Hacca

La casa capovolta

 
 
 
 

Libro d’esordio di Elisabetta Pierini pubblicato da Hacca nel maggio del 2021, La casa capovolta ha vinto l’edizione 2016 del Premio Calvino, il maggiore riconoscimento italiano riservato ai testi inediti, con il titolo provvisorio L’interruttore dei sogni.

Il romanzo narra la vicenda familiare e intima di Eva Bentivogli, una bambina di quasi dieci anni che abita in un quartiere piuttosto anonimo e uniforme con i genitori Alma e Aldo. Leggendo La casa capovolta conosceremo diversi abitanti del sobborgo, in particolar modo l’amica di Eva, Laura Felici, e i genitori Marta e Guido.

La famiglia di Eva è segnata da una reciproca sordità: la madre Alma, che soffre di problemi psichici, non si cura della figlia ed è preda di frequenti crisi nervose; il padre Aldo vive come rifugiato nel suo negozio di antiquariato.

Non meglio paiono andare le vite degli altri abitanti del quartiere, tra invidie e bassezze, bugie e tradimenti, sentimenti non espressi e desideri di rivincita.

La casa capovoltaEcco, forse, l’unico tangibile limite dell’opera: quello di mostrare l’adultità in modo troppo monocorde come l’età della frustrazione e del fallimento esistenziale, dal punto di vista sia personale che famigliare che sociale. Mentre, al contrario, ci pare che ben ampia sia la gamma di reazioni (e di esiti) possibili di fronte alla fatica di esistere.

Eva, impossibilitata a vivere il ruolo di bambina – e di figlia – con le attenzioni e gli stimoli necessari, fa ricorso con un eccesso di fiducia alla fantasia, dando vita e parola alle sue bambole e persino a Loris, il fratellino mai nato.

Questo travaso di sé, per motivi difensivi, nella dimensione del sogno, eroderà poco alla volta il diaframma che lo separa dalla realtà. E così la fantasia non sarà più modulabile a proprio piacimento da Eva, ma irromperà in modo inopinato e con un dosaggio di volta in volta imprevedibile. Per citare nuovamente il titolo primitivo del romanzo, si guasterà L’interruttore dei sogni.

L’espediente funziona intanto da un punto di vista letterario, perché tiene al sicuro da ogni rischio di leziosismo: l’immaginazione non è qui vista come un nascondiglio sempre sicuro e confortevole per rifuggire la realtà, ma semmai della realtà ricalca la natura incoercibile e raramente fraterna.

E poi si tratta di un’operazione oltremodo onesta: l’infanzia, finalmente, non è restituita come l’età della gioia costante e dell’inesauribile energia.

Ecco dunque che Eva si muove in questa zona di confine, in questa condizione di doppia separatezza, dal mondo e dalla sua alternativa fantastica, alla quale si affida ma di cui non ha governo: “Si rendeva conto delle situazioni sempre tardi come se dormisse o fosse in tutte le cose concrete rallentata e senza cervello. Solo se c’era da seguire un ragionamento astratto si faceva attenta, si svegliava e smetteva di faticare: la terra delle idee stava al confine con il suo mondo dei sogni, in un posto da lì facilmente raggiungibile”, p. 16.

Ma anche i personaggi adulti hanno un rapporto in qualche modo guasto con la dimensione dell’immaginazione. Cui si abbandonano, loro, in modo infantile, come se la realtà fosse un castigo sul quale non c’è alcuna possibilità di intervento, e l’altrove fosse il regno fatato della realizzazione di sé.

Ecco il punto: le donne e gli uomini che popolano il romanzo, ciascuno a proprio modo, non hanno raggiunto un’autonomia psicologica tale da poter percepire il mondo come spazio della relazione e del rischio. Il mondo va conquistato: “Gli pareva, a guardare verso la strada, di non dover fare altro che allungare le mani per afferrare quello che voleva e si faceva prendere da una strana euforia. Trovava lui stesso curiosa questa sensazione oltre che ingiustificata, eppure era presente come un mal di testa, come un batticuore”, p. 63.

