Solo l’amore

 
 
 

Solo l’amore di Laurence Plazenet, pubblicato nel 2016 da Mimesis Edizioni (primo volume della collana Elit diretta da Massimo Rizzante) e tradotto dal francese da Simona Carretta, è un libro bellissimo, che stupisce per la nettezza e la sintesi nel ritrarre la passione tra due figure, Louise-Catherine d’Albrecht e il suo precettore, Agustín Ramón y Cordoba.

Attraverso la voce di una terza persona, un narratore che osserva con eguale misericordia la protagonista e i suoi moti interiori e il sentire dell’uomo, l’autrice mostra come il movimento e il ritmo interno di un’opera non derivino necessariamente dal susseguirsi delle azioni o degli avvenimenti: la tensione che nutre queste pagine, il continuo fronteggiare l’impossibilità di raggiungere una totalità, un completamento esteriore ed eterno da parte della protagonista, si declinano specialmente in quest’ultima nell’abnegazione a essere profondamente se stessa e ad assecondare il proprio divenire, anche a costo di distruggersi, di negarsi.

Dare e ricevere non sono visibili separatamente nell’amore, l’amore è proprio non distinguere più queste due direzioni, ma soltanto dispiegarsi, liberarsi, esprimersi senza togliere spazio agli altri, perché si tratta di un’espressione senza un luogo fisico in realtà, non è un’espansione ma l’assenza del timore di consumarsi, di sparire.

Ambientato in una Francia di re e corti, guerre tra province, corsetti che stringono il corpo, viole da gamba e tiorbe, manoscritti da studiare e commentari, in un luogo non meglio precisato, il romanzo, preso in un equilibrio tra corpo e visione, tra sensualità e osservazione, è caratterizzato da uno stile rigoroso e severo votato all’essenziale, alla ricerca di un’esattezza mai priva di calore.

La storia ha inizio con la morte della madre della giovane e con il silenzio e la solitudine che l’evento produce nella vita della protagonista appena quindicenne: il padre chiuso nel proprio dolore rivede infatti nella figlia le sembianze della moglie e decide perciò di escluderla dalla propria esistenza, pur abitando nella stessa casa e prendendosi cura di lei di nascosto.

È a questo punto che Mademoiselle d’Albrecht incontra Ramón, di cui sarà prima solo allieva e poi anche amante:

“Fu una folgorazione.
Egli si esprimeva con delle inflessioni straniere, la cui profondità faceva risaltare, a tratti, le pause del discorso, l’alleggerimento del tono, la concentrazione del senso delle parole che pronunciava. Aveva la fronte alta, la figura slanciata, la barba scura e folta. Una riga divideva i capelli in due blocchi che ricadevano ai lati del viso, che era bello, intelligente. Le labbra, sottili, avevano qualcosa di severo. Trasmetteva un’impressione di riservatezza e di forza. La ragazza notò le pieghe orizzontali oltre le sopracciglia e quelle che solcavano il viso tra le ali del naso e le commessure della bocca. Gli occhi erano chiari, la loro espressione penetrante. La osservava”, p. 12.

Attraverso Ramón e il mondo, Louise-Catherine impara tra smarrimenti, tentativi e le momentanee conferme di una passione vissuta e condivisa con l’amato, a conoscere se stessa, sperimenta da subito lo squilibrio tra sé e la realtà esterna, l’incessante avvicinamento e allontanamento tra gli esseri, la distanza tra i propri desideri e le proprie azioni, tra ciò che si è e i significati che gli altri attribuiscono alla nostra persona, tra l’essere per se stessi e l’essere per altri:

“Egli la trovava silenziosa; si chiedeva se ciò dipendesse da un’introversione naturale di cui non si sarebbe accorto all’inizio, se per caso non avesse semplicemente un ritegno o una timidezza eccezionale per una persona della sua età e del suo sesso. Spesso propendeva per giudicarla fredda; si chiese se fosse un tipo compassato. Ella si rendeva conto della chiusura di lui. Quel malinteso la rattristava. Le sarebbe sembrato di tradire il signor Ramón e l’immagine che aveva di se stessa se avesse provato a giustificarsi, a spiegarsi. Era incapace di ammettere che la perfezione potesse non essere qualcosa di naturale. Il calcolo delle parole o dei sentimenti le faceva orrore; era persuasa della sua vanità e dell’offesa che arrecava al suo destinatario”, pp. 17-18.

L’amore per i libri e per la conoscenza – che interseca le vicende dei due protagonisti – pare un rituale sacro, un esercizio alla vita, sebbene l’eruditismo non sia mai il fine dell’esistenza di nessuno dei due personaggi.

Ma chi si ama davvero quando si ama qualcuno? Gli altri ci sfuggono anche quando li amiamo, come se l’amore, in fondo, riguardasse solo noi stessi e le nostre vite individuali, anche quando esso sfocia nella passione, nella condivisione del corpo e dei pensieri, nella sintonia e nella sincronia che sfidano il tempo: “[Ramón, n.d.r.] Non era mai dove Mademoiselle d’Albrecht avrebbe voluto”, p. 18.

L’unico dramma dell’amore è la sua assenza, sembra ricordare questo libro, non tanto cioè la non corrispondenza amorosa tra due esseri né la diseguaglianza nel sentimento.

Forse confliggono due amori in questo romanzo, in cui si intuiscono tra le righe atmosfere di profonde oscurità ed estreme chiarezze, biancori abbaglianti, luoghi assoluti senza parole e fatti solo di corpi concretissimi e visioni pari a quelle di un sogno: l’amore come modo di stare al mondo – quello di Louise-Catherine (“Non vi è una sola ora trascorsa con voi, amor mio, che avessi voluto impiegare diversamente”, p. 142) –, e l’amore come momento paradisiaco, parentesi, fuoco destinato a non sopravvivere al tempo, come ci fosse una realtà più vera e reale al di fuori, che respinge i sentimentalismi (“Ramón aveva rifiutato che cedessero al fascino di un piacere che non riteneva irresistibile. Pensava che le nostre emozioni qualche volta possano determinarci, ma che non ci riassumono”, p. 142).

Entrambi si ritroveranno a perdere tutto, lei nell’attesa e nel tempo, lui nell’attimo, nell’improvvisa consapevolezza. Perdere l’altro, se stessi e tutto il mondo che determina e contiene i viventi, assecondare la vita senza più difesa alcuna, conoscersi davvero:

“I libri sono davvero necessari? Racchiudono il mondo; forniscono inquietudine; compongono frammenti di bellezza. Alcuni inchiodano fino al disordine. Non procurano la felicità. La lettura è solo una scappatoia. Mademoiselle d’Albrecht si allontanava dai libri, perché il suo istinto non era più quello di sfuggire a se stessa, perché non avvertiva più in sé il desiderio di mentirsi o di aprirsi altre strade. Restava a tu per tu con se stessa, finalmente decisa ad affrontarsi, senza nutrire interesse alcuno per l’esito del confronto”, p. 131.

Ecco che forse l’amore è stare vicini alla verità e non saperlo, come la protagonista confessa a se stessa sul finire del romanzo, ritrovarsi senza consolazioni e identificazioni, continuamente ai limiti del proprio corpo, vicini o lontani a qualcuno, ma coincidendo con il proprio corpo soltanto, con il tempo a esso concesso.

 
 
 

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