Neo Edizioni

Acari

 
 
 
 

Acari, esordio narrativo di Giampaolo G. Rugo, è un’insolita raccolta di racconti uscita nel maggio del 2021 per Neo Edizioni.

Insolita nella composizione: si tratta di narrazioni sì autonome, ma che lette consequenzialmente danno piuttosto l’impressione di un romanzo scomposto. Vediamo perché.

Le vicende dei personaggi, ambientate a Roma, si sviluppano lungo un arco temporale che va dagli anni Ottanta del Novecento a oggi. I tredici racconti sono altrettante istantanee di momenti di volta in volta significativi per uno dei protagonisti dell’opera, e quasi irrilevanti per gli altri.

Nel senso che, di narrazione in narrazione, i vari personaggi che animano Acari si alternano nel ruolo di primattore; essi, uno dopo l’altro, si trovano coinvolti in accadimenti cruciali o comunque notevoli per sé. Mentre chi compare come comprimario avverte appena (se lo avverte) quanto sta succedendo.

È questo uno dei motivi centrali del libro: mostrare come il flusso della vita, uno solo per tutti, crei tuttavia punti di massima condensazione differenti per ciascun individuo. E non c’è empatia possibile: il carattere necessario di un evento rimane personale, inavvertito o misconosciuto da chi non ne sia direttamente investito.

L’irriducibilità a relazione del nostro nucleo più intimo è dunque opportunità e limite: “Ognuno di noi è un mistero, ognuno può nascondersi in un punto dell’anima agli altri sconosciuto, in un luogo immaginario dove nessuno potrà mai trovarlo. Questo pensiero consolatorio diventa, oggi, il suo contrario: come può esserci comunanza, amore, se una parte di noi può sottrarsi all’incontro con l’altro?”, p. 178.

Ecco apparire sulla pagina, in tutta la loro dolcezza e crudeltà, la donna più vecchia del mondo, un ex calciatore che vorrebbe fare del proprio figlio la celebrità sportiva che lui non ha saputo diventare, un collezionista di cimeli nazisti, un gruppo di liceali alle prese con la bellezza abbagliante della vitalità e con il buio assoluto e inedito della morte, il disabile Gimbo e il suo amorevole amico Mario.

E poi c’è Claudia, il personaggio che più spesso ritorna, forse perché pare racchiudere in sé più vita – più verità, più coraggio, più intransigenza – degli altri. Una vita che ne ha trasformato il corpo: prima bellissima e desiderata, dopo un periodo di dipendenza dall’eroina Claudia finirà per ingrassare oltremodo e per diventare una pervicace venditrice di aspirapolveri.

Lo stile adoperato da Giampaolo G. Rugo assomiglia in qualche modo a uno sguardo misericordioso. Le situazioni più intime e drammatiche sono tratteggiate con una lingua precisa ma semplice e una sintassi piana; come se ogni solitudine – pur privata, indicibile e non replicabile – provenisse da una medesima matrice. E fosse sempre netta, spoglia, resistente a ogni tentativo di intellettualizzazione.

La cifra stilistica di Acari sottintende così un’implicita fratellanza universale, in virtù non già di un’identità di posizioni ma di una comune impossibilità di entrare davvero, completamente, in rapporto. I vuoti e non i pieni che ci abitano sono gli stessi per tutti. Solo questo àmbito di assoluta parità può portare non la salvezza ma almeno il sollievo di sapersi insieme, ugualmente inermi, senza privilegiati.

Allora, offrirsi quotidianamente al mondo significa condividere con gli altri, con tutti gli altri, il soggiorno nella sua illeggibilità.

“Eccoci io e il mio amico Gimbo, in una piazza del quartiere Prati, dopo una rocambolesca vittoria della Juventus, stesi sull’asfalto a ridere senza riuscire a fermarci.
Penso a questo e chissà, invece, cosa pensa Gimbo, che alza lo sguardo quando dalla finestra irradia la luce del sole apparso laggiù nel mare cobalto e sembra un miracolo. È il nuovo giorno che sostituisce il vecchio: il ritmo incessante della vita che si ripete ottuso.
Proviamo ad affrontarlo come possiamo, insieme agli altri.
E vediamo come va a finire”, p. 148.

