Marsilio Editori

L’eredità dei vivi

 
 
 
 

Benché di solito sia buona norma non sovrapporre la biografia dell’autore al piano della narrazione, ci sono opere letterarie che quasi domandano ai lettori di contravvenire a questa avvertenza: tra esse va annoverato L’eredità dei vivi, romanzo scritto da Federica Sgaggio e uscito per Marsilio nel settembre del 2020.

Non so se, come hanno detto altri, il libro sia l’elaborazione di un lutto, la testimonianza dell’eccezionalità di un’esistenza normale (con buona pace di chi si ostina a credere che notorio e straordinario siano sinonimi) o un affresco sociale composto da una prospettiva intima. Di certo L’eredità dei vivi è la storia di Rosa Sammarco raccontata da sua figlia, Federica Sgaggio. È la storia di una donna nata a Solofra, in provincia di Avellino, e trasferitasi nel comune vicentino di Arzignano nel 1959; Rosa è caparbia e schietta, aliena a ogni perbenismo, capace di interrompere un’amicizia per una frase ambigua rivolta indirettamente alla figlia ma anche di grande accoglienza e sensibilità, ironia e disincanto: “Mi colpivano il tuo intuito spietato, violento e primitivo, la profondità, la trama raffinata delle tue sentenze”, si legge a p. 45.

Federica riconosce in sé la stessa estraneità alla sofisticazione che era propria di Rosa: “ogni nostra cosa è stata autentica, qualunque fosse la situazione, e non siamo mai state due damine” (p. 42).

Il motivo del rapporto strettissimo, quasi simbiotico, tra madre e figlia, va anche ricercato in un episodio della vita familiare: per la grave disattenzione di un medico, il secondogenito Francesco – nato sottopeso e dunque messo in un’incubatrice – soffrirà di una forte disabilità; ecco che la condizione di Francesco, oltre a incanalare la vitalità e il desiderio di giustizia sociale di Rosa nella frequentazione di un’associazione di familiari di bambini disabili, eleggeranno Federica a ruoli dai quali solitamente i giovanissimi sono sollevati: quelli, ad esempio, di confidente della madre e di sua collaboratrice nella gestione della quotidianità del fratello.

Il reciproco bisogno di complicità dà vita a un rapporto di straordinaria sintonia, che da un lato porta con sé momenti di grande divertimento; dall’altro, la condivisione così ravvicinata di fatiche e frustrazioni (sono diversi gli episodi in cui i diritti di Francesco vengono conculcati o quanto meno misconosciuti) nega a Federica l’ipotesi di un futuro autonomo: “Non ti perdonavo di essere stanca, sconfitta, sfiancata: l’incarnazione di tutto il dolore che mi avevi chiesto di caricarmi sulle spalle”, p. 39; “Sapevo solo che ero esclusa dal mondo degli altri, rinchiusa in un mondo speciale; l’eremo, una prigione in cui mia madre mi amava di un amore così intensamente materno e passionale da diventare virile. Era un amore eroico, smisurato e asfissiante”, p. 223.

Allora la morte di Rosa viene vissuta da Federica con la medesima lucidità e assenza di retorica che ha contraddistinto il suo legame con la madre viva: un affrancamento, lancinante quanto necessario, da un vincolo che allo stesso tempo garantiva protezione e illusorio senso di onnipotenza, per restituire l’unica superstite alla fragilità miracolosa dell’esistenza: “La morte di una madre, di una persona che hai amato, non chiude il passato ma lo riapre e te lo restituisce. Ti dà la libertà di guardarlo nel suo autentico dinamismo, che mentre vivevi non potevi cogliere se non nei momenti in cui il viaggio cambiava repentinamente pendenza e direzione. Ti dà la possibilità di esaminarlo nei fragili nessi di causalità che legano le sequenze degli avvenimenti”, p. 266.

Ne L’eredità dei vivi, struggente retrospettiva dedicata a Rosa, ci azzardiamo a dire che Federica Sgaggio rende un doppio omaggio alla strenua sincerità della madre: il primo è rappresentato da una lingua sicura, precisa ma mai calligrafica né compiaciuta; il secondo è dato dal fatto che ogni capitolo è autoconclusivo, ha collegamenti e rispondenze con altri punti della narrazione ma non compone alcuna progressione cronologica né di senso.

Come se i rapporti che formano una vita si alimentassero di energie sotterranee e segrete, debitrici più dell’istinto e del ritmo che della continuità causale; come se attingessero alla totalità del mondo, che è fatto di pieni e di vuoti, di cose conoscibili e inconoscibili, di drammi e frivolezze.

