Iperborea

Campo di pietra

 
 
 
 

Nel giugno del 2022 Iperborea ha dato alle stampe, nella mirabile traduzione di Carmen Giorgetti Cima (e con una postfazione forse non necessaria, oltre che autoriferita, di Anna-Lena Laurén), Campo di pietra di Tove Jansson, scrittrice finlandese di lingua svedese scomparsa nel 2001.

L’opera è di agile lettura sia per la sua brevità (cento pagine di piccolo formato) che per l’esiguità della trama. Jonas, giornalista in pensione, approfitta di una vacanza con le figlie sulle isole Åland per mettere mano alla biografia del misterioso Y. Ovvero un magnate senza scrupoli verso il quale Jonas nutre un sentimento rancoroso e, assieme, un’ambigua attrazione.

La trama è un pretesto, necessario all’autrice per delineare la figura di un personaggio – Jonas – ossessionato dalla parola, che interpreta come accesso a un mondo incorruttibile, perfetto.

Il mondo vero, dunque, con le sue aleatorietà e approssimazioni, le sue mancate corrispondenze tra pianificazioni ed esiti, interessa a Jonas solo come fondale da cui ascendere all’iperuranio del linguaggio.Campo di pietra

Per questo, il sentimento del giornalista verso le due figlie (e, finché è stato sposato, verso la moglie), è duplice. Di indifferenza talvolta venata di fastidio; e di severità, quando egli percepisce da parte loro un utilizzo impreciso della parola.

Ma la solitudine di Jonas è universale, perché l’unico rapporto che coltiva è, appunto, quello con la lingua. Ed è una relazione non certo distesa né appagante, perché ciò che il giornalista ricerca è una purezza inattingibile: “Sono rinchiuso con queste parole a cui non riesco mai a dare la chiarezza che meritano.
E non ho nessuno con cui parlare” (p. 27).

E poi c’è Y, che gli impone un utilizzo mercantile del linguaggio, funzionale alla stesura della biografia di una figura spregevole. “Lui che ha sepolto le infinite possibilità della parola e impietrito tutto ciò che è vero e audace e onesto e delicato, che ha corrotto e impoverito la lingua, ha dato facile accesso a falsi sogni celatamente menzogneri e al vile bisogno di sensazionalismo che, nella sua avidità, non ha niente a che fare con il capire e il riflettere, l’uscire da sé e dimenticare del tutto i nostri piccoli affari personali della quotidianità” (pp. 30-1).

Ma cos’è mai quel “vero” di cui parla Jonas? La vita? Poco probabile, se gli è quasi estranea (e non a caso in più punti si accenna a una pericolosa inclinazione del giornalista all’alcol). La parola stessa? Altrettanto dubitabile, giacché si tratta – come abbiamo detto – di una tensione costante e non di un approdo.

Preso dunque tra due universi ugualmente ignoti, realtà e parola, Jonas ha la fortuna di avere due figlie e una moglie che, attratte (spaventate?) dalla sua statura intellettuale, ne compatiscono il lato narcisistico e ossessivo. Lo accettano amorevolmente, così com’è, con i suoi “Precisa!” ogni volta che una frase risuona alle sue orecchie mal formulata o ambigua.

Dice di lui la moglie: “Una volta ho chiesto direttamente a mio marito: Jonas, ho detto, ma perché te la devi prendere così tanto per tutto? In fondo è così semplice.
Che cosa? Ha detto. Cos’è che sarebbe semplice? Precisa!
Ma io non sapevo cosa rispondere”, p. 52.

Jonas a un certo punto sembra valutare il consiglio della moglie: “Devo semplificare” (p. 58). Ma non riuscirà nell’intento: la mania della parola come possibile varco per un universo perfetto, e perfettamente amministrabile, non sa abbandonarlo.

E allora viene da pensare che Y incarni la scrittura, pratica in cui la parola mostra la sua indole più demoniaca, elevando dalla quotidianità ma per tenere sospesi al di qua di ogni altrove possibile.

Così si esprime Jonas nei confronti di Y: “Ti avevo liquidato, sepolto, esorcizzato e crivellato di colpi, eppure ci sei ancora. Eri morto e sei morto una seconda volta quando ho smesso di scrivere di te. Eppure sei ancora qui” (p. 76).

E ancora (p. 98): “Ho passato troppo tempo in tua compagnia e ho lottato duramente per dare vita a noi due, e la cosa più spaventosa è che io ti ammiro, con tutto il mio odio. Perché non puoi concedermi una pur minima debolezza, un unico passo falso?”