 
 
 

Tristezza

 
 
 
 

Uscito per Neo Edizioni nel febbraio del 2021 (traduzione di Dario Falconi, postfazione di Andrea Tosti), Tristezza è un graphic novel scritto da Federico Reggiani e illustrato da Angel Mosquito, entrambi argentini.

La vicenda è quella di un manipolo di sopravvissuti a una pandemia che rende tristi, concede un ultimo impeto di rabbia e poi conduce alla morte.

Una breve parentesi per dire che Tristezza non è un instant book che voglia raccontare quanto è accaduto con la diffusione del Covid-19: è stato scritto e pubblicato in Argentina tra il 2010 e il 2013 sulla rivista Fierro, e Neo lo ha opzionato prima che dilagasse il Coronavirus.

Provincia di Buenos Aires, autunno del 2030: alcuni reduci della quasi fine del mondo, divisi in piccoli gruppi, sono alla strenua ricerca di un luogo in cui stabilizzarsi. Con estrema difficoltà, perché del tempo di prima (locuzione che ritorna in più punti del volume) non rimane più nulla: né le organizzazioni statali né la tecnologia, né un sistema di istruzione né soprattutto la memoria.

Anche la stessa modalità di azione del virus, che prima rende irrimediabilmente mesti e malinconici, poi fa scaturire un estremo impulso d’ira e infine uccide, sembra la metafora di un’umanità al crepuscolo, incapace di gestire e dosare la propria emotività; forse perché l’eccessiva offerta di esperienze da fare e di cose da ottenere ha portato al definitivo allontanamento dalla coerenza, a favore di una multiformità comportamentale che dà modo di adattarsi a ogni diversa occasione. Il virus della tristezza, che ha decimato l’umanità, assomiglia dunque al senso di spaesamento provocato dalla mancanza di un’identità definita e compiuta.

E se la pandemia sembra la concretizzazione della perduta memoria di una vita condotta in modo univoco, i sopravvissuti – dicevamo – hanno una memoria del tutto personale e parziale del cosiddetto tempo di prima.

Ogni personaggio che appartiene allo sparuto gruppo di fuggitivi-girovaghi palesa clamorose dimenticanze nei confronti del mondo pre-pandemico. “E cosa fanno gli architetti?”, “Case”, si legge ad esempio a p. 25, senza che nessun elemento giustifichi l’amnesia che coglie uno solo dei due partecipanti al dialogo.

Ai momenti di inconsapevolezza, di cui a turno saranno preda tutti i protagonisti, se ne alternano altri di nostalgia quasi infantile, come nel dialogo di p. 71, in cui due personaggi parlano dei passati abusi della classe dirigente a Buenos Aires, ritrovando per qualche istante un fervore del tutto inopinato rispetto al contesto che stanno affrontando.

Sono notazioni non casuali, che inducono un sospetto: quello cioè che i pochi reduci non siano immuni dallo stesso atteggiamento istintivo e incongruente che ha permesso la diffusione del virus. O che quanto meno ne ha caratterizzato le vittime.

La prima tavola di “Tristezza”

La sensazione che l’umanità superstite non sappia emanciparsi da sé diventa ingombrante realtà nella seconda parte del graphic novel, quando i sopravvissuti entreranno in una comunità organizzata. Che presto si svelerà pericolosamente gerarchizzata, e i cui componenti mostreranno una serie di peculiarità tipiche di tante società moderne: fede ingenua negli idoli, ruoli cristallizzati, aggressività repressa (quando non sfogata) e maschilismo più o meno latente.

Gli unici estranei alla riproposizione di una nuova-antica civiltà sono un gruppo di ragazzini che vivono in uno stato di feroce primitività: si esprimono solo col turpiloquio, tra di loro non fanno che consumare rapporti sessuali e verso gli estranei liberano la più incontrollata violenza.

Questa narrazione di un ipotetico secondo ciclo di umanità alle prese con l’apocalisse, la cui atmosfera è allo stesso tempo allucinatoria e familiare, viene tratteggiata con sapienza sia dai dialoghi sempre in punta di assurdità di Reggiani che dalle tavole di Mosquito, il quale adotta un tratto essenziale e sporco, oltre a prediligere i colori freddi. I due autori danno così vita a esseri umani mai sufficientemente ragionevoli, mai sufficientemente gradevoli, mai sufficientemente diversi da noi.