Per questo motivo uno dei principali personaggi maschili dell’opera, esasperato del proprio rapporto di coppia, si innamorerà puerilmente di una collega, salvo poi scoprire – dopo aver tramutato la bramosia di affermazione di sé in realtà – una condizione non meno avvilente di quella vissuta sino ad allora.

Ma nessuno, ne La casa capovolta, pare capace di assumere decisioni coraggiose, frontali, definitive. Tutti finiscono per accettare una realtà priva di slanci e imprevisti, con la sola parzialissima consolazione di illudersi che così si consumi l’esistenza di chiunque: “La sua vita gli sembrava insignificante, piena di abitudini, di ripetizioni, chiuso in quella villetta uguale a tutte le altre, con due donne, anche loro uguali a milioni di altre. Eppure gli dispiaceva buttarla. Una formica in un formicaio. Tutto quell’ordine che aveva sempre preteso da sé e dagli altri disegnava il perimetro della sua galera”, p. 320.

 
 
 

Gli occhi degli alberi e la visione delle nuvole

 
 
 

Come si fa a volare adoperando similitudini e metafore, con cui non è possibile che immaginare un universo ulteriore?

Per volare occorre proprio abitare un altro universo. Quello, ad esempio, de Gli occhi degli alberi e la visione delle nuvole, narrato da Chicca Gagliardo e fotografato da Massimiliano Tappari. Il libro, pubblicato da Hacca nell’ottobre del 2016, ha un emblematico sottotitolo, Racconto in voci enciclopediche, che testimonia l’approccio scientifico – non ironico, non estemporaneo – all’argomento trattato: e cioè, appunto, la descrizione di un universo governato da regole ed eccezioni, norme e abnormità, confini e sconfinamenti del tutto diversi da quelli che determinano il nostro.

Un universo nel quale, ad esempio, vivono le statue: “Il tempo della nascita delle statue si divide in due fasi. Appena la mano dello scultore si è definitivamente allontanata, e il corpo di pietra sembra ormai finito, in quel momento iniziano a formarsi i polmoni, il cuore, lo stomaco, il fegato” (p. 12, L’interiorità delle statue).

Universo in cui, si diceva, manca l’appiglio della metafora. Quando dunque esso si mostra come capovolgimento dell’universo che di consueto abitiamo, lo fa nel senso più concreto possibile del termine capovolgimento: “Prima che la notte ricopra il cielo, si solleva la marea delle ombre.
L’orlo, frastagliato, viene facilmente scambiato con quello delle normali montagne.
Le punte, a contatto con l’aria fredda, si ghiacciano e diventano affilate” (p. 20, Le Montagne d’ombra).

In questo universo lo spazio dell’uomo – deprivato di ogni ausilio tecnologico – è ancora più precario, ancora più minacciato da una natura vivida e spietata: “Come la mandragora, che quando viene strappata lancia grida umane, l’erbavora è metà vegetale e metà animale.
[…] Questo tipo di erba si riproduce facilmente sui tetti, nei giardini e nei parchi pubblici. Si annida sotto le panchine, con l’aspetto di un innocuo ciuffo d’erba. Quando la parte animale prevale, all’improvviso si moltiplica. Nel giro di pochi secondi è in grado di sbranare un uomo senza lasciare traccia di carne e ossa” (p. 30, L’erbavora).

In un ambiente simile, ogni cosa che esiste è ugualmente viva: “Le case vanno piantate nella terra con la luna crescente.
Se la luna è calante, la casa avrà radici e pareti irrequiete, che seguono gli umori delle maree.
Nei giorni di tempesta senza nubi […] le voci rimaste impigliate dentro i muri della casa cigolano. Il portone sbatte, si chiude.
E l’uscio si solleva” (p. 45, La semina delle case).
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Diario minimo dei giorni

 
 
 

Dopo una curiosa vicenda editoriale, Diario minimo dei giorni, romanzo scritto da Franco Loi (1930) a metà degli anni Cinquanta, viene pubblicato per la prima volta nel maggio 2015 dalla casa editrice Hacca.

