Pompei

 
 
 

Pubblicato nel settembre 2014 da Neo Edizioni, Pompei, scritto e disegnato da Toni Alfano, è un bellissimo romanzo grafico suddiviso in cinque capitoli – ciascuno introdotto da una citazione – e realizzato con l’uso di tre colori (bianco, nero e rosso), mediante inchiostro e matita.
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Si potrebbe definire, in breve, un diario onirico che racconta la ricerca di sé e degli altri.

Pare essere un sogno (vividissimo), infatti, la dimensione entro la quale si muovono gli eventi, prendono l’avvio le riflessioni e i ricordi della voce che leggiamo. Così scrive Toni Alfano nell’introduzione dal titolo Pompei: “[…] le nostre vite, le nostre relazioni, i nostri ruoli, sono solo frutto di identificazioni, illusioni, destinate ad essere riassorbite nella forza che le ha generate: un sogno”.

Ma il sogno non è il contrario della realtà, è piuttosto ciò che esiste fuori dall’interpretazione, dall’utilizzo, dal rinvenimento incessante dei significati; è il vivere senza appigli, conferme, posizionamenti.

Ecco che il felice e appassionante disorientamento che coglie il lettore-osservatore alle prese con quest’opera è legato all’essere immersi in un immaginario potente e frastornante, chiaro e caotico, imprendibile e pieno di verità, vario, fatto di parti irrelate eppure inspiegabilmente tenute insieme.

Il primo capitolo, Io non esisto, che si apre con un richiamo testuale dell’Uttara Gita ed è realizzato con l’inchiostro dei tre colori su menzionati, è attraversato dal motivo-monito, più volte ripetuto, del restare qui, pur nello scontro tra natura e cultura, tra sensibilità e pensiero, nella critica all’adeguamento passivo alla banalità quotidiana, al conformarsi, a una vita vissuta meccanicamente e automaticamente e all’atto di non aver ascoltato i propri sogni.

Allora, l’io non esiste perché è continuamente di altri (“Figlio che qualcuno ha immaginato, bambino che qualcuno ha educato, ragazzo che qualcuno ha baciato, uomo che qualcuno ha usato, vecchio che qualcuno ha dimenticato”, p. 14).

Tra gli omaggi a Thoreau, le rappresentazioni di Gatto Felix e di uomini in divisa da soldati, le frasi fatte (ad esempio, “se non ti ammazza rinforza”, p. 14), riportate con intento ironico, e le figure mitologiche al contempo umane e animali, restare qui è esercitarsi a sentire, cioè a essere, anche prendendo coscienza dell’odio, del proprio desiderio di distruzione, per liberarsi senza intraprendere fughe (“spurga”, si legge più volte sul finire del capitolo).

Solo a quel punto, l’io è pronto a essere con altri, per altri, come si legge e si osserva a p. 27.

p. 27

p. 27

 

Il capitolo secondo, Trasumanar Riorganizzar (titolo che è una variazione del Trasumanar e organizzar pasoliniano), introdotto da un proverbio arabo, ruota attorno a un altro nucleo centrale di questo diario, il tempo. Con una grafica e un carattere diversi da quelli utilizzati nel primo capitolo, Toni Alfano ci conduce all’interno di un passato (il passato di sé) che viene avvertito come realtà inconoscibile e incomprensibile, dentro la quale, tra esseri umani e fiere, c’è il ricordo di limiti toccati, della percezione dell’inconsistenza delle proprie idee. Nella rinnovata e continua critica ai luoghi comuni (verbali e fisici, abitudini dei nostri giorni), si staglia Pompei, “disintegrata dalla forza della natura, dissolta nella materia e consegnata al mito senza tempo” (così si legge nell’introduzione), il simbolo di ciò che è distrutto dalla rabbia, un sentimento annichilente, che fa paura e immobilizza.

Il capitolo terzo, poi, dal titolo Onironautica, realizzato interamente a matita, viene aperto da una citazione di Walt Disney e da una tavola su due pagine che raffigura un uomo al volante con accanto Gamesha, la divinità elefante induista, e suddiviso in quattro sottosezioni.

Protagonista è nuovamente il tempo; qui gli altri sono una sola persona che finge, cambia, si trasforma, mentre l’io è anche la convivenza di tutti gli io appartenenti a epoche distanti (pp. 73-74), sempre alla ricerca dell’intensificazione dell’esistenza attraverso la percezione e l’unità di sé. Mediante l’immagine della corsa, del volo, della lotta e dell’amplesso, simboli di libertà e di attraversamento, l’io ritrova sé e attraversa l’altro, luogo fatto anche di imprevedibili oscurità.

 p. 74

p. 74

 

E il volo conduce il lettore al quarto capitolo, ai tre colori e all’inchiostro di Zeppelin (aperto da una frase di Ovidio), alla grafica e al carattere della prima e della terza parte; durante un viaggio in dirigibile, nella voce del narratore compare ancora il motivo della paura, del disordine da esso generato, di una vita che sfugge, del passato incarnato dall’infanzia. Si assiste alla pratica di decontestualizzazione di frasi proprie di certi ambiti (ad esempio, la bambina impegnata nell’esercizio ginnico che tra la folla annuncia: “a tutti i passeggeri”, p. 112); si ripresenta l’immagine del mattone rosso (già citato a p. 27) che si può portare con sé senza esitazioni solo nell’infanzia, allorché l’agire è un gioco libero da scopi e condizionamenti (“un gioco senza regole, senza ruoli, improvvisato e compiuto nella sacralità della trasformazione”, p. 112).

Con una citazione di Tolstoj, si apre Molok. La sorgente, il capitolo quinto, che conclude questo multiforme sogno. Qui anche la paura avrà fine, qui l’umano affluirà (p. 130) in se stesso, libero, e accetterà la compresenza di realtà e sogno, dell’abbandono e del restare, della insopprimibile contraddizione dell’essere al mondo: “C’è un luogo dove la parte manifesta e quella non manifesta si uniscono. Dove i sogni possono descrivere la realtà e viceversa. Questo luogo è sempre accessibile. Le porte sono sempre aperte e i segreti che vi sono nascosti, rivelati. Pochi sono però quelli che decidono di addentrarvisi, perché la consuetudine umana, pur cogliendone il senso, non tollera il paradosso. Non sopporta che “questo” sia al contempo “quello””, p. 119.

Pompei è allora la rappresentazione di un sogno, di un’immagine che si trasforma nel tempo; l’io attraversa la pluralità e la molteplicità (di figure, di culture, di specie viventi, di esseri semplici e composti, di invenzioni disegnate) e si riunifica, pur rimanendo sostanzialmente dischiuso, e si disperde nel sentire, restando corpo.

E “il sogno”, scrive María Zambrano, “è al contempo la nostra vita più spontanea e più estranea, lo stato in cui ci troviamo più alienati e più puri da ingerenze” (María Zambrano, Il sogno creatore, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 11).

Lo smarrimento dentro il quale ci tiene Toni Alfano con quest’opera, che è di certo un invito al lettore a mantenere viva una coscienza individuale e civile, è il perdersi del fare esperienza, dell’“abbandono del noto verso l’ignoto” (Cesare Viviani, Il sogno dell’interpretazione, Costa&Nolan, Genova, 1989, p. 26).

 
 
 

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