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Come in cielo, così in mare

 
 
 
 

Come in cielo, così in mare, esordio di Giovanni Gusai (Sem, 2021) è l’approdo a una Sardegna abituata al commiato, sperduta tra i suoi panorami ancestrali, ai margini della produttività industrializzata e dei nuovi impieghi in telelavoro. È una bellezza spettacolosa che in sé e per sé “non serve a nulla” (p. 78), tanto meno agli occhi di Antine Farina, ventottenne figlio d’immigrato, nato e cresciuto a Milano. Il ragazzo si è appena laureato in architettura e non ha mai visitato Locòe, paese d’origine di suo padre. Si ritrova a doverci andare, con la famiglia, per il funerale della nonna, Jubanna.

Il lutto ripropone vecchi interrogativi: già alla vigilia della partenza, Antine si confida con la sorella: “Ho conosciuto un bel po’ di sardi o figli di sardi, ce ne sono un sacco all’università. Tutti tornano a casa almeno tre volte l’anno. […] Nostro padre dev’essere l’eccezione che conferma la regola. Mai una volta in trent’anni che ci abbia detto «ho voglia di starmene in Sardegna per qualche giorno». Mai” (p. 24-5)
 
Come in cielo, così in mare

Cos’ha potuto determinare un così grave allontanamento? Bertu, il nonno di Antine, nemmeno presenzia al funerale. Lascia ai nuovi venuti milanesi la propria casa e si ritira in collina, nello storico ovile, dove bada alle capre e si consacra a una solitudine sdegnosa – a condanna della modernità e di suo figlio Salvatore.

Tutti, al paese, ricordano la vicenda dei Farina, nessuno però vuol parlarne. Antine è confuso: neppure l’affascinante Niada, che negli ultimi anni aveva accudito Tzia Jubanna, intende spiegargli cosa sia successo. È una reticenza che si riconnette ai silenzi del luogo e a un senso di appartenenza quasi religioso, che vige di casa in casa, tra i cortili, nella serietà dei locoesi. Il ragazzo, estromesso, ne subisce il magnetismo arcaico; e per capire la rottura fra suo padre e Bertu dovrà prima sintonizzarsi con questo mondo arroccato fra nudi speroni calcarei e ritorta vegetazione, con il mare che, vicinissimo, è il più simbolico custode del segreto.

Quando i genitori e la sorella ripartono per Milano, Antine decide di trattenersi a Locòe. A pretesto adduce argomenti esistenziali: “avevo pensato di prendermi una pausa subito dopo la laurea. Ammetto che questo posto è un po’ troppo in pausa. Anzi, quasi fermo. Ma potrebbe fare al caso mio.” (p. 48)

È un’indagine sulla propria identità che esorbita dallo svago turistico e dall’incanto della natura incontrastata: fin lì “[…] aveva potuto visitare siti archeologici, grotte, laghi ben segnalati e facilmente raggiungibili. Ora era come inseguire un rocchetto di filo impazzito, adagiato sulle rocce senza un ordine apparente. La traccia da seguire svaniva fra le pietre ed era fatta di assenze.” (p. 107-8)

Quello della sua famiglia non è mistero che possa svelarsi al solo raccontarlo, ma Antine scalpita. Il nonno, burbero, gli ripete che “è troppo presto”, e si riferisce proprio alla necessità di una lenta assimilazione, all’inquadramento per gradi di un conflitto che è, sì, generazionale, ma su un piano – come si vedrà – di antropologia sociale.

Il tempio della loro conoscenza reciproca è l’ovile, e Antine tiene un diario in cui la resoconta: “Ho trovato nel padre di mio padre, che ancora mi stupisce chiamare nonno, l’eredità di un’appartenenza che non conoscerò mai. È un possesso al contrario. Lui non ha nulla, nessun oggetto gli appartiene. È la sua persona ad appartenere a questi luoghi” (p. 151, corsivo nel testo)

Come sospettare, da Milano, l’esattezza di piccole scienze quali l’accensione del fuoco, la pulitura dello spiedo, l’arrosto della carne o l’ammollare del pane? C’è una bellezza primitiva nel cimento fisico di salire all’ovile senza perdersi; e c’è un ammirevole coraggio nella vecchiaia scelta da Bertu, perché in fondo anche ciò che appare epico è sempre essenzialmente umano.

Così, nel pasto condiviso tra nonno e nipote aleggia un monito (e, di riflesso, una speranza): “chi mangia da solo muore da solo” (p. 146). Bertu, che mai rinuncerebbe alla solitudine della montagna o al fruscio degli scorci di mare tra gli arbusti, cerca un’umile sopravvivenza. È questo il messaggio che Antine impara a decifrare. Insieme alla pazienza di uno sguardo su quella che, forse, diventerà Casa:

“Poi lo vide. Mare infinito e piatto, a perdita d’occhio, fino a diventare cielo, fino a tenere ferme le montagne. La bellezza è piena solo la prima volta, e in quel momento Antine era un cieco che schiude gli occhi sull’aurora dopo una vita di ombre sfocate.” (p. 51)

 
 
Giulio Neri
 
 

Ballo di famiglia

 
 
 
 

Libro d’esordio pubblicato negli Stati Uniti nel 1984 dall’allora ventitreenne David Leavitt (e uscito in Italia nel 1986 per Mondadori), Ballo di famiglia viene riproposto nel febbraio del 2021 da SEM nella traduzione di Fabio Cremonesi.

Si tratta, originariamente, di una raccolta di  nove racconti; alla quale l’autore, proprio in occasione della nuova edizione italiana, ha deciso di aggiungere un decimo (e brevissimo) racconto finora inedito, scritto l’anno dell’edizione mondadoriana. A spiegarlo è lo stesso Leavitt nell’appassionata introduzione.

La sensazione, a leggere le nove narrazioni primitive, è quella di una tale unitarietà di temi e toni da rendere superfluo ogni accenno alle trame (peraltro esili) di ogni singolo racconto.

La suddivisione in testi autonomi, anzi, appare quasi pretestuosa, e l’opera si presenta piuttosto come una sorta di polittico le cui ante hanno sì ciascuna una propria cornice, ma non sono che parti funzionali alla rappresentazione complessiva.

Ballo di famiglia è il resoconto di situazioni intime che si svolgono negli Stati Uniti negli anni della prima presidenza di Ronald Reagan, dominati da quella quasi ossessiva ricerca del benessere esteriore che prende il nome di yuppismo.

Sono vicende occorse in famiglie nel senso ampio del termine: protagonisti sono soprattutto giovani adulti, ma compaiono anche i loro genitori (dei quali, spesso, si intravedono amanti ed ex coniugi) oltre a cugini, zii e amanti.

Il bisogno di riconoscersi in un’estensione (arbitraria e forzata) del proprio nucleo familiare somiglia a quello – quasi ineludibile in quegli anni per la upper middle class americana – di mostrarsi disinvolti e metamorfici nei rapporti interpersonali.

Tuttavia la famiglia, così come la società, non solo non assolve la funzione sperata di strumento di conferma e amplificazione delle proprie inclinazioni e ambizioni; al contrario, la cosiddetta famiglia allargata, nella sua artificiosità, finisce semmai per confermare e amplificare frustrazioni e fallimenti individuali.

Gli attriti fra i personaggi delle narrazioni riguardano spesso figure appartenenti a diverse generazioni. Un espediente utilizzato in più racconti è quello della reciproca sordità tra la madre, una donna di mezz’età, e il figlio o figlia, un adulto poco più che ventenne. (altro…)