La carne

 
 
 
 

In un futuro prossimo o in un presente alternativo al nostro (o più probabilmente nella desolazione della contemporaneità, presentata sotto forma di allegoria) è ambientato La carne, romanzo di Cristò dato alle stampe da Neo Edizioni nel novembre del 2020. Il libro, già uscito nel 2016 per Intermezzi, non passò inosservato nella trasversale categoria dei cosiddetti lettori forti: ebbe sostenitori entusiastici, tra i quali lo scrittore Paolo Zardi, che oggi firma la postfazione.

Con La Carne siamo in effetti di fronte a un’opera che, se si dovesse scegliere un solo aggettivo per definirla, chiameremmo diversa. Diversa da ciò che càpita di leggere abitualmente, almeno in questi ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda la prospettiva; come se il romanzo fosse il resoconto delle cose del mondo filtrate da una costante alterazione senso-percettiva, o un carotaggio della realtà effettuato tramite campionamenti insoliti per coordinate e profondità di scavo.

Tuttavia, il sicuro governo della lingua e la compattezza (e completezza) dell’immaginazione preservano un’opera così inusuale dal rischio dello sperimentalismo o dell’eccentricità gratuiti.

La carne, dunque. Il cui protagonista e io narrante è un signore quasi ottantunenne, che ricorda di continuo – ma forse senza eccessiva nostalgia – il “mondo com’era quando avevo otto anni” (p. 8). Frequentatore di cinema porno, è accudito dalla badante Marisa e riceve le visite del nipote Giulio. Parallelamente alla sua vicenda ci viene presentata quella del dottor Tancredi, marito di Luisa; è un personaggio che pare quasi inventato dallo stesso protagonista, non solo perché per sua bocca ne seguiamo le mosse, ma pure perché all’inizio della storia il narratore ne segnala l’ingresso in scena e la natura finzionale, avvalorata da una scelta onomastica magniloquente: “Il dottore della mia storia, invece, comincia a indagare. Lui ha il nome di un eroe. Il nome di un’opera lirica, un nome drammatico. Potrebbe essere Ernani o Tancredi. Ecco: Tancredi mi sembra meglio” (p. 8).

L’anziano e il dottore si troveranno – da angolazioni, con sentimenti e reazioni differenti – a dover affrontare un mondo sempre più inconoscibile. Un mondo in cui i pazienti di Tancredi “arrivano uno dopo l’altro e tutti hanno un foglio scritto in piena notte e tutti i fogli parlano di un sacco di cose”, come se l’identità di ciascuno, non più bastevole o magari non più necessaria, si disgregasse e parcellizzasse.

Non solo. È il diaframma stesso tra vita e morte a essere abolito: gli umani si trovano infatti a dover coabitare con una quantità di zombi del tutto innocui (anzi, perseguitati da gruppi di umani organizzati in ronde), contraddistinti da un’insaziabile fame di carne e dall’assenza di qualunque altra pulsione.

Questi esseri disumani continuano a moltiplicarsi, contagiando anche le persone più prossime ai due protagonisti (e pure i protagonisti medesimi?). Non per brama di conquista del pianeta ma piuttosto perché – paradossalmente – sono gli stessi umani, pur consapevoli che basti il minimo contatto fisico con gli zombi per contaminarsi, a non sapersi sottrarre a questo processo che sembra irrimediabile.

E così, a essere ribaltato è anche il più atavico dei nostri terrori, quello della fine: ne La carne “la maggior parte della gente ha paura di non morire” (p. 62).

Si resisterà qui alla tentazione di proporre interpretazioni metaforiche di un romanzo che indaga biografie e psicologie dei due personaggi principali, specie quelle del narratore, segnato da un episodio occorso quando aveva dieci anni e che sarà richiamato in più punti del testo, sino a fornire una possibile lettura circolare dell’opera.

Eppure, confortati dalle parole pronunciate proprio dall’io narrante, si può dire che la minaccia di trasformazione in zombi (e dunque di perdita del controllo sulla propria esistenza) somiglia al punto, sospeso sull’esistenza di chiunque, in cui “il mondo si sgretola all’improvviso. Per me è successo il giorno del mio decimo compleanno, ma me ne sono reso conto qualche anno dopo” (p. 116).

