La notte delle formiche volanti

 
 
 
di Walter Comoglio
 
 
 
 

Per arrivare in soffitta ho creato un corridoio tra elettrodomestici vecchi, porcellane e alberi di Natale piegati in tre pezzi.

L’ultima volta che ero salito fin quassù ero bambino, credo.

Ora mi sento enorme. Le foglie cadute durante gli anni si sono sedimentate nella cornice del lucernario e ho dovuto spingere forte con entrambe le braccia per sbucare sul tetto. Mi sono affacciato e ho provato a spingere lo sguardo fino alle colline, come se con gli occhi dovessi attraversare strati solidi di spazio. Il cielo era una lastra grigia e uniforme, sembrava avessero dimenticato di pagare qualcosa lassù.

Nonna dettava legge dall’inizio del corridoio.

Era preoccupata che le formiche potessero arrivare all’improvviso.

Ho chiuso il lucernario e mi è caduta della polvere addosso.

“Non si vede nulla,” ho detto.

 

Per portare a casa nonna ho dovuto firmare una serie di documenti della casa di riposo che attestavano la mia responsabilità. Un paio di fogli stampati con caratteri larghi, che sembravano appartenere a un’altra era geologica. Ho firmato e mi sono assunto le responsabilità, poi siamo saliti in auto.

“Quindi è ora?”
“Quando diventi vecchio poi capisci.”

“Pensa se non divento vecchio.”
“Non far lo scemo.”

Nel viaggio si è lamentata che all’Istituto vogliono sempre che dorma il pomeriggio ma lei non ha sonno.

“Noi gemelli siamo sempre in movimento.”

Ha sorriso fiera di sé, poi si è messa a guardare fuori dal finestrino.

“È brutto diventare vecchi”, ha sospirato.

Quando mancava poco all’ingresso del paese, di punto in bianco ha iniziato a raccontarmi che da piccolo erodavvero bruttissimo, avevo la testa gigante e la prima volta che mi ha visto si era spaventata. Mi ha chiesto se ricordavo di quando mi sono venute le bolle su tutta la faccia, di come ero brutto. Le ho detto che quella è un’esperienza che mi ha segnato profondamente. Ha sospirato. Le ho chiesto come è stato il passaggio da vecchia autosufficiente a vecchia in ospizio, se la vede come una crescita personale inevitabile o come una caduta controllata dentro al burrone. Si è messa a ridere.

Alcuni operai stavano asfaltando sulla strada e montavano un guardrail alla curva di San Rocco. Mi sono dovuto fermare. Sembrava che tutto quel casino che di betoniere e grimaldelli che saltano arrivasse fin dentro la macchina. Ho iniziato a gridare vocali, provando a elevare la voce sopra il frastuono. Nonna mi ha seguito e siamo passati davanti gli operai con la bocca aperta come due scemi.

 

La maggior parte delle formiche moriva durante il viaggio, perché da un punto di vista ormonale non riuscivano a gestire l’eccitazione. Morivano principalmente di attacchi di cuore. Erano attratte dal calore della terra, planavano, sbattendo contro auto e recinzioni e volavano basse, quasi a livello del suolo, invadendo le strade e i giardini. Restavano in città confuse ed esaltate tutta la sera e anche la notte, ammucchiandosi dove vedevano un po’ di luce. Si scontravano tra loro, si accoppiavano e si dividevano, a volte qualcuna crollava al suolo, mentre altre si ricompattavano calamitandosi l’una all’altra e fluttuavano nell’aria irrimediabilmente attratte dal potersi muovere in branco. La mattina dopo quelle ancora vive sparivano così com’erano arrivate.

Quando siamo scesi dalla soffitta nonna si è seduta sul divano. Le ho detto che avevo scritto una specie di epitaffio e che se voleva lo avrei letto. A dire il vero lo avrei letto comunque. Fa così:

 

Io non credo sia qui dentro. E non fraintendete, non sto insinuando che il suo corpo non sia qui. Sto semplicemente dicendo che il significato simbolico di questa cerimonia non trova riscontri nella vita di mia nonna e non ha nulla a che a vedere con lei. Questa cerimonia, pensata per non lasciarci soli, per farci sentire parte di qualcosa di infinitamente più grande, arriva al risultato opposto. Ci spoglia della nostra individualità per l’ultima volta, in nome della fratellanza che ci accomuna nel momento della morte. Per cui davvero, nulla di ciò che state vedendo o ascoltando ha senso. E nonna, che fisicamente sta lì dentro, bionda ossigenata come sempre, con le labbra meno rosse del solito, le palpebre socchiuse, non ha nulla a che vedere con questo posto.