 
 
(Claudio Bagnasco)
 
 

L’uccello nero

 
 
 
 

Lunedì 20 settembre è uscito per Iperborea (nella traduzione di Maria Valeria D’Avino) L’uccello nero di Gunnar Gunnarsson, considerato il maggior esponente della letteratura islandese assieme a Halldór Laxness.

Il romanzo era già apparso in Italia per Mondadori nel 1936, tradotto da Giacomo Prampolini. Gunnarsson lo ha pubblicato in Danimarca, dove risiedeva, nel 1929: scritta in lingua danese, l’opera sarebbe poi stata tradotta in islandese dallo stesso autore una volta fatto ritorno in patria.

L’uccello nero viene eletto forse un po’ arbitrariamente a capostipite del noir scandinavo, e di certo ha contribuito alla sua notorietà la dichiarazione di Ernest Hemingway, che lo considerava una delle sue letture favorite.

Al di là di classificazioni e sponsor, a noi pare che il libro sia soprattutto una profonda ricognizione su libertà, giustizia, colpa ed espiazione; e l’elemento giallistico, tenue, è cornice e non centro della narrazione.L'uccello nero

Siamo nel diciannovesimo secolo. A Syvendeaa, una fattoria isolata di un villaggio islandese, vivono due coppie: l’energico Bjarni con la cagionevole Guðrun, il rozzo Jón con la bella Steinunn.

Dopo la misteriosa e macabra morte di Jón, si diffondono le voci di una relazione tra Bjarni e Steinunn. In breve tempo, Guðrun sarà trovata morta avvelenata, e i due sospettati di adulterio diventeranno i principali indiziati di entrambe le scomparse.

A narrare la storia, e a essere coinvolto come testimone nel processo a carico dei due presunti amanti-assassini, è il giovane cappellano Eiúlvur, lacerato tra i desideri di giustizia, pietà e verità. E cioè tra l’obbedienza alla legge, alla moralità e a Dio.

Basato su un fatto di cronaca, L’uccello nero ha nello scabro paesaggio islandese un ambiente privo di distrazioni, di ripari: tutti i personaggi sembrano quindi intrappolati nella fissità delle loro convinzioni e dei loro destini.

Inoltre i grandi spazi, assieme ai ritmi lenti e uguali della natura, in qualche modo incarnano agli occhi di Eiúlvur (cui sarà affidato il conforto spirituale dei due imputati) il significato di colpa e responsabilità, nucleo dei suoi struggimenti.

“A vedere le mucche che avanzavano nel gelo e nella neve mi si strinse il cuore, e quelle pecore che si trascinavano avanti avevano qualcosa di precario e malinconico, come se insieme a loro si allontanassero per sempre, da Bjarni e da Syvendeaa, gli ultimi resti di quello che era stato una casa e una speranza.
E io, che le guardavo passare, non avevo forse una parte decisiva in quanto stava accadendo? E quel che era peggio: potevo assolvermi dal senso di colpa per gli eventi oscuri e misteriosi per cui ora le bestie di Bjarni mi passavano davanti in una direzione, mentre lui, privo della sua libertà, veniva portato via nell’altra?” (p. 102). (altro…)

Storie di gente felice

 
 
 
 

Iperborea nel luglio del 2020 ha pubblicato (traduzione di Carmen Giorgetti Cima, postfazione di Ingrid Basso) Storie di gente felice di Lars Gustafsson: si tratta di dieci racconti usciti in Svezia nel 1981 e finora inediti in Italia.

Si tratta, per meglio dire, di dieci ricognizioni sul limite tra realtà e immaginazione, tra vero e plausibile, e sull’umana inclinazione a fluttuare di continuo da un versante all’altro del confine, per l’incapacità di adeguarsi al mero succedersi degli eventi ma anche di consegnarsi definitivamente alla dimensione fantastica.

In Zio Sven e la rivoluzione culturale un ricercatore, in Cina ai tempi della Rivoluzione culturale, si trova a fantasticare sul pensiero del presidente Mao, semplificandolo per l’urgenza di rinvenire un inedito punto di vista da cui interpretare il mondo e prefigurarne inediti sviluppi; ma una volta rientrato in patria è nuovamente costretto ad affrontare l’univocità della storia e quella della propria biografia.

Ne Le quattro ferrovie di Iserlohn assistiamo a una serie di incontri che paiono più ipotetici che autentici, vista l’intimità che lega tra loro personaggi fino a pochi istanti prima sconosciuti gli uni agli altri; e l’ossessione della protagonista femminile per i tragitti dei treni giocattolo può essere metafora dell’attrazione suscitata dall’imprevedibilità della vita o dalla multiformità, potenzialmente infinita, della letteratura.

