principi solidali e verdure auto-coltivate, la violenza ha il suo microspazio per sopravvivere indisturbata. Tanti bei gattini e una cagnolina, Bessi. 
– Se non ci stai attento, qui si riempie… – aveva detto Greta indicandola, – L’ultima volta ne ha fatti sei. 
– Siete riusciti a piazzarli tutti? – aveva domandato Emma.
– No, l’Alberto li ha uccisi appena nati, un colpo secco contro il muro. 

Quindici anni dopo, ultimo giorno dell’anno. Pomeriggio, coda al Museo di Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci tra genitori con bambini in fase corsa roteante, turisti giornalieri con uova sode nello zaino, coppie alla ricerca di un sodalizio culturale. Una Milano bella e ghiacciata fra teatri, piste di pattinaggio, gita sul barcone alla Darsena. Di nuovo, riconosce il timbro setoso che emerge dal magma sonoro di voci nella hall: le arriva come un odore e le dice “seguimi”. È poco più avanti. È grossa. Quel suo color nocciola sfumato su varie tonalità che la ricopriva facendola sembrare una delicata creatura di bosco, si è sbiancato. Sembra un tasso.
– Greta! – esclama Emma. La storia dei cuccioli totalmente rimossa. Lei è l’aggancio ai suoi tredici anni, quando si osservava il mondo da un trampolino dove ogni cosa poteva essere credibile e desiderabile. Greta si volta, sorride: – Non ci credo!”. L’abbraccia. 
L’Alberto non è cambiato di una virgola, ha la solita cuffia a preservativo calata sopra gli occhi e l’ombratura scura della barba sul viso. Accanto a lui, una bambina.
– Non dirmi che è la tua nipotina, – butta là Emma. 
– È mia figlia, – dice Greta senza smettere di sorridere, probabilmente si è allenata a farlo per tutte le volte che ha dovuto dirlo: il figlio, il maggiore, è morto otto anni prima, una partita al campetto di calcio, infarto secco.  – Aveva una malformazione al cuore, non lo sapevamo.
 Poi era arrivata lei.
“Cuccioli. C’è sempre un modo diverso di fare le cose” pensa Emma. Nel nuovo sunto in un minuto della sua vita presenta la figlia, anche lei ha otto anni. Uomini in pole position di cui parlare non ce n’è neppure questa volta. Il padre della bambina si perde in una splendida notte di luglio a Lesbos. 
– Mi sono laureata in paleografia musicale, – dice Emma, il cerchio con la musica è chiuso. 
Si confrontano sui rispettivi morti. La madre di Greta se n’è andata di Alzheimer. Emma ha perso due sorelle. Frasi sospese, sguardi di apparente disinvoltura. Senza che se ne accorgano si ritrovano davanti al bancone della biglietteria trasportate da un tapis roulant invisibile. Nessuna delle due osa chiedere cosa farà l’altra in serata. Un abbraccio, un bacio e la solita stretta di mano di celata ostilità con l’Alberto. Le loro figlie si specchiano per un istante l’una nell’altra scoprendo un’improvvisa variazione di sé stesse, poi si rimbalzano un timido ciao. Emma si infila nel corridoio per la sezione Spazio. Greta prosegue per il sottomarino Toti. Mondi altri di aria e di acqua le chiamano. 
 
 

Elena Soprano esordisce nel 1994 col romanzo La Maschera, premio Lerici Opera Prima, tradotto in cinque paesi. Da quel momento scrive per grandi e per piccoli e ha pubblicato, fra gli altri, con Archinto, Baldini e Castoldi, La Tartaruga, Topipittori. Ha scritto testi radiofonici per la Rai e la Radio Svizzera Italiana, e racconti per numerosi periodici. È di origine greca e colleziona da sempre bottoni trovati in terra.

 
 

Illustrazione originale di G. C. Cuevas.

 

G. C. Cuevas è un artista con base a Milano. La sua maggiore fonte di ispirazione arriva dall’arte macabra di Edward Gorey, ma anche dai lavori di Tim Burton, Mark Alan Stamaty, Quentin Blake e Jean Giraud. Le illustrazioni di G. C. Cuevas si concentrano su ambienti surreali, dove bambini si trovano spesso in situazioni di pericolo, poiché accompagnati da creature bizzarre, misteriose figure mascherate o oggetti sproporzionati e fuori contesto. Altre sue tavole sono apparse su Squadernauti, qui, qui, qui, qui, e qui.

 

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