L’opera è di agile lettura sia per la sua brevità (cento pagine di piccolo formato) che per l’esiguità della trama. Jonas, giornalista in pensione, approfitta di una vacanza con le figlie sulle isole Åland per mettere mano alla biografia del misterioso Y. Ovvero un magnate senza scrupoli verso il quale Jonas nutre un sentimento rancoroso e, assieme, un’ambigua attrazione.
La trama è un pretesto, necessario all’autrice per delineare la figura di un personaggio – Jonas – ossessionato dalla parola, che interpreta come accesso a un mondo incorruttibile, perfetto.
Il mondo vero, dunque, con le sue aleatorietà e approssimazioni, le sue mancate corrispondenze tra pianificazioni ed esiti, interessa a Jonas solo come fondale da cui ascendere all’iperuranio del linguaggio.
Per questo, il sentimento del giornalista verso le due figlie (e, finché è stato sposato, verso la moglie), è duplice. Di indifferenza talvolta venata di fastidio; e di severità, quando egli percepisce da parte loro un utilizzo impreciso della parola.
Ma la solitudine di Jonas è universale, perché l’unico rapporto che coltiva è, appunto, quello con la lingua. Ed è una relazione non certo distesa né appagante, perché ciò che il giornalista ricerca è una purezza inattingibile: “Sono rinchiuso con queste parole a cui non riesco mai a dare la chiarezza che meritano.
E non ho nessuno con cui parlare” (p. 27).
E poi c’è Y, che gli impone un utilizzo mercantile del linguaggio, funzionale alla stesura della biografia di una figura spregevole. “Lui che ha sepolto le infinite possibilità della parola e impietrito tutto ciò che è vero e audace e onesto e delicato, che ha corrotto e impoverito la lingua, ha dato facile accesso a falsi sogni celatamente menzogneri e al vile bisogno di sensazionalismo che, nella sua avidità, non ha niente a che fare con il capire e il riflettere, l’uscire da sé e dimenticare del tutto i nostri piccoli affari personali della quotidianità” (pp. 30-1).
Ma cos’è mai quel “vero” di cui parla Jonas? La vita? Poco probabile, se gli è quasi estranea (e non a caso in più punti si accenna a una pericolosa inclinazione del giornalista all’alcol). La parola stessa? Altrettanto dubitabile, giacché si tratta – come abbiamo detto – di una tensione costante e non di un approdo.
Preso dunque tra due universi ugualmente ignoti, realtà e parola, Jonas ha la fortuna di avere due figlie e una moglie che, attratte (spaventate?) dalla sua statura intellettuale, ne compatiscono il lato narcisistico e ossessivo. Lo accettano amorevolmente, così com’è, con i suoi “Precisa!” ogni volta che una frase risuona alle sue orecchie mal formulata o ambigua.
Dice di lui la moglie: “Una volta ho chiesto direttamente a mio marito: Jonas, ho detto, ma perché te la devi prendere così tanto per tutto? In fondo è così semplice.
Che cosa? Ha detto. Cos’è che sarebbe semplice? Precisa!
Ma io non sapevo cosa rispondere”, p. 52.
Jonas a un certo punto sembra valutare il consiglio della moglie: “Devo semplificare” (p. 58). Ma non riuscirà nell’intento: la mania della parola come possibile varco per un universo perfetto, e perfettamente amministrabile, non sa abbandonarlo.
E allora viene da pensare che Y incarni la scrittura, pratica in cui la parola mostra la sua indole più demoniaca, elevando dalla quotidianità ma per tenere sospesi al di qua di ogni altrove possibile.
Così si esprime Jonas nei confronti di Y: “Ti avevo liquidato, sepolto, esorcizzato e crivellato di colpi, eppure ci sei ancora. Eri morto e sei morto una seconda volta quando ho smesso di scrivere di te. Eppure sei ancora qui” (p. 76).
E ancora (p. 98): “Ho passato troppo tempo in tua compagnia e ho lottato duramente per dare vita a noi due, e la cosa più spaventosa è che io ti ammiro, con tutto il mio odio. Perché non puoi concedermi una pur minima debolezza, un unico passo falso?”
(Claudio Bagnasco)