La vicenda è quella di un manipolo di sopravvissuti a una pandemia che rende tristi, concede un ultimo impeto di rabbia e poi conduce alla morte.
Una breve parentesi per dire che Tristezza non è un instant book che voglia raccontare quanto è accaduto con la diffusione del Covid-19: è stato scritto e pubblicato in Argentina tra il 2010 e il 2013 sulla rivista Fierro, e Neo lo ha opzionato prima che dilagasse il Coronavirus.
Provincia di Buenos Aires, autunno del 2030: alcuni reduci della quasi fine del mondo, divisi in piccoli gruppi, sono alla strenua ricerca di un luogo in cui stabilizzarsi. Con estrema difficoltà, perché del tempo di prima (locuzione che ritorna in più punti del volume) non rimane più nulla: né le organizzazioni statali né la tecnologia, né un sistema di istruzione né soprattutto la memoria.
Anche la stessa modalità di azione del virus, che prima rende irrimediabilmente mesti e malinconici, poi fa scaturire un estremo impulso d’ira e infine uccide, sembra la metafora di un’umanità al crepuscolo, incapace di gestire e dosare la propria emotività; forse perché l’eccessiva offerta di esperienze da fare e di cose da ottenere ha portato al definitivo allontanamento dalla coerenza, a favore di una multiformità comportamentale che dà modo di adattarsi a ogni diversa occasione. Il virus della tristezza, che ha decimato l’umanità, assomiglia dunque al senso di spaesamento provocato dalla mancanza di un’identità definita e compiuta.
E se la pandemia sembra la concretizzazione della perduta memoria di una vita condotta in modo univoco, i sopravvissuti – dicevamo – hanno una memoria del tutto personale e parziale del cosiddetto tempo di prima.
Ogni personaggio che appartiene allo sparuto gruppo di fuggitivi-girovaghi palesa clamorose dimenticanze nei confronti del mondo pre-pandemico. “E cosa fanno gli architetti?”, “Case”, si legge ad esempio a p. 25, senza che nessun elemento giustifichi l’amnesia che coglie uno solo dei due partecipanti al dialogo.
Ai momenti di inconsapevolezza, di cui a turno saranno preda tutti i protagonisti, se ne alternano altri di nostalgia quasi infantile, come nel dialogo di p. 71, in cui due personaggi parlano dei passati abusi della classe dirigente a Buenos Aires, ritrovando per qualche istante un fervore del tutto inopinato rispetto al contesto che stanno affrontando.
Sono notazioni non casuali, che inducono un sospetto: quello cioè che i pochi reduci non siano immuni dallo stesso atteggiamento istintivo e incongruente che ha permesso la diffusione del virus. O che quanto meno ne ha caratterizzato le vittime.
La sensazione che l’umanità superstite non sappia emanciparsi da sé diventa ingombrante realtà nella seconda parte del graphic novel, quando i sopravvissuti entreranno in una comunità organizzata. Che presto si svelerà pericolosamente gerarchizzata, e i cui componenti mostreranno una serie di peculiarità tipiche di tante società moderne: fede ingenua negli idoli, ruoli cristallizzati, aggressività repressa (quando non sfogata) e maschilismo più o meno latente.
Gli unici estranei alla riproposizione di una nuova-antica civiltà sono un gruppo di ragazzini che vivono in uno stato di feroce primitività: si esprimono solo col turpiloquio, tra di loro non fanno che consumare rapporti sessuali e verso gli estranei liberano la più incontrollata violenza.
Questa narrazione di un ipotetico secondo ciclo di umanità alle prese con l’apocalisse, la cui atmosfera è allo stesso tempo allucinatoria e familiare, viene tratteggiata con sapienza sia dai dialoghi sempre in punta di assurdità di Reggiani che dalle tavole di Mosquito, il quale adotta un tratto essenziale e sporco, oltre a prediligere i colori freddi. I due autori danno così vita a esseri umani mai sufficientemente ragionevoli, mai sufficientemente gradevoli, mai sufficientemente diversi da noi.