Senza togliere al lettore il piacere della gustosa nota introduttiva firmata dallo stesso autore, si può accennare al fatto che Elio Vittorini aveva accettato di far uscire il libro nella collana I Gettoni di Einaudi, invitando però Loi a rivedere prima della pubblicazione il testo e a mettere mano ad alcune sue parti. La riscrittura non sarà tuttavia poi ben accolta da Vittorini, il quale se da un lato rimprovererà a Loi di aver creato un nuovo romanzo, dall’altro si metterà a disposizione per indicare al giovane le opportune modifiche. Loi però non riconsegnerà più il manoscritto a Vittorini ed esso rimarrà inedito fino a oggi.

HACCA_Loi_OKMC2-1Diario minimo dei giorni (il cui titolo sostituisce quello originale, Dal diario di una medaglia d’oro) è il racconto di un mese della vita di un impiegato, il signor Dini, nella Milano del Dopoguerra, tra Viale Brianza, Via Teodosio, Piazzale Loreto e Corso Buenos Aires.

In queste pagine, Dini fa partecipe il lettore della propria quotidianità, divisa tra ufficio e casa, registrando non senza ironia gli eventi minimi che capitano nella sua esistenza di uomo normale. Sposato con Lina e padre di un adolescente che si chiama Luigi, il protagonista, di cui non si conoscerà mai il nome, ci parla di sé dal proprio punto di vista, probabilmente omettendo e ricostruendo particolari, riuscendo però al contempo a non disperdersi in sfoghi e morbosità, sempre in agguato nella dimensione diaristica.

Ciò che sorprende di questo piacevole romanzo è la sensazione di essere tenuti legati nel corso della lettura a un continuo trattenere, schivare, nascondere la verità da parte della voce narrante; il lettore si interroga su ciò che sente e pensa veramente Dini, che parlando di sé fa mostra di essere vittima di incomprensioni e ingiustizie sul luogo di lavoro e di dover subire l’insoddisfazione della moglie, gravata dalle incombenze dell’intera gestione familiare e desiderosa di avere accanto un marito più ambizioso, ricco e rispettato.

“«Sai Lina cosa mi è capitato oggi? Indovina un po’…» ho cominciato, entrando in cucina. «Sì, sì, cerca di cambiar discorso… Tanto sono io quella che deve tribulare. Una tovaglia nuova che ci vorranno tre o quattro mila lire!» «E non va via a smacchiarla?» ho voluto persino chiedere. «Sicuro che va via! Ma, intanto, io devo faticare… Voi ve ne fregate, voi! Quando avete mangiato e bevuto e vi siete fatti servire… Quella che sgobba sono io!»”, pp. 92-93.

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Il nuovo corso

 
 
 

“In una remota città di provincia d’un paese che potrebbe anche essere il nostro […] il 5 ottobre d’uno di questi recenti anni” (p. 27) accade un fatto singolare: le cinquemila copie de La verità (organo dell’unico partito esistente e unico quotidiano distribuito) destinate a quella città, riportano la notizia dell’avvio di un non meglio specificato nuovo corso all’insegna della “definitiva libertà” (p. 28).

Così inizia Il nuovo corso, romanzo di Mario Pomilio dalla vicenda editoriale indubbiamente composita: uscì nel 1959 per Bompiani, poi per Rizzoli nel 1969, per Rusconi nel 1979, per De Agostini (in edizione scolastica) nel 1982, per Mondadori nel 1990, e oggi viene riproposto da Hacca (settembre 2014).

Alessandro Zaccuri, nella prefazione, rinviene suggestive analogie tra l’atmosfera del libro e la rivoluzione ungherese del 1956, di poco precedente alla stesura del testo (e ci ricorda che verità è traduzione italiana di Pravda); e nella postfazione Mirko Volpi individua, altrettanto acutamente, alcune ascendenze letterarie, Alessandro Manzoni e Albert Camus su tutti.HACCA_pomilio_OKMC_18mm

Eppure, al di là di questi agganci alle realtà politica e culturale, Il nuovo corso pare anzitutto un’impietosa ricognizione sul rapporto tra l’uomo e la libertà.