Nonna si preparava alla morte con la consapevolezza che quando sarebbe arrivato il momento, non se ne sarebbe neanche accorta: era attratta – come tutte le persone anziane peraltro– dalle bare e dai monumenti funerari, ci pensava spesso e fantasticava, ma questo non significa nulla.

Perché dopo tornava alla vita; tornava a raccogliere ciliegie su un ramo sporgente che poteva raggiungere dal balcone di casa sua, tornava a incipriarsi le guance e andare a ballare lo swing, con quel gusto retrò che oggi va pure di moda, tornava anche a mettersi nei guai. Nella sua immensa ignoranza parlava senza paura di ferire gli altri: essere vecchi vuol dire permettersi di essere fieramente sconclusionati.

Nonna amava la confusione, metteva ordine ovunque perché in realtà amava la confusione e non c’era gusto se tutto sembrava già confuso. È stata vedova due volte ma non si è mai abbattuta. Aveva 5 sorelle e un fratello, lei era la seconda più anziana. Quando era piccola rubava nei campi e mi ha raccontato che rubava per fame. Io la conosco, non rubava per fame, perlomeno non solo, lo faceva per seguire la sua attitudine. A nonna piaceva rubare. Quando durante la guerra in paese si faceva difficoltà a mettere insieme un pasto, lei andava a rubare la frutta dagli alberi nella tenuta del Duca e non lo faceva per fame. Mentre le sue sorelle e gli altri ragazzi riempivano i loro sacchi neri fino all’orlo, con il terrore di essere scoperti da un momento all’altro, lei raccoglieva un frutto per volta e lo nascondeva in un fossato appena fuori dalla tenuta. Quando i ragazzi venivano intercettati dalle guardie, erano costretti ad abbandonare il loro bottino per non essere colpiti dalle cartucce a sale. Nonna invece poteva correre via leggera, aspettare che le acque si calmassero e la sera, con una scusa, andare a recuperare il tutto. Durante la guerra era l’unica bambina che mangiava con regolarità in tutto il paese. Perché aveva una sua tecnica, una sua individualità. Quella che ora la morte sta provando a nascondere, come se non fosse conveniente. Nonna era naif, in assoluto la persona più naif e senza limiti che abbia mia conosciuto. Credeva a tutto ma non credeva in niente. Quando da ragazzina, a fine anni quaranta, si era trasferita in città con la sua famiglia e si era messa in testa di colorare il suo terrazzo cittadino di fiori, non aveva esitato ad andare a raccontare a tutti i fiorai in città della improvvisa morte di sua madre, che l’aveva lasciata sola a dover pensare a tutti i fratelli. Naturalmente il succo della storia era che nonna non aveva il denaro sufficiente per comprar fiori da portare alla tomba della povera madre: i fiorai tendenzialmente si intenerivano e le regalavano i fiori che voleva, convinti di aver fatto una buona azione. Un giorno fece un errore e tornò da un fioraio da cui era già stata: quello si ricordò della storia della madre scomparsa e la stava squadrando con sospetto, ma nonna si accorse dell’errore e con grande prontezza si finse una sua sorella gemella. Non so come abbia fatto di preciso, ma conoscendola le credo. E alla fine fu tanto pietosa da riuscire a portarsi a casa un altro mazzo di fiori. Da quel momento in poi iniziò a segnare i fiorai da cui era passata su una mappa.

Si, era davvero una stronza senza rispetto. Siamo sempre andati d’accordo, perché anche dopo 93 anni di vita, una guerra, tante fughe, due mariti è rimasta una completa irresponsabile. Si può dire che l’esperienza non le abbia insegnato nulla: avrebbe rifatto tutto compresi gli errori. Le piaceva raccontare le situazioni ingarbugliate in cui si era infilata, molto più dei momenti felici.

Molte persone anziane hanno problemi a rapportarsi con il mondo moderno, lei no, lei lo cavalcava e riusciva ad affacciarsi a ogni novità con lo sguardo curioso di un bambino. Nonna se la spassava e l’ha sempre fatto, per questo non sopportava la casa di riposo, dove le imponevano i tempi, i pasti e le ore di sonno. Non accettava il senso di sopravvivenza proprio della sua età. Ha vissuto al massimo ogni singolo minuto della sua esistenza, prima che un lieve formicolio le preannunciasse che quello era il giorno in cui tutto sarebbe andato definitivamente a merda.

 

Nonna si era messa a ridere. Era rimasta colpita dal fatto che l’ultima parola del discorso sarebbe stata merda. So che si era divertita un sacco sentendomi parlare di lei. Mi ha anche detto che mi ero dimenticato un mucchio di cose. Le ho risposto che ci sarà tempo per aggiungere il resto la prossima volta che sarebbe morta.