La distanza tra l’evento traumatico e la presa di coscienza del suo valore di discrimine è un particolare davvero non trascurabile: perché la sensazione provata durante la lettura de La carne è stata quella di trovarsi di fronte a un’umanità senza direzione, preda di pura istintualità, stanca e profondamente immalinconita, quasi ignara di sé, immersa in quella che Giorgio Caproni definì “disperazione calma, senza sgomento”.

 
 
 

Quori cuadrati

 
 
 
 

Quori cuadrati, illustrato da Stefania Dordoni, è il terzo (e ultimo, a voler credere a quanto si legge nell’aletta) romanzo di Alessandro Turati, uscito nell’ottobre del 2020 per Neo Edizioni come i precedenti Le 13 cose e Briciole dai piccioni, recensito su questo blog.

Già il titolo Quori cuadrati, in cui vengono messi in scacco non solo i significati ma pure gli stessi significanti, indica come il percorso di demistificazione del reale da parte dell’autore – o quanto meno di presa di distanza da esso – raggiunga qui il punto culminante.

Tentare poi di restituire una qualche trama, a beneficio delle attese del lettore, si rivela impresa ardua: si tratta della vicenda biografica di Uno Marković, tra amori più o meno infelici e separazioni più o meno luttuose; ossia, tutto ciò che in fondo caratterizza ogni parabola esistenziale. D’altronde il nome di battesimo del protagonista, di padre serbo e madre italiana, non lascia dubbi sulla sua natura tutt’altro che eccezionale.

Ecco la questione centrale del romanzo, e forse della poetica di Turati: le categorie dell’assurdo e dell’improbabile, che di solito si confinano ai margini della propria realtà perché la loro presenza non destabilizzi, qui si dilatano sino a corrispondere alla realtà medesima nella sua interezza.

E in effetti l’autore chiarisce le proprie intenzioni fin dalle Avvertenze iniziali: “In questo libro c’è una giraffa di oltre quattro metri che vive in una casa di due e settanta. È un fatto raro, ma non un buon motivo per escludere un animale domestico, specie un gatto”, p. 9.

Uno, che vivrà una breve e bruciante passione con Def, conoscerà successivamente Easter, “una ragazza di dodici centimetri” (p. 69) che anziché partorire deporrà un uovo. In Quori cuadrati tutto è possibile, al punto che – dopo un certo numero di pagine – il lettore smetterà di distinguere ciò che potrebbe o meno accadere. E se ogni cosa può accadere, nessuna è gestibile: Uno, preso in questo vorticoso vuoto di coerenza, lo osserva, talvolta cercando di opporre una strenua resistenza, più spesso limitandosi a segnalarlo con piglio quasi da cronista.

Da questa prospettiva così libera provengono alcune irresistibili sferzate ai luoghi comuni che inquinano la vita e la (cattiva) letteratura: “Def non aggiunge parola e osserva l’orizzonte come si osservano le palle di rotolacampo in un deserto ventilato: con gli occhi”, p. 28; oppure: “Accendo la radio e uno scrittore argentino parla di cosa lo spinga a scrivere tutti i giorni, che a quanto pare è la stessa cosa che lo spinge a respirare e a mangiare. Penso a quanto dev’essere bello poter dire robe del genere ed essere presi sul serio”, p. 41.

Pressoché a ogni pagina Turati ci ricorda come la maggior parte delle frasi che quotidianamente pronunciamo ci occorrono solo per rassicurarci o rassicurare, nonostante la loro vacuità: “[Arianna, N.d.R.] guarda la foto di mia madre dentro una cornice.
«Ha un bellissimo sorriso» commenta.
«È una persona felice» dico.
«Come mai?»
«Non so, sono nato e l’ho trovata felice»”, p. 47.

E a chi pretendesse di rinvenire un ammaestramento in quest’opera Turati spiega che “La morale sembra dietro l’angolo ma poi la strada è bloccata per lavori”, p. 52.

Quori cuadrati sembrerebbe dunque una dichiarazione di resa nei confronti del mondo, percepito come illeggibile e sordo a ogni tentativo non già di sua intelligenza e governo, ma anche solo di organizzare un’esistenza accettabilmente serena che poggi su una pur minima progettualità, su una pur minima causalità.