E proprio in questo modo pare abbia vissuto Rosa Sammarco: nell’accettazione dell’esistenza nella sua completezza, nella sua – si prenda il vocabolo in entrambe le accezioni – complessità: “Abbracciava il male della vita con uno sguardo largo e comprensivo, ma non si scomponeva. Aveva un cinismo pieno di delicatezza.
Non c’era niente di così atroce da non poter essere riferito in modo secco.
Non c’era niente di così banale da non poter essere descritto con ricchezza di particolari, fogliame e volute.
Niente di così brutto da dover essere abbellito, niente di così sciocco da non poter essere bello in sé”, p. 276.

 
 
 

Finta pelle

 
 
 

Finta pelle, scritto da Saverio Fattori e uscito per Marsilio nel maggio del 2020, è uno straordinario romanzo che si prende cura dell’umana incompiutezza. Non narra semplicemente l’umana compiutezza bensì se ne prende cura, perché – virtù rara nella letteratura contemporanea – c’è qualcosa di misericordioso nell’estrema attenzione dell’autore alla propria voce, sempre al servizio della vicenda e mai ansiosa di esibirsi; anche l’ironia, dove appare  (e appare spesso, e talvolta è irresistibile), mostra con benevolenza l’incapacità dei personaggi di governare la propria quota di realtà.

È la storia di un anonimo cinquantenne (nato precisamente nel 1967, come si ribadisce più volte nel romanzo, quasi che l’appartenenza a un’annata possa essere uno dei pochissimi, incontrovertibili motivi di riconoscimento e condivisione), ex tossicodipendente della provincia emiliana, che in un sito di cosiddetti incontri al buio conosce Tiziana, di tre anni più giovane di lui.

Tiziana è spinta ad addentrarsi in questo ambiente dalla repentina e inopinata degenerazione del proprio rapporto di coppia, che negli anni è stato consumato all’insegna di una certa monotonia. Monotonia forse voluta dalla stessa donna, a tutela del suo senso di inadeguatezza: “Paolo nelle foto non ride mai. Avevo sempre apprezzato questo atteggiamento trattenuto, così simile al mio, come se ogni ipotesi di felicità potesse solo imbarazzarci. A unirci era stato il disagio, non un ideale di gioia; difenderci in due forse sarebbe stato più facile”, p. 94.

Vero protagonista della vicenda è tuttavia l’uomo senza nome. Ma con un corpo indomito, spinto dalla smania incessante di reggere su di sé il peso grande dello stare al mondo. Se, una volta guarito dalla dipendenza da eroina, l’uomo gonfierà grottescamente i propri muscoli attraverso la pratica del body building, negli anni Ottanta del Novecento mescolerà – proprio con la tossicodipendenza – il desiderio di riscattarsi dalla propria inettitudine a quello di consegnarvisi definitivamente. Qui Fattori tratteggia situazioni e personaggi memorabili: la provincia italiana di allora, scompaginata dall’irruzione della droga, viene descritta con la precisione del sociologo, la cura del dettaglio propria dell’entomologo e la sensibilità (nonché la sospensione del giudizio) che possiede solo chi non sente il bisogno di covare complessi di superiorità. L’autore è altrettanto capace di non indulgere mai alla descrizione compiaciuta, a cui sarebbe facile cedere trattando un simile argomento.

Le cose, in Finta pelle, accadono, hanno motivi e conseguenze, e Saverio Fattori sa dire questi tre piani con una medesima lingua precisa, evocativa, ma senza mai sussulti gratuiti. E con un ritmo incalzante: “In città la politica, l’arte e l’eroina si erano mischiate, il fumettista Andrea Pazienza teneva sempre con sé un kit con una siringa di vetro da sterilizzare dopo l’uso e tutto l’occorrente per farsi, quasi fosse una consuetudine paramedica, ma quel buttare nel cesso la propria creatività sembrava la forma più alta di arte, e il disinteresse per i soldi e il successo il più politico degli atti. Ma noi eravamo la classe operaia della tossicodipendenza, una classe operaia senza alcuna coscienza, eravamo nati nella periferia di tutte le periferie, dove ogni cosa arrivava in ritardo, la musica come le cattive abitudini. Noi classe ’67 e ’68 avremmo dovuto essere un po’ più solari, ascoltare la new wave che incalzava, avremmo dovuto vivere in diretta, senza imprimerci a forza su una vecchia pellicola vestiti e atteggiati come scarti del periodo hippy”, pp. 32-3.