Pomilio ci presenta una serie di formidabili esemplari umani, ciascuno dei quali reagirà in modo personalissimo (ed emblematico) a questo presunto nuovo corso.

Primo a comparire è Basilio, “il più noto dei giornalai della nostra città” (p. 31), a cui la notizia procurerà attimi di smarrimento (“si sentiva sbalestrato e avvertiva, per la prima volta nella sua vita, per la prima volta acuto e tormentoso, un chiuso sgomento del futuro, una paura folle di sbagliare”, p. 36), altri in cui perderà di vista i termini della questione (“Più cercava che cos’era veramente la libertà, più gli capitava come quando si sbuccia una cipolla, che uno crede d’arrivare al bulbo e non trova altro che nuovi strati,” p. 37), altri ancora nei quali rimpiangerà la condizione precedente: “In fondo, era necessaria? A che serviva, la libertà? Non si viveva a meraviglia già prima, e se non proprio sereni, in pace gli uni con gli altri, visto che ad esserlo bastava tanto poco, bastava in pratica far finta d’avere le stesse opinioni che mostravano d’avere gli altri, e scoprire un motivo di reciproca simpatia, se non nella concordanza di quelle opinioni, almeno nell’intesa creata da quella finzione?” (p. 44).

Pomilio, inoltre, utilizza alcune scene di raccordo per descrivere con sarcasmo la cittadinanza (ma qui calzerebbe la parola massa), che si impossessa della libertà banalizzandola: “il nuovo corso divenne il pretesto per una di quelle rare giornate di suprema spensieratezza in cui pare che ci si precipiti a vivere esclusivamente nel presente e il fatto d’essere in tanti a condividere la medesima gioia sembra renderla più sicura, più fraterna e più dolce”, p. 67. (altro…)

Il poeta dell’aria

 
 
 

Chicca Gagliardo ha scritto per Hacca un libro di ardua collocazione. Intanto, per via del titolo: Il poeta dell’aria. Romanzo in 33 lezioni di volo; poi per la (splendida) copertina di Maurizio Ceccato, forse ispirata al Saut dans la vide di Yves Klein; ma soprattutto per ciò che le trentatré lezioni (che si sviluppano in altrettanti giorni consecutivi, ciascuno corrispondente a un capitolo del libro) contengono.

Già l’aspetto paratestuale, dunque, ci pone di fronte a un’opera insolita, che dovrebbe suscitarci (almeno, ha suscitato in chi scrive) una salutare autocritica: come siamo alla continua ricerca di conferme, di sicurezze, se è sufficiente un libro dalla veste e dall’architettura un poco inconsuete a procurarci un senso di straniamento!HACCA_CHICCA_OKMC_15mm

A lettura ultimata, comunque, posso ben dire che Il poeta dell’aria mantiene appieno tutte le promesse di straordinarietà già rinvenibili a un primo colpo d’occhio.

Cosa dice, in questo libro, Chicca Gagliardo? E quanto è sensato tentare un resoconto della trama, inchiodare al detto ciò che in fondo è qui un continuo affacciarsi all’indicibile?

Il poeta dell’aria, a una lettura superficiale, narra la storia di un protagonista anonimo che, dopo un apprendistato, entrerà a far parte dello Stormo, composto da un gruppo di Volatori.

Ma il libro è anche un appassionato scandaglio dell’aspetto ulteriore (ineffabile, irrappresentabile) delle cose: “All’interno di ogni città visibile – tra tetti tegole piazze strade vicoli ciechi – il paesaggio dell’aria scorre trasparente in una metamorfosi incessante” (p. 9); “Ogni città visibile e dura come la pietra ha il suo doppio impalpabile: è lì che si affinano le tecniche chiaroscure del volo”, (p. 167). (altro…)