Sulla faccia della terra

 
 
 

Nel luglio del 1258, durante la guerra tra Genova e Pisa per il dominio sulla Sardegna, dopo tre giorni di assedio pisano a Santa Gia il garzone di vinaio Mannai Murenu si ritroverà “in un pozzo di macerie, all’aria aperta, come avvertito in un sogno da un mio salvatore” (p. 11).

Ininterrotto flashback affidato quasi interamente allo stesso Murenu a settant’anni di distanza dai fatti, Sulla faccia della terra – scritto da Giulio Angioni e uscito nel febbraio del 2015 in coedizione FeltrinelliIl Maestrale – è un singolare romanzo in cui la vitalità, o si dovrebbe semplicemente dire la vita, sovrasta ogni accadimento avverso.

Cop_webSuccederà che Mannai Murenu, assieme a un manipolo di personaggi (e al cane Dolceacqua) che via via irromperanno nella narrazione, si rifugerà in una piccola isola dello stagno di Cagliari, ex lebbrosario ora svuotato giacché tutti i lebbrosi sono stati catapultati – fuor di metafora – sulla città, allo scopo di infettarla.

La vulnerabilità esistenziale all’interno di un conflitto cruento, e più specificamente la condizione di separatezza, che negli attimi di difficoltà sarà ribadita e rafforzata dagli stessi protagonisti i quali si fingeranno lebbrosi, imporranno (permetteranno?) loro di spendere i propri giorni al di fuori di ogni calcolo, di ogni tattica, all’insegna della più squisita onestà e di una spontanea accettazione di sé e degli altri (“Siamo diventati in poco tempo sapienti in differenze, in provenienze, in riconoscimenti di altri modi di stare al mondo”, p. 124).

La vitalità a cui si è accennato è espressa anzitutto da una serie di atteggiamenti di rifiuto nei confronti dell’autorità. Che se talvolta affiorano sotto forma di frasi sarcastiche all’indirizzo degli occupanti (“Il cuore del mestiere del pescatore di peschiera è questo qui, favorire l’entrata e impedire l’uscita dei pesci nelle camere della morte, come le chiamano i pisani, delicati nel dire quanto nel fare”, p. 61), altrove si declinano in proclami di egualitarismo: “«[…] il signore è soverchio, sì, e il padrone è superfluo. E almeno qui, dove è lo Stagno che comanda, da noi possiamo fare a meno di tutta questa gerarchia»”, p. 81.

La vitalità, poi, muove ogni avventura piccola o grande, comica o drammatica in cui saranno coinvolti i personaggi, tutti costantemente protesi all’azione e dimentichi del ragionamento, come se la precarietà non solo li predisponesse a fare piuttosto che a progettare, ma pure designasse ruoli ben precisi per ciascuno in qualunque momento (come in fondo è pressoché sempre per ogni elemento naturale eccetto l’uomo): “Annicca Barca levatrice ci manda tutti via: «Via tutti i maschi, via, anche il marito. Ma lontano però, che voi non resistete a queste cose»”, p. 92.

La vitalità, infine, informa anche la lingua con cui queste pagine sono scritte. La sintassi è franta e incalzante, come portatrice dell’urgenza di dire, e il ventaglio semantico e retorico è ricco e multiforme. Da espressioni in odore di lingua sarda (“Ohiohi la guerra”, p. 10) a riproposizioni inedite di parole comuni (le gambe diventano “arti dell’andare”, p. 35), da ingenui motti di buon senso popolare (“per capire come ti tratterà tua moglie, guarda bene prima come tratta i suoi familiari”, p. 39) a ripetizioni e anafore (a p. 48 e a p. 55 si possono leggere quattro righe identiche: “Cantano i carovanieri, in sella ai loro anni migliori. Cantano le nenie del deserto, ma invocano il vento del Mare di Mezzo, delle molte isole felici. Ogni notte li risento ancora”).

E la saggezza, incarnata dall’anziano ebreo Baruch, sembra prendere ironicamente le distanze da se stessa, come se la parola sentenziosa fosse sintomo di quel potere da cui i personaggi sono fuggiti. Perciò lo stesso Baruch, dopo un serioso monologo sulla paura della morte che a suo dire diminuirebbe con l’età, concluderà con una frase beffarda: “Ma non bisogna disturbare le illusioni della gioventù”, p. 126.

A essere precipitosi, si potrebbe interpretare Sulla faccia della terra come un manifesto pacifista o uno spot della società multietnica: ma le letture precipitose sono sempre fuorvianti.

Piuttosto, se in quest’opera Giulio Angioni ha voluto guardare all’attualità, crediamo che lo abbia fatto da una prospettiva meno conciliante. La vita, sembra dire Angioni, oggi è sepolta dalle cose, dalle attività, dalle possibilità, che permettono un’esistenza senza rischio, al riparo dal fatto evidente che “muta […] tutto, qui sulla faccia della terra” (p. 155).

Forse solo abbandonando conoscenze e difese, esponendosi ai colpi, giunti sulla china degli anni si potrà affermare con Vera de Tori, moglie di Paulinu Fraus: “era vita, quella” (p. 134).
 
 
 

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