Marino Magliani

Corpo e desiderio

 
 
 

Forse vivere è un continuo prendere le distanze, un inesausto tentativo di affrancamento: “Così, ogni volta che rivedeva la collina dov’era nato, egli si andava convincendo che un mare bisognava cercarlo lontano”, p. 16

O forse, al contrario, vivere è un’incessante ricerca di qualcosa che si è perso per sempre, un senso primitivo e compiuto di cui non resta che una pallida memoria: “All’imboccatura del Noordzeekanaal rividi Ijmuiden, le dune di Zeewijk, e mi richiesi dove avevo già sentito quei nomi. Forse nel sogno, non scherzo, sognavo spesso che prima di nascere ero altrove, con altra gente, e si aspettava tutti quanti seduti per terra, in riga, la schiena contro un muro”, pp. 39-40.carlos paz copertina

Ma come si fa a proiettarsi in avanti, o a ripiegarsi all’indietro, se siamo chiusi dentro un corpo che si ostina a essere vero solo nel presente? “Ora che la carne si staccava – un salmone in montagna, alla fine della corsa -, ora i pensieri tornavano. Era normale. Era normale? Che tornassero i pensieri, certo, e con loro i desideri, erano loro a voler restare, non la carne, la carne non bruciava più, era calma…”, p. 155.

Allora, forse, viviamo contemporaneamente in due tempi distinti. Il tempo del corpo e il tempo del desiderio: “Facevo il mozzo. […] A Bastia si arrivava verso il tramonto e io terminavo i lavori in fretta per uscire a fare un giro. […] Ma una sera, malgrado avessi preso ogni precauzione, tornai e la nave non c’era più. […] Mi fu chiaro che era esattamente come sostenevano i dottori: c’era un tempo che non mi apparteneva, e se vivevo in quel tempo non avevo paura, anche se del vero tempo perdevo il controllo. Per questo avevo perso la nave”, p. 185.

E l’invincibile nostalgia che accompagna le nostre vite non deriva dallo struggimento per il passato o dall’angoscia del futuro. Deriva dall’impossibilità di far coincidere il tempo del corpo e il tempo del desiderio. Che è poi l’impossibilità di governare il tempo. L’impossibilità di essere eterni: “La nostalgia non è mica una cosa che senti quando sei lontano e pensi a una valle, a una casa, a un marciapiede, al rumore di un torrente, no, ve lo dico io, credetemi, che lo so, la nostalgia la senti quando sei lì e sai che a breve, anche stavolta te ne andrai da una valle, da una casa, da un marciapiede, dal rumore di un torrente. Potresti restare, ma sai che te ne vai, e se ci pensi non sai perché, ma sai bene che troppe cose fanno ancora parte dello stesso gioco”, p. 209.

 
 

(Citazioni e suggestioni tratte da Marino Magliani, Carlos Paz e altre mitologie private, Amos Edizioni, 2016).

 
 
 

Liguria, Spagna e altre scritture nomadi

 
 
 

Uscito nel settembre del 2015 per Luigi Pellegrini Editore con una premessa di Giuseppe Panella, Liguria, Spagna e altre scritture mobili raccoglie sei testi di Marino Magliani e due di Riccardo Ferrazzi, autori che hanno già lavorato assieme come traduttori de Il molino a vento e altre prose (Galaad Edizioni), recensito su questo blog.

Dei sei racconti di Magliani, particolarmente persuasivo è il primo, La valigia. La narrazione altro non è che la lettera di risposta di un sanremese a un amico scrittore, curioso di recuperare alcuni ricordi dell’infanzia comune e di sapere che fine abbia fatto una certa valigia. Ciò dà modo al redattore della lettera, scrittore anch’egli ma per diletto, di comporre un testo pieno di vivacità, nel quale il ricordo del passato è sempre al riparo dal rischio della retorica.

L’amico scrittore, infatti, viene rievocato con un’affettuosità misurata, che non impedisce di far riaffiorare anche suoi antichi difetti e limiti (“tu non eri mica un gran nuotatore, secco come un’anguilla, stavi sempre attento che non ti facessimo bere”, p. 23). Non appena indulge a un complimento, il sanremese vi giustappone una nota critica o sarcastica. Non per malignità ma per copertina_fontana_zolasenso di onestà ed equilibrio: “Passo davanti alle librerie e se in vetrina vedo il tuo nome, entro e lo compro, e sono i soli soldi che spendo in libreria, te l’ho detto, e su questo credo che tu non abbia dubbi. Ma poi non li finisco mica, stanno dei mesi sul comodino, i tuoi libri mi hanno sempre fatto addormentare”, p. 27.

Un atteggiamento altrettanto sincero, l’autore della lettera lo adotta nei propri stessi confronti: “Sbagliavo. Come sbaglio ora che ti rispondo e non ti rispondo perché tu vuoi sapere la verità sulla valigia, mentre a me interessa semplicemente sapere come scrivo”, p. 24.