Un’affermazione informa di sé il racconto L’arte di sopravvivere a novembre e forse l’intera opera: “Nessuno sa che cosa sia un essere umano”, p. 54. Le figure che popolano Storie di gente felice sono infatti assai dotte e inclini alle sofisticazioni intellettuali (attitudine che coincide col più vistoso difetto del libro: ciò che l’autore intende esprimere non viene sempre declinato nell’azione ma talvolta, in modo un poco stucchevole, è esplicitato per bocca appunto dei personaggi): eppure i numerosi ragionamenti e dialoghi sulla rappresentazione e sulla mistificazione della realtà appaiono essi stessi come circolari e autoriferiti, incapaci di tramutarsi in gesti incisivi o quanto meno in progettualità solide.

Citiamo poi due racconti nei quali i protagonisti sembrano essere privi di ciò che comunemente si intende per sanità mentale. Ne La Grandezza colpisce dove vuole, il reale appare costantemente minaccioso a causa della mancanza di strumenti per leggerlo e dunque per riconoscerlo: “Non aveva parole per il mondo, e gli uccelli che si alzavano di colpo in volo erano uno dei mille modi in cui il mondo poteva diventare inaffidabile” (p. 149, corsivo nel testo). Al contrario, ne L’uccello nel petto la propria distanza psicologica dalla realtà viene reinterpretata in chiave difensiva, come estraneità rispetto a ciò che accade: “Non era nella sua vita che succedeva”, p. 180.

Non c’è speculazione, pare dirci Gustafsson, capace di raggiungere e mostrare il nucleo duro dell’universo, della vita; accumulare nozioni non fa che moltiplicare le possibili interpretazioni di qualcosa destinato comunque a rimanere lontano da noi, incommensurabile alle nostre potenzialità. Allora, forse, l’unico atteggiamento davvero plausibile è espresso dal protagonista di Un racconto d’acqua, che intuisce come il mondo vada semplicemente accolto nella sua illeggibilità, nella sua equidistanza da qualunque tentativo di costringerlo in una formula o di intenderlo come una concatenazione di avvenimenti legati tra loro dal principio di causalità. Il mondo, insomma, non coincide col senso: “Pensi, se fosse proprio un simile vuoto la verità sul mondo? Prenda per esempio questo lago. Certi giorni quando sono giù di morale ho l’abitudine di scendere sulla riva. I blocchi di roccia se ne stanno là fuori, enormi e pesanti, ognuno come un’asserzione che non si lascia confutare – e in momenti del genere vedo che il lago è sempre stato triste. Il mondo naturale è così. Siamo solo noi che cerchiamo di creare un senso”, p. 169.

 
 
 

La campana d’Islanda

 
 
 
 

Lo scrittore islandese Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955, ha pubblicato in tre parti – fra il 1943 e il 1946 – La campana d’Islanda; l’opera, in un unico volume, è uscita per i lettori italiani solo nel giugno del 2019 (Iperborea, traduzione di Alessandro Storti).

Libro sfaccettato e complesso, La campana d’Islanda è ambientato alla fine del Seicento tra l’Islanda e lo Stato che allora ne deteneva il possesso, la Danimarca-Norvegia. Si tratta del periodo storico più travagliato per la piccola isola nordica, a cui un regime di monopolio impediva l’esportazione autonoma: l’assoggettamento politico e soprattutto quello commerciale tengono la sua popolazione in uno stato di carestia oltre che di arretratezza culturale. E i tre personaggi principali sembrano assumere su di sé questo senso di sconfitta, ribadito da vani tentativi di riscatto e da ripiegamenti nostalgici verso un passato glorioso.

Motore dell’azione è il contadino Jón Hreggviðsson, accusato di aver ucciso il boia del re, inviato da Copenaghen a sottrarre la campana del palazzo dell’Alþingi, il Parlamento islandese. L’intricata vicenda giudiziaria di Jón susciterà una contesa internazionale ed egli, – uomo imprevedibile, insincero e violento, che però non rinuncia a declamare antichi versi del patrimonio poetico nazionale – maltrattato eppure indomito, immiserito nell’animo eppure incline a guizzi cavallereschi, pare proprio incarnare la sua Islanda.

La biografia di Jón si incrocerà con quella della bellissima Snæfríður, figlia del magistrato Eydalín, sposata col rozzo Magnús ma legata da reciproco amore col terzo protagonista, Arnas Arnæus, commissario regio e bibliofilo, combattuto tra il suo ruolo di intellettuale e il sentimento verso Snæfríður.

