Il giorno che morì Stalin

 
 
 

Si legge d’un fiato Il giorno che morì Stalin, breve racconto di Doris Lessing che, per la cura di Cristina Gamberi e nella traduzione di Bianca Tarozzi, inaugura la collana Papyngo delle Edizioni ETS.

Il racconto uscì nel 1957, e non è superfluo annotare che l’anno prima Doris Lessing aveva concluso la sua militanza nel CPGB (Partito comunista della Gran Bretagna), alla luce dell’invasione sovietica dell’Ungheria e dello svelamento, da parte di Nikita Chruščëv, delle cosiddette grandi purghe staliniane.3862-2_Lessing_cover_STAMPA_02

Nel breve giro di venti pagine, precedute da un’ampia e assai documentata prefazione di Cristina Gamberi, viene narrata in prima persona una storia davvero semplice: l’anonima protagonista sta accompagnando la cugina Jessie da una coppia di fotografi; nella pensione dove Jessie alloggia con la madre Emma vive infatti un tizio il cui fratello è produttore televisivo, ed Emma, che sogna per la propria figlia un futuro nel mondo dello spettacolo, desidera che il suo vicino di casa mostri al fratello una fotografia di Jessie; lungo il tragitto verso lo studio fotografico, la protagonista apprenderà da un chiosco di giornali la notizia dell’agonia di Stalin (che morirà il 5 marzo 1953).

Nonostante la brevità del testo e la sua trama filiforme, in questo racconto vibra dalla prima all’ultima riga un’inquietudine, come una messa a fuoco malcerta, che proverò a spiegare.

I dubbi della protagonista verso la figura di Stalin e più in generale verso il comunismo (che naturalmente incarnano quelli di Doris Lessing) non solo vengono qua e là palesati, come ad esempio nella descrizione della compagna Jean: “Jean era da molti anni la mia guida o mentore, autonominatasi per condurmi verso un punto di vista politicamente corretto. Forse sarebbe più accurato dire che era una delle mie svariate guide autonominatesi”, p. 65.

Non solo, dicevo, il dissidio interiore della protagonista viene in più punti palesato, ma percorre l’intero racconto (e gli dà linfa) sotto le sembianze dell’incomprensione. Già nell’attacco la protagonista dà conto di una dimenticanza, che è poi una sorta di incomprensione con se stessa: “Quel giorno per me cominciò male, con una lettera di Bournemouth di mia zia; mi ricordava che avevo promesso di accompagnare mia cugina Jessie a farsi delle fotografie alle quattro del pomeriggio. Glielo avevo promesso, in effetti, e me ne ero completamente dimenticata”, p. 63.

Nel percorso verso lo studio fotografico, l’incomprensione viene espressa dagli attriti fra Emma e Jessie: “«Se devi prenderla in questo modo, cara», disse la zia Emma, «non credo proprio che questo atteggiamento sia giusto nei confronti del fotografo»”, p. 72; e sembra contagiare la protagonista, che stenta a riconoscere il grado di umanità di chi sale sul suo stesso autobus: “L’uomo, che somigliava a un cappello di feltro umido, grigio e schiacciato, guardava di fronte a sé e annuiva insieme al ritmo del procedere a scosse dell’autobus”, ibid.

L’incomprensione aumenterà di grado, e diventerà collettiva, nello studio dei due fotografi, il primo chiamato semplicemente l’ospite, l’altro rispondente al nome di Jackie Smith. Jessie è riottosa a farsi fotografare, sua madre la incalza, l’ospite cerca di calmare madre e figlia: “«[…] Ora se ci bevessimo tutti una bella tazza di tè, credo che le nostre vibrazioni potrebbero diventare un pochino più armoniose»”, p. 77.

Nel vedere la protagonista in disparte e taciturna, l’ospite le domanderà se non ci sia qualche problema. E l’intervento della loquace zia Emma, che addebiterà all’imminente morte di Stalin l’atteggiamento della nipote, darà vita a una discussione surreale, in cui ciascuno fornirà un proprio punto di vista, irrelato a tutti gli altri, all’insegna appunto della più squisita incomprensione reciproca. Un passaggio: “«Vecchio scemo rompiscatole», disse Jackie Smith. «Avrebbero dovuto toglierlo di mezzo anni fa. È chiaro che dopo la guerra non è stato di nessuna utilità, non crede?». «Non saprei», dissi io. Il nostro ospite, con una tazza in mano, alzò l’altra con un gesto perentorio: «non voglio sentire niente del genere», disse. «No, proprio no. Dio sa che se c’è una cosa di cui non so niente, e me ne vanto, è la politica, ma durante la guerra Zio Baffone e Roosevelt erano assolutamente i miei eroi. Assolutamente!»”, p. 78.

La foto non verrà mai scattata, e la protagonista appena rincasata riceverà una telefonata della compagna Jean. Riporto la parte finale del dialogo, che peraltro chiude il racconto (corsivo nel testo): “«È stato assassinato da agenti del capitalismo», disse. « È perfettamente chiaro». «Aveva 73 anni», dissi. «Non si muore così di colpo». «Succede, a 73 anni», dissi io. «Dobbiamo impegnarci per essere degni di lui», disse lei. «Sì, suppongo che ci impegneremo»”, p. 82.

Come era accaduto nello studio fotografico, anche qui non c’è un vero dialogo: ciascuno è trincerato dietro la propria idea di mondo. Questa mancata comunicazione, questa chiusura reciproca di tutti i personaggi del racconto, forniscono a Il giorno che morì Stalin un ritmo caracollante, felicemente schizofrenico; e forse sono un’implicita critica di Doris Lessing a certe rigidità del sistema comunista.

Di certo la battuta conclusiva, “«Sì, suppongo che ci impegneremo»”, col suo tono tra il dubitativo e lo svagato, e quel plurale che segnala più un allontanamento dalle responsabilità individuali che non un sentimento di appartenenza, è il miglior riassunto possibile dell’intero racconto e, assieme, perfetta sintesi del senso di straniamento che lo innerva.

 
 
 

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