Cronache dalle terre di Scarciafratta

 
 
 
 

“Così una mattina […] mi ci sono messo di tacco e di punta, con la mia scrittura sgraziata, a ridare voce a quelli sommersi dalla morte, scopiazzavo e li facevo parlare ancora, me li sentivo tutti vicini, che mi giravano intorno come durante un tresette alla cantina. Ci ristavano pure loro dentro a sta camera slavata, che è come un paese senza paese…” (p. 69).

I nomi e le storie delle Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax 2021) sono sepolti sotto la polvere e i calcinacci, tra le macerie del terremoto, “La Cosa Brutta”, che ha cancellato il piccolo borgo, radendone al suolo case, scuola, municipio, seppellendo nell’oblio le orme dei pochi abitanti avanzati al desiderio di fuga.

Tra quei cumuli ormai muti e le anse contorte della memoria va a scavare Remo Rapino, per mano e con gli occhi e la voce di Mengo, all’anagrafe Ruscitti Domenico Giuseppe, ultimo ostinato superstite e testimone dell’altra storia, quella vissuta, o subita, da chi se n’è andato in cerca di un futuro migliore e da coloro che hanno scelto di restare. Mengo per chi ne ha incrociato il cammino, vissuto nutrendosi delle esistenze altrui e sopravvissuto rifugiandosi nel ricordo di gioie, dolori, prodigi e più spesso miserie che quelle esistenze hanno accompagnato.

Cronache dalle terre di Scarciafratta

Esistenze spesso smarrite ben prima dell’ultima chiamata. Come per Policorvo Nicolino, che di case ne ha costruite tante e non ne possiede una, “figlio di qualcuno e fratello di tutti, e per tutti Culì, lo scemo, quello che gli basta un sorriso e una pacca sulle spalle per essere felice” (p. 101), ma non lo sa se è davvero felice. Come per Trovato Ginuccio, a completare l’improbabile eppure familiare triade con Mengo e Nicolino, perché “tre scemi tutti insieme non è facile incontrarli di questi tempi che tutti sanno tutto” (p. 102). Lui in bocca alle malelingue è Ticchiotto, ma solo quando non è presente, altrimenti sono strilli e maledizioni, sogna di essere promosso a sacrestano e campanaro, e intanto si accontenta di fare il vice, mentre aspetta che la vecchiaia o qualche accidente si prendano il legittimo titolare dell’incarico.

Alle loro storie, alla storia di Capezza Malvina, la magara che toglie il malocchio e dispensa filtri d’amore; dei fratelli Teodosia e Antoniuccio, i quali hanno perso il sonno e con esso i sogni; di Bonaluce Artemisio, cantiniere e poeta, capace di dare un nome al milite ignoto e dedito ai versi perché “la poesia serve a campà e basta” (p. 141); e a quelle di tanti altri, riemerse nel disperato scavare a mani nude tra quanto resta a terra dopo l’apocalisse, si aggiungono le parole di coloro che l’ultimo custode della memoria paesana, anacronistico e un po’ cocciamatte paladino della resistenza alla scordanza, l’hanno conosciuto: il delicato ricordo dell’assistente della casa di riposo nella quale Mengo è morto, nello stesso giorno in cui “Neil Alden Armstrong e Edwin Aldrin, astronauti americani, avvolti da un’analoga, appena percettibile solitudine, sbarcarono sulla luna” (p. 77); le cartelle cliniche dei medici; la “autografa testimonianza del D’annunzio Uberto Polimante, cultore di storia patria e poeta” (p. 85); e persino la confessione della “Cosa Brutta”, l’evento infausto che ha messo a tacere le ultime voci rimaste a succhiare il nulla tra le viuzze di Scarciafratta, fattosi voce e ricordo per tramandare i terribili istanti della fine.

E così, di nome in nome, di storia in storia, Scarciafratta riprende vita per il tempo che le parole risuonano popolando di facce e corpi lisi, vissuti fino al midollo, non le sue strade, ormai dominio della malerba, bensì l’animo del lettore, perché lì si combatte la vera battaglia in nome della memoria.

Remo Rapino, nel suo nuovo romanzo, prosegue il percorso di ricerca linguistica e antropologica che già con Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax 2019) aveva portato a fortunati esiti struggenti. Ma se in quel caso, seppure nel contesto di un romanzo corale, a dominare la scena era la figura del protagonista Liborio, e della sua novecentesca Odissea alla ricerca di una collocazione che ne certificasse l’esistenza e la dignità di individuo, qui ci troviamo tra le mani una Spoon River italiana, i cui nomi ed epitaffi non provengono dalle lapidi di un cimitero ma da un registro riemerso tra i resti del municipio, al quale un impiegato comunale ha affidato forse le proprie ambizioni letterarie, forse la semplice curiosità nei confronti del prossimo o un impeto di ribellione alla noia. Un pantheon abitato da anime che sembrano (e in parte sono) figlie di racconti soliti risuonare tra i tavoli di certi bar di provincia e che a quei tavoli ancora siedono, in un rimescolamento dei ruoli in cui il narratore e il narrato finiscono per non essere più distinguibili, anche (o soprattutto) grazie all’utilizzo di un idioma che è un tutt’uno con le anime e i luoghi, puro in quanto disseminato di contaminazioni dialettali, come a volerci ricordare che proprio a tale fertile humus dobbiamo la formidabile ricchezza della nostra lingua.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

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