Tuttavia i due capitoletti conclusivi, che prendono il nome di Giustificazioni e pensieri scomodi, – veritieri o estrema burla nei confronti del lettore? – paiono proprio un postumo manifesto programmatico, umano prima che letterario: l’adultità è una somma di gesti ripetitivi che, al più, procurano dolore, e l’unica reazione ragionevole al vuoto di senso che ci sovrasta è non badarvi troppo o, se si possiede sufficiente coraggio, abbandonarvisi.
“Domenica scorsa ho parlato con un coccodrillo.
Poi l’ho sezionato.
Dentro di lui c’era un uomo col monocolo incastrato nell’orbita.
L’ho legato a un albero.
Si sta decomponendo.
Come tutti dopo i trenta.
Il mio locale preferito di Barceloneta ha chiuso”, p. 164.

 
 
 

Genesi 3.0

 
 
 
 

In una palazzina ai margini di un bosco vivono due uomini: il più anziano, soprannominato il Polacco, ha “almeno cinquant’anni, però ne dimostra una ventina di meno” (p. 13) ed è un eroico ex combattente della Luminosa Guerra. Durante la quale ha salvato decine di bambini intrappolati sotto le macerie, tra cui Simon, io narrante e protagonista di Genesi 3.0, ultimo romanzo di Angelo Calvisi, uscito nel febbraio del 2019 per Neo Edizioni.

Simon è un giovane che oltre ad abitare col Polacco ne subisce minacce e soverchierie; lavora duramente (benché di malavoglia), e ha per unico svago un rapporto stricto sensu con la gallina Mitropa. Finché un giorno un gruppo di militari preleva il Polacco, che nella veste di Grande Urbanista dovrà trasferirsi nella Capitale. Egli porterà con sé Simon, – “«[…] Cosa credi, che ti lascio qui da solo a far danni?»”, (p. 37) – e per il ragazzo spostarsi significherà precipitare in un incubo che pare tolto da una novella di Kafka o da un’opera pittorica di Otto Dix. Simon avrà a che fare con un potere insensatamente coercitivo, al quale cooperano un braccio militare, uno ecclesiastico-ospedaliero e una burocrazia tanto illogica quanto oppressiva.

Preferiamo non svelare altro di questa storia felicemente caotica, che procede come a scotomi, con salti o addensamenti temporali, tenendo costantemente sotto scacco il principio di causalità, e con esso il desiderio del lettore di governare la trama.

Conviene piuttosto concentrarci sui due aspetti più notevoli di un romanzo che si è tentati di leggere come satira del potere. E proprio il potere è appunto il primo dei due motivi forti del testo: potere inteso anzitutto come conculcazione delle libertà individuali per opera dell’oscuro regime che signoreggia sulla Capitale. Qui Calvisi indovina una formula inedita e disturbante, dando corpo – è proprio il caso di dire – alle metafore: rendere monchi dei diritti fondamentali, ad esempio, si declina in Genesi 3.0 nella mutilazione fisica degli individui per mano di sadici infermieri.

Ma il potere non agisce solo in direzione verticale. Ogni rapporto sembra basarsi sulla violenza o almeno sulla profonda incomprensione: lo stesso Simon, vittima degli insulti e delle angherie del Polacco, si rivale sulla povera Mitropa o su Miriam, la sua compagna, con gesti ora di sprezzante disinteresse ora di assoluto egoismo; è un maschilismo, il suo, ancora più becero poiché si capovolge in timore reverenziale nei confronti di figure femminili compiute (quali suor Perséguita o la misteriosa Madre).

Il potere è insomma l’unico codice comunicativo tra i personaggi, tutti destituiti – ecco il secondo motivo fondante di Genesi 3.0 – di una solida identità su cui fondare una traiettoria esistenziale univoca. Simon arriva addirittura a essere incerto sulla propria età; alla domanda su quanti anni abbia risponde: “«Ventidue, mi sembra»”, (p. 25), ma quando l’identica domanda gli verrà posta nelle pagine conclusive del romanzo, dirà: “«Quaranta», azzardo io”, (p. 135). (altro…)