Il molino a vento e altre prose

 
 
 

Curato da Riccardo Ferrazzi, qui anche traduttore assieme a Marino Magliani, Il molino a vento e altre prose (uscito per Galaad Edizioni nel marzo del 2015) contiene alcuni brevi testi di tre autori spagnoli vissuti tra Otto e Novecento che solo a prima vista sono stati bizzarramente giustapposti.

Di Gabriel Miró, cesellatore di una raffinata prosa poetica di ispirazione dannunziana, possiamo leggere cinque brevi Ritratti di campagna e quattro brani altrettanto brevi tolti da La conchiglia del faro.

Seguono L’articolo di fondo e Il rompicapo, due racconti scritti da Benito Pérez Galdós con ampie concessioni al virtuosismo.

Chiudono il libro il racconto Vendetta moresca e quattro Schizzi della Costa Azzurra, che svelano un’inconsueta inclinazione di Vicente Blasco Ibáñez alla narrazione asciutta.

Si tratta dunque di tre voci diversissime tra loro eppure tutte ugualmente sicure, al servizio di mondi narrativi governati con una sapienza quasi compiaciuta.copMolino

Ma cosa accomuna, al di là delle coincidenze geografiche e cronologiche, queste tre scritture?

Seguiamo l’ordine di apparizione dei testi. Gli aggraziati paesaggi descritti da Miró nei Ritratti di campagna sono attraversati dall’inquieta figura di un viandante, presentato da una sinestesia che ne restituisce efficacemente la natura fantasmatica ed errabonda: “Lungo il sentiero si avvicina un viandante. Per un bel po’ si sentono i passi delle sue scarpe di corda; lo si ascolta fermarsi a guardare il sentiero, la distanza ancora da percorrere. Il sole, lo sfondo azzurro, e in mezzo una gloriosa nube bianca”, pp. 15-6.

Ne La conchiglia del faro, invece, a destabilizzare lo sviluppo dell’azione provvede lo stesso io narrante, che in più di un passaggio sembra come estraniarsi da sé, sdoppiarsi: “Le luci di una nave ci fanno palpitare come un bacio. Le attendiamo quasi per assaporare l’amaro di vederle sparire. Sono io quello che aspetta, eppure mi pare di essere io l’atteso”, p. 45; “Nella mia camera da letto la notte tornò ad accarezzarmi la pelle. La notte o la sensazione di me stesso. Non avevo preso un impegno con me stesso per quando sarei andato a letto? Be’, ero lì, e mi aspettavo”, p. 51.

Ne L’articolo di fondo, pezzo di bravura affidato all’estro di Pérez Galdós, la realtà si deforma per ripresentarsi in veste di allucinazione. Ne è vittima un giornalista divorato dall’ansia poiché incapace di portare a termine un articolo; quando egli, esausto, solleverà gli occhi dal foglio, descriverà così il giovane addetto al torchio da stampa: “L’essere che gli si era presentato davanti era né più né meno che un mostro uscito da un incubo. Gli parve più ripugnante di un boia venuto a ucciderlo proprio in quel momento, e lo terrorizzò più di Satana in persona. Il mostro lanciò all’autore uno sguardo che lo fece tremare; allungò la mano pronunciando parole che misero al tappeto l’infelice, neanche fossero state anatemi della Chiesa o sentenze dell’Inquisizione. Seduto com’era, ebbe un brivido, gli si rizzarono i capelli in testa: angosciato e madido di sudore freddo, osservò le righe dell’articolino interrotto. Non le aveva neanche corrette”, p. 71.

Anche nella geometrica scrittura di Ibáñez si insinua l’imponderabile, che nel racconto Vendetta moresca ha le fattezze di Teulaí, violento fratello di Pepet, defunto marito della protagonista, Marieta: “Aveva paura di Teulaí, il fratello minore del marito, che aveva venticinque anni ed era considerato il terrore del distretto”, p. 109; “Marieta aspettò che si voltasse… Dio mio che paura! Ma era ancora abbastanza lontano e Marieta seguitò a camminare, tremando per il crudele presagio di quell’incontro. Ancora non credeva che l’uomo davanti alla taverna fosse Teulaí”, p. 115.

Questa sequenza di citazioni induce a una riflessione e, assieme, palesa un elemento comune alle tre scritture.

Per quanto consumata sia l’abilità tecnica di uno scrittore; per quanto egli sappia architettare un universo narrativo e poetico chiuso, perfettamente funzionante in ogni dettaglio; per quanto la sua maestria nel suscitare un’atmosfera (o nel condurre un esercizio stilistico) dia anche al lettore meno ingenuo una sensazione di assoluta chiarezza; per quanto tutti questi elementi possano pure coesistere al massimo grado qualitativo, essi non formeranno mai un argine abbastanza alto alla quota di illeggibilità della vita.

Ed ecco allora, nelle prose di Miró, Pérez Galdós e Ibáñez, comparire queste identità portatrici di mistero, che tagliano di traverso la narrazione per poi tornare nel medesimo ignoto da cui erano provenute.

 
 
 

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