Nelle righe finali della missiva, si crea un corto circuito che suscita tanto il riso quanto la commozione: l’autore imputa all’amico di avere adoperato a sproposito, in un suo libro, alcuni termini; salvo poi invitarlo a restare in contatto e trascorrere del tempo insieme: “E quando parli di aprico e opaco, ma ti rendi conto che non dici niente: tutto, mica solo in Liguria, è opaco o aprico […] Bene, amico mio, dimentica la valigia, e dimmi se vuoi che ti mandi qualche ricordo che ho io di quando andavamo a nuotare e pescare le anguille che ingrassavano negli scogli dei mulini. Io sono in pensione, di tempo dovrei averne, anche per venire a Torino e prendermi una camera di albergo e mangiarci un bollito da qualche parte nelle trattorie Lungo Po”, p. 28.

Nella postfazione, Magliani svelerà il nome dello scrittore (già facilmente intuibile leggendo il racconto). Eppure ciò non aggiunge nulla a queste belle pagine, in cui il movimento della memoria non è mai appesantito (né dunque mai falsificato) dall’illusoria trasformazione del passato in un tempo mitico, a prova di errore.

La medesima valigia farà nuovamente parlare di sé nel racconto Il bradipo gigante di Mary Susanne, un’altra storia di affetti e malinconia, nella quale la protagonista, un’archeologa tedesca, torna in Liguria da Leo, amico di vecchia data col quale rievocherà Gregorio, morto anni prima in un incidente stradale. Per Mary Susanne, l’irriconoscibilità del paesaggio è sintomo dell’impossibilità di riappropriarsi del passato: “Mentre aspetta l’autobus per Sorba, [Mary, n.d.r.] guarda il vuoto sul mare e si accorge di non ritrovare più neanche i colori. C’è un gigantesco porto turistico […] dove un tempo nuotava”, pp. 31-2. (altro…)

I luoghi non attendono nessuno

 
 
 

Non ci sono esperienze privilegiate. Nemmeno il viaggio, o il racconto di esso. Nessun luogo si conquista. I luoghi non esistono per essere capiti. I luoghi non attendono nessuno.

Dunque il racconto di un luogo non può che essere il resoconto di uno smarrimento: “il canale è un deserto senza riferimenti, non c’è corrente, e se non fosse per le piante piegate, non sapresti dire se scappi dal mare o se ci vai incontro”, p. 69.

L’accettazione dell’indicibilità dei luoghi libera dall’ansia di possesso: “Qui c’è nulla, Piet. E se c’è nulla ti accorgi che non c’è angoscia; un posto che non è un mucchio e non è un vuoto; un molo che non è né terra né mare”, p. 27.

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Di più: i luoghi, se riconosciuti come illeggibili, possono aiutare ad abbandonare l’illusione di onnipotenza, ad accettare l’idea che ogni vita è un quotidiano perdersi, dissiparsi: “È un lavoro di sottrazione, si sparisce piano piano, mica di colpo. Tu ci riesci bene, Piet. Il desiderio di non lasciare nulla è un progetto che io, raccontandoti, potevo solo rovinare”, p. 28.

Allora i luoghi tornano amici proprio nel loro non offrire appigli, punti riconducibili al noto: “Ma prova a tornare? Non torni mica. Vai, qui vai sempre, e ogni volta è un posto nuovo”, p. 34.

E così il camminare, al pari del leggere, da presunto strumento di conoscenza si riduce ad azione meccanica: “L’occhio si fa arido, un po’ come quando leggi un libro, salti le pagine e fai finta di niente. Sai che procedi perché lo senti nel passo, nella suola malandata, nel fruscio come di canneto del gore-tex”, pp. 98-9.

Viene da pensare che Marino Magliani, parlandoci del Noordzeekanaal, ci stia in realtà parlando di ben altro limite tra noto e ignoto: “Questa è la frontiera. Prima e oltre c’è l’esilio. Ma dove inizia esattamente l’esilio? Fin dove si estende una possibilità di sopravvivenza?”, p. 67.

 

(Marino Magliani, Il canale bracco, Fusta Editore).

 
 

Illustrazione originale di G. C. Cuevas.

 
 
 

L’amico del deserto

 
 
 

Pubblicato nel 2015 da Quodlibet nella traduzione di Marino Magliani – il quale ben restituisce nel ritmo avvincente del dettato l’incalzare degli eventi –, L’amico del deserto è un romanzo di Pablo d’Ors (del quale è stato recensito su questo blog Biografia del silenzio) che ruota attorno un’esperienza di apprendistato all’assoluto.