 

Siamo usciti dalla porta che dà sul giardino e ho acceso una sigaretta. Il tramonto stava scendendo impercettibilmente dietro la linea dei tetti e le formiche stavano arrivando. Avevano la forma di una freccia stonata che perdeva detriti neri ai lati. Ci siamo seduti sugli scalini appena fuori dalla porta. Nonna ha detto che se fossimo usciti con un tizzone ardente ci avrebbero seguito ovunque.

“A cosa serve?”
“A niente.”

E quindi posso anche farlo, ho pensato tra me e me. Ho dato un colpo netto con il gomito a un ramo secco del ciliegio, quello è rimbalzato a terra e l’ho avvolto nella carta di un quotidiano. Quando l’ho acceso le formiche erano sempre più vicine e già facevamo difficoltà a respirare senza che ci finissero in bocca. Ho iniziato a farlo roteare sopra la mia testa. Le formiche si avvicinavano, alcune troppo fino a bruciarsi, altre semplicemente seguivano i movimenti delle braccia e le traiettorie che disegnavo. Le mie braccia avevano perso il contatto con la gravità e le potevo sventolare senza sforzo.

Quando ho sentito il calore del fuoco avvicinarsi alle mani, ho lanciato il ramo annerito quasi del tutto a terra e le formiche si sono disperse come se d’improvviso avessero deciso di nascondersi. Ho ripreso possesso della gravità e le braccia sono scese stanche e indurite.

“Va meglio?” Ha chiesto nonna.
“Meglio cosa?”
“Guarda che nonna è vecchia ma capisce.”

Ho preso due sedie bianche e ci siamo seduti accanto al rododendro. Nonna per coprirsi gli occhi si era messa un paio di occhiali che le occupavano metà faccia. Le formiche ogni tanto ritornavano senza ragioni apparenti, invadevano i nostri campi sensoriali, ci finivano nel naso e poi sparivano nuovamente. Era un loop continuo che si ripeteva ogni tot minuti. Quando si avvicinavano troppo le scacciavo con un bastone. Sono andato avanti così per un po’. Nonna ha detto che sentiva freddo ed è entrata. Io invece sono rimasto fuori e non me la sono passata male. Ho provato a non pensare a nulla, a seguire solo i movimenti a elastico delle formiche ed ho aspettato che le prime, stanche di quell’assurdo martirio, si lasciassero cadere al suolo di loro spontanea volontà, sfinite.

Ho fumato una sigaretta con un po’ d’erba e sono rientrato.

Nonna aveva acceso la televisione.

“Buonanotte,” ha detto.
“Pensi di morire stanotte?”
“Piantala.”

Sono andato in cucina e ho aperto il frigo senza un vero motivo. Ho immaginato per un attimo come sarebbe stato se stavolta morisse davvero, lì sul divano. Le avrei toccato il polso e avrei sentito la consistenza di un manichino ghiacciato. Avrei notato le vene che emergevano sui polsi, le guance risucchiate dentro la bocca, forse avrei dovuto socchiudere le sue palpebre con le mie dita. Non so come sia toccare un cadavere. Poi ho avuto un lieve brivido e ho deciso che era meglio smettere di immaginare.

Ho preso un bicchiere, l’ho riempito con quel po’ di vino che era rimasto e sono andato a letto.

La mattina dopo le formiche non c’erano più e ho riportato nonna all’istituto.

“Fai attenzione,” ha detto.
“Anche tu,” ho risposto.

Sono tornato a casa e ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa per occupare la giornata.

 
 

Walter Comoglio è nato nel 1984. Ha pubblicato la raccolta di racconti “La sera che ho deciso di bloccare la strada” edita da  Gorilla Sapiens, con cui ha vinto il premio POP opera prima nel 2017. È coautore del magazine Ivano, un racconto a episodi sui tormenti di un personaggio che non riesce più a comunicare. Attualmente vive in Irlanda, ama andare in bicicletta e non impazzisce per il concetto di  lavoro. Con molta calma sta scrivendo altri racconti.

 

Illustrazione originale di Edoardo Rubatto.

 

Edoardo Rubatto. Cresco in un piccolo paese nella provincia nord di Torino. Poi mi laureo in antropologia culturale e compio un atterraggio di emergenza nel mondo della comunicazione. Smetto di fare sport, divento copywriter freelance, fondo fanzine più e meno umoristiche, ma sicuramente disturbanti, insieme a Walter Comoglio. Per sfogare le mie frustrazioni inizio a fare disegnini brutti su carta di recupero. Prima per il magazine Ivano (di cui sono co-autore), poi per il mio profilo Instagram.

 
 

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