L’eroina era stata, in quegli anni, un tentativo rapido e tutto sommato di sicura efficacia per ritagliarsi attimi di confidenza con l’eterno. E gli effetti devastanti sull’organismo, paradossalmente, venivano spesso percepiti come il pegno tangibile di un’investitura: “L’eroina ti fa aderire all’idea di infinito, e tu sembri capirlo quel vuoto sconfinato e densissimo che chiamiamo universo; quando sei fatto il cervello è come in espansione, non conosce ostacoli o confini, al massimo della staticità corporea si contrappone uno stato mentale prossimo a una placida navigazione interstellare. Cosa ci raccontavamo tra tossici in quei giorni? I tossici portano una croce, hanno una missione troppo importante per concedersi altri interessi, musica a parte”, p. 38.

Il fatto che la dipendenza dalla droga di allora si travasi – da parte del protagonista – nella più recente soggezione a un sito di appuntamenti, oltre a dar vita a un finale sorprendente che lo vede coinvolto assieme a Tiziana, testimonia che nelle varie epoche muta solo esteriormente l’umana disposizione a ricercare il senso dell’esistenza, e quella – che scorre parallela in chiunque, e che finisce per soverchiare alcuni – a evadere dal mistero e dallo spavento dell’essere vivi: “Il buco era comunque un finale accettabile, come accettabile è l’orgasmo. Il vuoto nel quale sprofondo dopo lo spruzzo mi annulla, e in fondo questo cerco da sempre: la mia temporanea cancellazione dal presente e dal reale”, p. 99.

 
 
 

Come si fanno le cose

 
 
 
 

La storia di un’amicizia, quella tra Valentino e Massimo, di un piano per cambiare vita, della vita che interrompe i programmi. Si potrebbe riassumere così Come si fanno le cose (Marsilio, 2019), romanzo di Antonio G. Bortoluzzi ambientato in Alpago, tra le montagne del nord-est italiano.

Segnati dalle traversie e dalle fatiche di un impiego in fabbrica, in seguito a un incendio che mette a rischio l’esistenza degli operai, Massimo e Valentino, due addetti alla manutenzione presso la Filati Dolomiti, decidono infatti di pianificare una rapina ai danni della ditta orafa sorta vicino allo stabilimento in cui prestano servizio. Per rilevare, con il denaro rubato, un agriturismo sui monti e abbandonare per sempre la fabbrica.

“A me piace stare fuori e zappare. Non è come lavorare al tornio o su un’impalcatura o in una merda di sala compressori che fanno un frastuono che oltrepassa i tappi e ti fa vibrare il cervello e lo stomaco. Zappare, anzi meglio, vangare la terra è una cosa che riguarda il corpo, tutto il corpo” (p. 72), confessa Valentino.

Tuttavia, il suo incontro inaspettato con Yu, una ragazza cinese, muterà le sorti dei due protagonisti.

Narrato in terza persona da una voce che descrive le vicende e indaga sentimenti e pensieri dei due protagonisti, oltreché in prima persona – secondo il punto di vista di Valentino –, Come si fanno le cose è un romanzo che fronteggia, in modo sottile e avvincente, tra le altre questioni, il senso del lavoro.

Da un lato, al lettore è offerto un ritratto storico-sociale del lavoro; in particolare, con rapidi ed efficaci tratti viene mostrata l’alienazione, la solitudine, la ripetitività della vita di fabbrica negli anni Duemila, dopo il declino del senso di collettività e della difesa dei diritti dei lavoratori, che avevano caratterizzato il Novecento. I due protagonisti subiscono un meccanismo che alimenta le diseguaglianze sociali e annienta e isola l’individuo, per il profitto di un padrone sempre più invisibile.

“Massimo entra in fabbrica attraversando al buio il cancello verde. È il verde il colore della Filati Dolomiti. Le porte e le finestre sono verdi, le grondaie sono verdi, la recinzione, i cancelli, tutto dello stesso colore” (p. 36); “[…] individui, ognuno chiuso nella propria auto, casa, fabbrica, ufficio. Ognuno per sé, lontano dagli altri e solo” (corsivo nel testo, p. 201).

Dall’altro, in questo romanzo appare evidente che l’essere umano non può uscire dalla dimensione del lavoro, cioè dal fare le cose.

“Forse ciò che conta di più è il modo in cui si lavora, come si fanno le cose, non tanto quello che si fa. […] fare una cosa che sia nostra. Solo nostra” (p. 73).

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Le cose che abbiamo perso nel fuoco

 
 
 

Appare quest’anno per i tipi di Marsilio Le cose che abbiamo perso nel fuoco di Mariana Enriquez, un appassionante libro di racconti tradotti da Fabio Cremonesi.

