Insolita nella composizione: si tratta di narrazioni sì autonome, ma che lette consequenzialmente danno piuttosto l’impressione di un romanzo scomposto. Vediamo perché.
Le vicende dei personaggi, ambientate a Roma, si sviluppano lungo un arco temporale che va dagli anni Ottanta del Novecento a oggi. I tredici racconti sono altrettante istantanee di momenti di volta in volta significativi per uno dei protagonisti dell’opera, e quasi irrilevanti per gli altri.
Nel senso che, di narrazione in narrazione, i vari personaggi che animano Acari si alternano nel ruolo di primattore; essi, uno dopo l’altro, si trovano coinvolti in accadimenti cruciali o comunque notevoli per sé. Mentre chi compare come comprimario avverte appena (se lo avverte) quanto sta succedendo.
È questo uno dei motivi centrali del libro: mostrare come il flusso della vita, uno solo per tutti, crei tuttavia punti di massima condensazione differenti per ciascun individuo. E non c’è empatia possibile: il carattere necessario di un evento rimane personale, inavvertito o misconosciuto da chi non ne sia direttamente investito.
L’irriducibilità a relazione del nostro nucleo più intimo è dunque opportunità e limite: “Ognuno di noi è un mistero, ognuno può nascondersi in un punto dell’anima agli altri sconosciuto, in un luogo immaginario dove nessuno potrà mai trovarlo. Questo pensiero consolatorio diventa, oggi, il suo contrario: come può esserci comunanza, amore, se una parte di noi può sottrarsi all’incontro con l’altro?”, p. 178.
Ecco apparire sulla pagina, in tutta la loro dolcezza e crudeltà, la donna più vecchia del mondo, un ex calciatore che vorrebbe fare del proprio figlio la celebrità sportiva che lui non ha saputo diventare, un collezionista di cimeli nazisti, un gruppo di liceali alle prese con la bellezza abbagliante della vitalità e con il buio assoluto e inedito della morte, il disabile Gimbo e il suo amorevole amico Mario.
E poi c’è Claudia, il personaggio che più spesso ritorna, forse perché pare racchiudere in sé più vita – più verità, più coraggio, più intransigenza – degli altri. Una vita che ne ha trasformato il corpo: prima bellissima e desiderata, dopo un periodo di dipendenza dall’eroina Claudia finirà per ingrassare oltremodo e per diventare una pervicace venditrice di aspirapolveri.
Lo stile adoperato da Giampaolo G. Rugo assomiglia in qualche modo a uno sguardo misericordioso. Le situazioni più intime e drammatiche sono tratteggiate con una lingua precisa ma semplice e una sintassi piana; come se ogni solitudine – pur privata, indicibile e non replicabile – provenisse da una medesima matrice. E fosse sempre netta, spoglia, resistente a ogni tentativo di intellettualizzazione.
La cifra stilistica di Acari sottintende così un’implicita fratellanza universale, in virtù non già di un’identità di posizioni ma di una comune impossibilità di entrare davvero, completamente, in rapporto. I vuoti e non i pieni che ci abitano sono gli stessi per tutti. Solo questo àmbito di assoluta parità può portare non la salvezza ma almeno il sollievo di sapersi insieme, ugualmente inermi, senza privilegiati.
Allora, offrirsi quotidianamente al mondo significa condividere con gli altri, con tutti gli altri, il soggiorno nella sua illeggibilità.
“Eccoci io e il mio amico Gimbo, in una piazza del quartiere Prati, dopo una rocambolesca vittoria della Juventus, stesi sull’asfalto a ridere senza riuscire a fermarci.
Penso a questo e chissà, invece, cosa pensa Gimbo, che alza lo sguardo quando dalla finestra irradia la luce del sole apparso laggiù nel mare cobalto e sembra un miracolo. È il nuovo giorno che sostituisce il vecchio: il ritmo incessante della vita che si ripete ottuso.
Proviamo ad affrontarlo come possiamo, insieme agli altri.
E vediamo come va a finire”, p. 148.