Ultima rumba all’Avana

 
 
 

Questo libro (tradotto da Marino Magliani e pubblicato nel 2014 da Il Canneto Editore, con una postfazione curata da Gordiano Lupi sulla narrativa cubana) è una tormentosa e incessante danza in cui l’alto e il basso si mischiano vorticosamente nel corso della confessione impietosa dell’io narrante resa al lettore, senza che ad esso sia chiesta alcuna compassione o approvazione.

Ex studentessa di architettura, assassina, carcerata, poi prostituta in cerca di affari e di salvezza, la protagonista descrive infatti incontri e amplessi, esperienze di autoerotismo, violenze, camminate notturne attraverso l’Avana castrista, la purezza di un amore sognato.

Critica serrata al regime comunista (“Quando ero internazionalista anch’io, credevo che ci saremmo sbarazzati di tutto questo: la miseria spaventosa, l’orrore e la follia della guerra; ma oggi mi guardo attorno e vedo facce patibolari come quelle dei mercenari fucilati in Angola o degli assassini della guardia repubblicana di Saddam. Il saccheggio e gli incendi hanno un odore”, pp. 56-57; “Io, che all’inizio ero impressionata, assimilo le informazioni come ho fatto in galera: gli stupri delle carcerate, il sadismo delle carceriere, la corruzione dei guardiani per poter vedere il fidanzato. Questo paese è più sporco di quanto ci si immagini e più sporco di quanto uno possa arrivare a immaginarlo […]”, p. 179), luogo di citazioni colte e letterarie (“Il palazzetto delle Belle Arti traboccava di pubblico: artisti e professionisti che erano lì per pavoneggiarsi nei loro vestiti comperati all’estero, incontrarsi con altri artisti e professionisti per fare crocchio e sciorinare tutte le teorie che avevano appreso leggendo Althusser, gli articoli della Ecole des Hautes Etudes di Parigi, la rivista «Tel Quel», Severo Sarduy, Barthes, Cvetan Todorov, Julia Kristeva, il Circolo di Praga, Desiderio Navarro e la rivista «Criterios». Ne uscivano termini che non avevano niente a che vedere con l’esposizione: narratario, dialogo periscopico, narratore omodiegetico e eterodiegetico, monologo interiore subcosciente e altre furbate, […].”, pp. 67-68), questo romanzo, la cui provocazione continua è convincente e disturbante, è sfrenato sentire (“Io sento tutto e vedo tutto”, p. 189).

La scrittura, pare dimostrarci Fernando Velázquez Medina (che compare persino come personaggio nella figura di uno scrittore dissidente, quale veramente egli è), si dà soprattutto come sfida all’amplificazione, alla restituzione incandescente di ciò che si vive, è irriverente intensità e sensualità, doloroso piacere; essa è stordimento, fuga, continua prova di percezione, è sfrontata materia nella bassezza, è carne e corpo singolare fino al limite perché di questo è fatto l’umano. E l’unione possibile è solo quella fugace e momentanea dei corpi.

Appartenente a una umanità ferina ed esposta, in cerca di una libertà continuamente negata, impossibile, la protagonista è trattenuta dal proprio corpo e limitata da un potere politico che predica giustizia e uguaglianza e poi si dedica ad azioni violente, a soprusi, dominii e massacri (“[…] sento che non riesce ancora a credere al racconto della carneficina di Rio Canimar, le bastonate a morte delle truppe speciali ai galeotti ammutinati nel carcere Nieves Morejón di Sancti Spiritus: dopo aver soffocato la rivolta, ci ha raccontato Sánchez Santacruz, le forze d’élite del Ministero degli Interni li stesero a terra e li colpirono con mazze da baseball e manici di zappa. A uno a uno il colpo sulla nuca fece schizzare gli occhi fino a terra”, p. 179).

Scrivere è qui un canto rabbioso e scanzonato, un urlo impudente nel vuoto, è impossibile corrispondenza o risposta, vanto e sacrilegio, è il detto e vertigine di ciò che delle parole non si può controllare, osata incompletezza, perché l’ombra (che è intuita in certe improvvise malinconie e in taluni momenti di coscienza della protagonista, nel ricordo di torti subiti sotto il tono orgoglioso della voce che racconta) è più grande di ogni dettaglio illuminato ed esibito con soddisfazione, di ogni dettato espresso con distaccata e noncurante convinzione.

Elementi di letteratura e cultura cubana e di altra provenienza, immagini di un paese afflitto da un regime, violenza e oscenità si alternano con pari dignità in questo incontenibile ritmo di corpi che si penetrano e si feriscono, che si usano e si ignorano, che rimangono soli, irraggiungibili.

Esperienza di energia e di limite, di disinteressata dissipazione, morbosa illusione di raggiungere la completezza tramite l’eccesso, questo libro-danza è rimozione continua, silenziosa e struggente di una desiderata totalità inaccessibile, e perdizione, quasi a dire che vivere significa inevitabilmente disperdersi, venir meno, non trattenere nulla presso di sé, testimoniare.

 
 
 

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