Più che dar conto delle loro estremamente composite vicende, che vincolano ciascuno agli altri due, occorre soffermarsi sulle tre psicologie, le quali mostrano caratteristiche comuni e modernissime: si tratta di personaggi anacronistici, individualisti sino all’egoismo, preda di infantili tormenti, potremmo dire dei disadattati sociali ante litteram; essi hanno causato consapevolmente la propria condizione infelice, e per orgoglio (nonché per dedizione quasi stolida al proprio destino) sono incapaci di modificarla.

Dice Jón: “«Una volta ero nero. Adesso sono grigio. Fra poco diventerò bianco. Ma nero o grigio o bianco, io sputo su ogni giustizia che non sia quella che è dentro di me»”, p. 418.

E in uno dei capitoli più toccanti, quando Arnas e Snæfríður si rincontrano dopo anni per certificare l’impossibilità del loro amore, egli concentrerà in una frase alcune peculiarità tanto sue quanto degli altri protagonisti: malinconia, coerenza ai limiti dell’eccesso, debito quasi morboso verso le patrie lettere, magniloquenza, e una sorta di cristallizzazione morale che colloca i tre come fuori dal tempo, dalla vita. Leggiamo infatti a p. 322 (corsivo nel testo): “«Quando me ne sono andato e non sono tornato più, nonostante la promessa fatta, perché il destino è più forte del volere dell’uomo, come si legge nelle Saghe degli Islandesi, ho trovato conforto nel pensiero che la bionda donzella, la volta successiva che l’avessi vista, sarebbe stata un’altra donna – sparite la sua giovinezza e la beltà che della giovinezza è il dono. I pensatori dell’antichità insegnano che l’infedeltà in amore è l’unico tradimento al quale gli dei guardino con clemenza: Venus hæc periuria ridet. Ieri sera, quando siete entrata nella sala, dopo tutti questi anni, ho visto che non mi occorre che Lofn mi rivolga il suo benevolo sorriso»” (Lofn, dice la nota a piè di pagina, è la “Dea nordica, protettrice degli amanti”).
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La politica dell’impossibile

 
 
 

Ne La politica dell’impossibile (Iperborea, marzo 2016, prefazione e traduzione di Fulvio Ferrrari, postfazione di Goffredo Fofi) sono raccolte diciassette brevi prose che Stig Dagerman scrisse tra il 1943 e il 1952 per le più svariate occasioni.

Non è necessario illustrare ciascuno di questi avvenimenti e la relativa posizione di Dagerman, quanto piuttosto mostrare l’atteggiamento complessivo dello scrittore, che già ventenne percepiva l’esistenza sì come oscurità, ma come un’oscurità comune a tutti gli uomini. Da qui deriva un istintivo senso di solidarietà e l’incapacità di considerarsi incolumi solo perché (momentaneamente e casualmente) non toccati da alcuna disgrazia sociale o privata: “viviamo nella nostra sicurezza la vita dei perseguitati”, p. 26.

Dagerman, con grande coraggio e altrettanta naturalezza, afferma in più punti la sua ostilità nei confronti di ogni generalizzazione, semplificazione, concessione alla retorica, insomma verso ogni262_cover_alta bisogno di consolazione: “La concezione popolare […] secondo cui tutto il pensiero reazionario esistente sarebbe circoscrivibile ai cosiddetti reazionari […] si è spesso rivelata pericolosa. Pericolosa in quanto mina la vigilanza e induce a pensare che qualsiasi cosa provenga, per esempio, da coloro che si definiscono progressisti sia in effetti progressista, che qualsiasi cosa provenga dall’area radicale sia radicale” (pp. 27-8).

Perfettamente consapevole dei severi limiti (sociali e fisici) entro cui scorre la vita, Dagerman ritiene indispensabile una costante tensione verso il loro superamento. Per non essere in debito con la propria coscienza occorre affrontare l’inaffrontabile: “Eppure è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza […] che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna”, p. 44.

Ciò vale in particolar modo per gli scrittori: “In quanto anarchico (e in quanto pessimista, nella misura in cui è consapevole che il suo contributo potrà forse avere solo un significato simbolico), lo scrittore può intanto attribuirsi in buona coscienza il modesto ruolo del lombrico nel terriccio della cultura che altrimenti si disseccherebbe nell’aridità delle convenzioni. Essere il politico dell’impossibile in un mondo dove sono troppi i politici del possibile è, nonostante tutto, un ruolo che personalmente mi può soddisfare”, pp. 57-8. (altro…)