Finta pelle

 
 
 

Finta pelle, scritto da Saverio Fattori e uscito per Marsilio nel maggio del 2020, è uno straordinario romanzo che si prende cura dell’umana incompiutezza. Non narra semplicemente l’umana compiutezza bensì se ne prende cura, perché – virtù rara nella letteratura contemporanea – c’è qualcosa di misericordioso nell’estrema attenzione dell’autore alla propria voce, sempre al servizio della vicenda e mai ansiosa di esibirsi; anche l’ironia, dove appare  (e appare spesso, e talvolta è irresistibile), mostra con benevolenza l’incapacità dei personaggi di governare la propria quota di realtà.

È la storia di un anonimo cinquantenne (nato precisamente nel 1967, come si ribadisce più volte nel romanzo, quasi che l’appartenenza a un’annata possa essere uno dei pochissimi, incontrovertibili motivi di riconoscimento e condivisione), ex tossicodipendente della provincia emiliana, che in un sito di cosiddetti incontri al buio conosce Tiziana, di tre anni più giovane di lui.

Tiziana è spinta ad addentrarsi in questo ambiente dalla repentina e inopinata degenerazione del proprio rapporto di coppia, che negli anni è stato consumato all’insegna di una certa monotonia. Monotonia forse voluta dalla stessa donna, a tutela del suo senso di inadeguatezza: “Paolo nelle foto non ride mai. Avevo sempre apprezzato questo atteggiamento trattenuto, così simile al mio, come se ogni ipotesi di felicità potesse solo imbarazzarci. A unirci era stato il disagio, non un ideale di gioia; difenderci in due forse sarebbe stato più facile”, p. 94.

Vero protagonista della vicenda è tuttavia l’uomo senza nome. Ma con un corpo indomito, spinto dalla smania incessante di reggere su di sé il peso grande dello stare al mondo. Se, una volta guarito dalla dipendenza da eroina, l’uomo gonfierà grottescamente i propri muscoli attraverso la pratica del body building, negli anni Ottanta del Novecento mescolerà – proprio con la tossicodipendenza – il desiderio di riscattarsi dalla propria inettitudine a quello di consegnarvisi definitivamente. Qui Fattori tratteggia situazioni e personaggi memorabili: la provincia italiana di allora, scompaginata dall’irruzione della droga, viene descritta con la precisione del sociologo, la cura del dettaglio propria dell’entomologo e la sensibilità (nonché la sospensione del giudizio) che possiede solo chi non sente il bisogno di covare complessi di superiorità. L’autore è altrettanto capace di non indulgere mai alla descrizione compiaciuta, a cui sarebbe facile cedere trattando un simile argomento.

Le cose, in Finta pelle, accadono, hanno motivi e conseguenze, e Saverio Fattori sa dire questi tre piani con una medesima lingua precisa, evocativa, ma senza mai sussulti gratuiti. E con un ritmo incalzante: “In città la politica, l’arte e l’eroina si erano mischiate, il fumettista Andrea Pazienza teneva sempre con sé un kit con una siringa di vetro da sterilizzare dopo l’uso e tutto l’occorrente per farsi, quasi fosse una consuetudine paramedica, ma quel buttare nel cesso la propria creatività sembrava la forma più alta di arte, e il disinteresse per i soldi e il successo il più politico degli atti. Ma noi eravamo la classe operaia della tossicodipendenza, una classe operaia senza alcuna coscienza, eravamo nati nella periferia di tutte le periferie, dove ogni cosa arrivava in ritardo, la musica come le cattive abitudini. Noi classe ’67 e ’68 avremmo dovuto essere un po’ più solari, ascoltare la new wave che incalzava, avremmo dovuto vivere in diretta, senza imprimerci a forza su una vecchia pellicola vestiti e atteggiati come scarti del periodo hippy”, pp. 32-3.

L’eroina era stata, in quegli anni, un tentativo rapido e tutto sommato di sicura efficacia per ritagliarsi attimi di confidenza con l’eterno. E gli effetti devastanti sull’organismo, paradossalmente, venivano spesso percepiti come il pegno tangibile di un’investitura: “L’eroina ti fa aderire all’idea di infinito, e tu sembri capirlo quel vuoto sconfinato e densissimo che chiamiamo universo; quando sei fatto il cervello è come in espansione, non conosce ostacoli o confini, al massimo della staticità corporea si contrappone uno stato mentale prossimo a una placida navigazione interstellare. Cosa ci raccontavamo tra tossici in quei giorni? I tossici portano una croce, hanno una missione troppo importante per concedersi altri interessi, musica a parte”, p. 38.

Il fatto che la dipendenza dalla droga di allora si travasi – da parte del protagonista – nella più recente soggezione a un sito di appuntamenti, oltre a dar vita a un finale sorprendente che lo vede coinvolto assieme a Tiziana, testimonia che nelle varie epoche muta solo esteriormente l’umana disposizione a ricercare il senso dell’esistenza, e quella – che scorre parallela in chiunque, e che finisce per soverchiare alcuni – a evadere dal mistero e dallo spavento dell’essere vivi: “Il buco era comunque un finale accettabile, come accettabile è l’orgasmo. Il vuoto nel quale sprofondo dopo lo spruzzo mi annulla, e in fondo questo cerco da sempre: la mia temporanea cancellazione dal presente e dal reale”, p. 99.

 
 
 

3 comments

  1. Ho letto il libro e riconosco a questa recensione l’assoluta fedeltà ai contenuti e un punto di vista disincantato e aderente alle (presumibil) intenzioni dell’autore che mi fa pensare: ma ci sei passato anche tu?

  2. Ho letto il libro e riconosco a questa recensione l’assoluta fedeltà ai contenuti e un punto di vista disincantato e aderente alle (presumibil) intenzioni dell’autore che mi fa pensare: ma ci sei passato anche tu?

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