Halldór Laxness

L’uccello nero

 
 
 
 

Lunedì 20 settembre è uscito per Iperborea (nella traduzione di Maria Valeria D’Avino) L’uccello nero di Gunnar Gunnarsson, considerato il maggior esponente della letteratura islandese assieme a Halldór Laxness.

Il romanzo era già apparso in Italia per Mondadori nel 1936, tradotto da Giacomo Prampolini. Gunnarsson lo ha pubblicato in Danimarca, dove risiedeva, nel 1929: scritta in lingua danese, l’opera sarebbe poi stata tradotta in islandese dallo stesso autore una volta fatto ritorno in patria.

L’uccello nero viene eletto forse un po’ arbitrariamente a capostipite del noir scandinavo, e di certo ha contribuito alla sua notorietà la dichiarazione di Ernest Hemingway, che lo considerava una delle sue letture favorite.

Al di là di classificazioni e sponsor, a noi pare che il libro sia soprattutto una profonda ricognizione su libertà, giustizia, colpa ed espiazione; e l’elemento giallistico, tenue, è cornice e non centro della narrazione.L'uccello nero

Siamo nel diciannovesimo secolo. A Syvendeaa, una fattoria isolata di un villaggio islandese, vivono due coppie: l’energico Bjarni con la cagionevole Guðrun, il rozzo Jón con la bella Steinunn.

Dopo la misteriosa e macabra morte di Jón, si diffondono le voci di una relazione tra Bjarni e Steinunn. In breve tempo, Guðrun sarà trovata morta avvelenata, e i due sospettati di adulterio diventeranno i principali indiziati di entrambe le scomparse.

A narrare la storia, e a essere coinvolto come testimone nel processo a carico dei due presunti amanti-assassini, è il giovane cappellano Eiúlvur, lacerato tra i desideri di giustizia, pietà e verità. E cioè tra l’obbedienza alla legge, alla moralità e a Dio.

Basato su un fatto di cronaca, L’uccello nero ha nello scabro paesaggio islandese un ambiente privo di distrazioni, di ripari: tutti i personaggi sembrano quindi intrappolati nella fissità delle loro convinzioni e dei loro destini.

Inoltre i grandi spazi, assieme ai ritmi lenti e uguali della natura, in qualche modo incarnano agli occhi di Eiúlvur (cui sarà affidato il conforto spirituale dei due imputati) il significato di colpa e responsabilità, nucleo dei suoi struggimenti.

“A vedere le mucche che avanzavano nel gelo e nella neve mi si strinse il cuore, e quelle pecore che si trascinavano avanti avevano qualcosa di precario e malinconico, come se insieme a loro si allontanassero per sempre, da Bjarni e da Syvendeaa, gli ultimi resti di quello che era stato una casa e una speranza.
E io, che le guardavo passare, non avevo forse una parte decisiva in quanto stava accadendo? E quel che era peggio: potevo assolvermi dal senso di colpa per gli eventi oscuri e misteriosi per cui ora le bestie di Bjarni mi passavano davanti in una direzione, mentre lui, privo della sua libertà, veniva portato via nell’altra?” (p. 102). (altro…)

La campana d’Islanda

 
 
 
 

Lo scrittore islandese Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955, ha pubblicato in tre parti – fra il 1943 e il 1946 – La campana d’Islanda; l’opera, in un unico volume, è uscita per i lettori italiani solo nel giugno del 2019 (Iperborea, traduzione di Alessandro Storti).

Libro sfaccettato e complesso, La campana d’Islanda è ambientato alla fine del Seicento tra l’Islanda e lo Stato che allora ne deteneva il possesso, la Danimarca-Norvegia. Si tratta del periodo storico più travagliato per la piccola isola nordica, a cui un regime di monopolio impediva l’esportazione autonoma: l’assoggettamento politico e soprattutto quello commerciale tengono la sua popolazione in uno stato di carestia oltre che di arretratezza culturale. E i tre personaggi principali sembrano assumere su di sé questo senso di sconfitta, ribadito da vani tentativi di riscatto e da ripiegamenti nostalgici verso un passato glorioso.

Motore dell’azione è il contadino Jón Hreggviðsson, accusato di aver ucciso il boia del re, inviato da Copenaghen a sottrarre la campana del palazzo dell’Alþingi, il Parlamento islandese. L’intricata vicenda giudiziaria di Jón susciterà una contesa internazionale ed egli, – uomo imprevedibile, insincero e violento, che però non rinuncia a declamare antichi versi del patrimonio poetico nazionale – maltrattato eppure indomito, immiserito nell’animo eppure incline a guizzi cavallereschi, pare proprio incarnare la sua Islanda.

La biografia di Jón si incrocerà con quella della bellissima Snæfríður, figlia del magistrato Eydalín, sposata col rozzo Magnús ma legata da reciproco amore col terzo protagonista, Arnas Arnæus, commissario regio e bibliofilo, combattuto tra il suo ruolo di intellettuale e il sentimento verso Snæfríður.

Più che dar conto delle loro estremamente composite vicende, che vincolano ciascuno agli altri due, occorre soffermarsi sulle tre psicologie, le quali mostrano caratteristiche comuni e modernissime: si tratta di personaggi anacronistici, individualisti sino all’egoismo, preda di infantili tormenti, potremmo dire dei disadattati sociali ante litteram; essi hanno causato consapevolmente la propria condizione infelice, e per orgoglio (nonché per dedizione quasi stolida al proprio destino) sono incapaci di modificarla.

Dice Jón: “«Una volta ero nero. Adesso sono grigio. Fra poco diventerò bianco. Ma nero o grigio o bianco, io sputo su ogni giustizia che non sia quella che è dentro di me»”, p. 418.

E in uno dei capitoli più toccanti, quando Arnas e Snæfríður si rincontrano dopo anni per certificare l’impossibilità del loro amore, egli concentrerà in una frase alcune peculiarità tanto sue quanto degli altri protagonisti: malinconia, coerenza ai limiti dell’eccesso, debito quasi morboso verso le patrie lettere, magniloquenza, e una sorta di cristallizzazione morale che colloca i tre come fuori dal tempo, dalla vita. Leggiamo infatti a p. 322 (corsivo nel testo): “«Quando me ne sono andato e non sono tornato più, nonostante la promessa fatta, perché il destino è più forte del volere dell’uomo, come si legge nelle Saghe degli Islandesi, ho trovato conforto nel pensiero che la bionda donzella, la volta successiva che l’avessi vista, sarebbe stata un’altra donna – sparite la sua giovinezza e la beltà che della giovinezza è il dono. I pensatori dell’antichità insegnano che l’infedeltà in amore è l’unico tradimento al quale gli dei guardino con clemenza: Venus hæc periuria ridet. Ieri sera, quando siete entrata nella sala, dopo tutti questi anni, ho visto che non mi occorre che Lofn mi rivolga il suo benevolo sorriso»” (Lofn, dice la nota a piè di pagina, è la “Dea nordica, protettrice degli amanti”).
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