Nella prima narrazione, Il bambino sporco, si è immersi nella vita di Sarita, che ha deciso di abitare in un quartiere malfamato di Buenos Aires – quasi che per vivere davvero fosse necessario sfidare se stessi – ed è ossessionata dalla presenza di un bambino di strada nei pressi della propria abitazione: “Questo quartiere mi piace. Nessuno capisce perché. Io sì: mi fa sentire in gamba e coraggiosa, sveglia. Non ci sono più molti posti come Constitución: a parte le borgate di periferia, la città è più ricca, più gentile, è intensa ed enorme, ma è semplice da vivere. Constitución non è semplice ed è bello”, p. 11.

Protagonista de L’Hostería è invece Florencia, una ragazzina che accetta di seguire di notte l’amica Rocío all’interno di un hotel su cui pare pesare un indicibile passato, allo scopo di commettere una bravata destinata a essere interrotta: “Quando stavano per sdraiarsi sul letto matrimoniale appena rifatto, però, da fuori giunse un rumore che le costrinse a chinarsi spaventate”, p. 44.

Anche ne Gli anni strafatti ci si addentra nei momenti nella vita quotidiana di alcuni giovani donne, le quali mostrano di avere una disinvolta familiarità con violenze e droghe e al contempo si comportano come animali impauriti e disperati: “A volte non ci facevamo di cocaina e preferivamo un acido bevendoci sopra. Spegnevamo le luci e giocavamo nel buio con degli incensi accesi; sembravano lucciole e mi facevano piangere, mi ricordavano una casa con il tetto di tegole e il giardino, lontano dalla città, una casa con uno stagno in cui giocavano i rospi e le lucciole volavano tra gli alberi”, p. 58.

Ne La casa di Adela è proprio una strana abitazione dalle finestre murate e circondata da un prato rasato ad attrarre tre bambini, Adela, che al posto del braccio sinistro “ha una piccola protuberanza di carne che si muoveva, con un pezzo di muscolo, ma non serviva a niente” (p. 66), Pablo e la sorellina di quest’ultimo, la voce narrante: “Lei spalancò la porta e a quel punto vedemmo che dentro la casa c’era luce. Ricordo che camminammo tenendoci per mano sotto quel chiarore che sembrava elettrico, benché sul soffitto, dove avrebbero dovuto esserci i lampadari, ci fossero solo dei vecchi cavi che si affacciavano dai buchi come rami secchi”, pp. 74-75.

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La ragazza selvaggia

 
 
 

Uscito per Marsilio nel maggio del 2016, La ragazza selvaggia di Laura Pugno è un romanzo che indaga il confine tra natura e cultura, i limiti che costituiscono ogni relazione e quindi l’oscurità del mondo, la sua quota di indicibilità.

È la storia di Nina e Dasha, due gemelle rimaste orfane dopo il disastro nucleare di Chernobyl e adottate dall’industriale Giorgio Held. E dello stesso Held, che assieme al collega e amico Michele Varriale ha dato vita, nel bosco del paese di Stellaria, “all’idea di una riserva integrale, di uno spazio protetto da cui l’uomo e i segni del suo passaggio sarebbero stati banditi, destinato a rinselvatichire fino a un ipotetico, immaginario stato di natura”, p. 14. Ed è anche la storia di Tessa, ricercatrice rimasta sola, in un container, a presidiare la riserva ormai in dismissione.pugnoRAGAZZAcover

È, infine, la storia di una serie di personaggi che vivono in una condizione di separatezza dalla realtà; separatezza che se coincide con la morte nel caso di Michele Varriale, suicida, e di Alice Ascani, ex compagna di studi di Tessa, per altri è lontananza dal consorzio civile, a causa di impedimenti fisici o psicologici. Impedimenti fisici per Nina, in coma dopo un incidente stradale; impedimenti psicologici, ad esempio, per Dasha, la sorella autistica, smarritasi dodicenne nel bosco e ritrovata dieci anni dopo da Tessa in uno stato di quasi ferinità; per Agnese, moglie di Giorgio, segnata da tre gravidanze fallite, dalla scomparsa di Dasha e dall’incidente di Nina; in un certo senso anche per Nicola, figlio di Michele, che ha perso sia il padre che la persona amata (cioè Nina); e per Tessa, che quotidianamente si divide tra il qui della socialità e l’altrove del suo container.

Più che dar conto dello sviluppo, pur avvincente, della trama, si ritiene importante illustrare l’atmosfera de La ragazza selvaggia, libro che pare davvero tenersi in bilico tra il pieno e il vuoto del mondo (dove per pieno si intende tutto ciò che si possa riconoscere e prevedere; insomma, tutto ciò che si possa amministrare). (altro…)