Pubblicato in Francia nel 1983, Il posto di Annie Ernaux, un prezioso racconto che con impressionante naturalezza e semplicità si muove al limite del silenzio dentro cui ogni parola si spegne, viene portato quest’anno in Italia da L’orma Editore (grazie alla ottima traduzione ad opera di uno dei due editori, Lorenzo Flabbi).
Mediante una scrittura essenziale (“Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di ‘appassionante’ o ‘commovente’. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali”, p. 21), una superficie esatta che permette al non detto, al nascosto sentito e attraversato, di far brillare ciascuna parola (l’importanza di “far emergere il meno possibile”, confessa la scrittrice durante un’intervista rilasciatami in occasione del Festivaletteratura di Mantova 2014), la precisione di Annie Ernaux conduce il lettore a ripercorrere la storia di un uomo, di un padre osservato dagli occhi di una figlia.
Al di là della dimensione autobiografica, più volte evidenziata dai varii scritti dedicati a questo volume, Il posto è il racconto in prima persona, per quadri e sezioni senza titolo su cui si innestano i commenti dell’autrice-narratrice sullo stesso atto dello scrivere, di un rapporto tra due figure, di un periodo storico (il Novecento, con qualche riferimento agli anni Ottanta, momento della scrittura e della pubblicazione del libro), della provincia francese, dei cambiamenti che attraversano le generazioni.
Il posto (fr. place) è un luogo geografico dell’infanzia, è una posizione sociale ambita, inseguita dal padre e poi raggiunta, con una sorta di tradimento delle proprie origini, dalla figlia, un ruolo famigliare e lavorativo, la classe, un posto nel mondo; è anche la considerazione di ciò che si perde in nome di questa ascesa, di questa desiderata appartenenza (“Decifrare questi dettagli è per me necessario, ora, mi si impone con necessità in quanto li ho rimossi sicura del fatto che non significassero nulla. Soltanto una memoria umiliata ha potuto far sì che ne serbassi delle tracce. Mi sono piegata al volere del mondo in cui vivo, un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto”, pp. 67-68; “Quando ero ospite presso la famiglia di una di queste amiche, ero ammessa a condividere in maniera naturale uno stile di vita che non era modificato dal mio arrivo, a entrare nel loro mondo, che non temeva lo sguardo di un estraneo, e che mi veniva aperto davanti perché avevo dimenticato i modi di fare, le idee e i gusti del mio”, p. 87). Sono probabilmente da leggere in questo senso le ultime righe del libro in cui, quasi specularmente rispetto all’incipit che si apre sul buon esito di un concorso per insegnante di ruolo per la protagonista, viene narrato l’incontro della narratrice con una alunna: “L’anno scorso, a ottobre, mentre facevo la fila al supermercato, ho riconosciuto nella cassiera una mia ex studentessa. O meglio, sapevo che quella ragazza cinque o sei anni prima era stata una mia allieva. Non mi ricordavo più il suo nome né la classe in cui l’avevo avuta. Per dire una cosa qualsiasi, quando è arrivato il mio turno, le ho chiesto: «Come va? Si trova bene qui?». Lei ha risposto sì, sì. Poi dopo aver battuto qualche scatoletta e qualche bibita, con imbarazzo: «All’istituto professionale le cose non hanno funzionato». Probabilmente credeva che mi ricordassi del suo percorso scolastico. Ma avevo dimenticato perché le fosse stato consigliato il professionale, e tanto meno ricordavo l’indirizzo che aveva fatto. […]” (pp. 106-107).
Dall’altro lato, si staglia il radicale e doloroso scollocamento che impone la scrittura. (altro…)