Pavel, un uomo di quarantadue anni, voce narrante della storia, chiede di potere fare parte di una associazione di amanti del deserto, di cui viene a conoscenza leggendo sulla quarta di copertina di un libro il nome del fondatore di questa, il professor Ladislao Pecha di Brno.

cover dors deserto alta vTuttavia, appartenere a questo gruppo riunito sotto il segno di una passione insolita (“Si trattava piuttosto di un’istituzione al servizio di un ideale abbastanza ampio perché ci si potesse riconoscere in molti e, nello stesso tempo, abbastanza specifico perché le porte non fossero aperte indiscriminatamente a chiunque. Presto avrei imparato che non veniva ammesso nessuno che cercasse tra gli Amici soltanto una via di fuga o un modo per allontanarsi dalla vita quotidiana”, p. 35) si rivela un’impresa tutt’altro che priva di ostacoli. Il protagonista dovrà infatti fare i conti non solo con un ambiente ostile, popolato da individui ambigui e dai comportamenti incomprensibili, ma anche con il proprio disorientamento.

Bisogna ricordare infatti che il controcanto agli eventi di questa confessione dal sapore avventuroso è rappresentato dalle domande che Pavel pone a sé stesso, e che regalano un’interessante immagine della relazione tra ciò che accade e ciò che il protagonista vive, quasi a voler mostrare (senza spiegare) quelle zone di vuoto e di interruzione della continuità illusoria che apparentemente rende uniformi, contigui e univoci il mondo e l’esperienza che si ha di esso:

“Dove andare o trovare qualche pretesto e scusarmi? Cosa sarebbe avvenuto durante quella giornata e in quella casa che, secondo quanto specificava, era proprietà dell’associazione? E, soprattutto, fino a che punto doveva arrivare il mio interesse per il deserto perché costoro (ma chi erano?) mi giudicassero persona di fiducia e degna di credito?” (p. 27).

Solo quando Pavel accetterà di non capire, di non conoscere gli obiettivi e gli scopi delle azioni altrui, anche nei propri confronti, potrà prepararsi per incontrare nuovamente il deserto, che la prima volta è per lui fonte di delusione. Sempre accompagnato dal ricordo della figura e del volto di Charles de Foucauld, egli sentirà una forte attrazione per le fotografie del deserto che custodisce a casa propria e che desidera guardare incessantemente.

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Il molino a vento e altre prose

 
 
 

Curato da Riccardo Ferrazzi, qui anche traduttore assieme a Marino Magliani, Il molino a vento e altre prose (uscito per Galaad Edizioni nel marzo del 2015) contiene alcuni brevi testi di tre autori spagnoli vissuti tra Otto e Novecento che solo a prima vista sono stati bizzarramente giustapposti.

Di Gabriel Miró, cesellatore di una raffinata prosa poetica di ispirazione dannunziana, possiamo leggere cinque brevi Ritratti di campagna e quattro brani altrettanto brevi tolti da La conchiglia del faro.

Seguono L’articolo di fondo e Il rompicapo, due racconti scritti da Benito Pérez Galdós con ampie concessioni al virtuosismo.

Chiudono il libro il racconto Vendetta moresca e quattro Schizzi della Costa Azzurra, che svelano un’inconsueta inclinazione di Vicente Blasco Ibáñez alla narrazione asciutta.

Si tratta dunque di tre voci diversissime tra loro eppure tutte ugualmente sicure, al servizio di mondi narrativi governati con una sapienza quasi compiaciuta.copMolino

Ma cosa accomuna, al di là delle coincidenze geografiche e cronologiche, queste tre scritture?

Seguiamo l’ordine di apparizione dei testi. Gli aggraziati paesaggi descritti da Miró nei Ritratti di campagna sono attraversati dall’inquieta figura di un viandante, presentato da una sinestesia che ne restituisce efficacemente la natura fantasmatica ed errabonda: “Lungo il sentiero si avvicina un viandante. Per un bel po’ si sentono i passi delle sue scarpe di corda; lo si ascolta fermarsi a guardare il sentiero, la distanza ancora da percorrere. Il sole, lo sfondo azzurro, e in mezzo una gloriosa nube bianca”, pp. 15-6.

Ne La conchiglia del faro, invece, a destabilizzare lo sviluppo dell’azione provvede lo stesso io narrante, che in più di un passaggio sembra come estraniarsi da sé, sdoppiarsi: “Le luci di una nave ci fanno palpitare come un bacio. Le attendiamo quasi per assaporare l’amaro di vederle sparire. Sono io quello che aspetta, eppure mi pare di essere io l’atteso”, p. 45; “Nella mia camera da letto la notte tornò ad accarezzarmi la pelle. La notte o la sensazione di me stesso. Non avevo preso un impegno con me stesso per quando sarei andato a letto? Be’, ero lì, e mi aspettavo”, p. 51. (altro…)