Uno di loro è Glenn Gould, che di lì a breve sarà riconosciuto tra i più grandi pianisti di tutti i tempi, e all’unanimità – o quasi – il più geniale interprete delle Variazioni Goldberg di Bach.
Una simile rivelazione, che coinvolge il mondo intero e la storia della musica, disgrega il senso di affinità elettiva fra i tre giovani e porta a un ineluttabile allontanamento: la gloria di Gould ha come risvolto il naufragio artistico degli altri due, e questo contrappasso psico-antropologico, a ben guardare, è il nucleo speculativo da cui parte Thomas Bernhard per comporre Il soccombente, uno dei suoi romanzi più noti (Adelphi 1985, traduzione di Renata Colorni).
La prosa di Bernhard rifulge qui nella sua maniacalità di ripetizioni linguistiche e concettuali, oscilla come un metronomo sul progressivo annientamento di Wertheimer, il personaggio che soccombe, ancor più dell’io narrante, alla consacrazione di Gould.
“Wertheimer, infatti, voleva diventare un virtuoso del pianoforte, mentre io non lo volevo affatto, pensai, per me il virtuosismo pianistico era stato soltanto una scappatoia, una tattica dilatoria per rinviare qualcosa, che cosa in verità io intendessi rinviare non l’ho mai capito, e neanche adesso lo so con chiarezza; Wertheimer voleva mentre io non volevo, pensai, e Glenn ha Wertheimer sulla coscienza, pensai. Glenn aveva suonato solo un paio di note e già Wertheimer aveva pensato di rinunciare a tutto, ricordo perfettamente che Wertheimer, quando entrò nella stanza al primo piano del Mozarteum assegnata a Horowitz e vide Glenn Gould e lo sentì, rimase lì bloccato accanto alla porta, incapace di mettersi a sedere, tanto che Horowitz dovette invitarlo a sedersi, ma lui, Wertheimer, fintanto che Glenn continuava a suonare, non riuscì a sedersi, e solamente quando Glenn smise di suonare Wertheimer si sedette, e teneva gli occhi chiusi, lo ricordo ancora perfettamente, pensai, e non parlava più. Per dirla con una frase patetica, quella fu la sua fine, la fine della carriera virtuosistica di Wertheimer.” (pp. 95-6)
Per decine e decine di pagine, l’io narrante ripensa all’intera vicenda – mentre sta entrando nella locanda di Wankham; mentre dà un’occhiata intorno nella sala affollata; mentre attende di veder comparire la locandiera – e riformula a oltranza i termini dell’epilogo già dichiarato (Wertheimer che si impicca a Zizers, in Svizzera, davanti alla casa della sorella che per anni e anni aveva tiranneggiato): “un suicidio lungamente premeditato, pensai, non un atto repentino di disperazione”. (p. 9)
Questa lunga premeditazione di Wertheimer è come scandita dai rintocchi di un soliloquio che in Bernhard consta di centinaia di pensai, di ripetizioni che si avvolgono in variazioni minime dello stesso concetto, e poi si sciolgono per avvolgersi ancora in nuove spirali rimuginanti sulla partitura della catastrofe. È il contrappunto dell’ossessione con improvvisi superlativi, tra ilarità e tragedia (sempre a colpi d’ascia, per dirla con un altro memorabile titolo di Bernhard: la sua voce è in questo eccesso che massacra la natura umana).
“Anche Wertheimer, come qualsiasi altro essere umano, non era ininterrottamente infelice, non era, come lui pensava, sempre e totalmente posseduto dalla propria infelicità. Io stesso rammento che proprio nel periodo del nostro corso con Horowitz, Wertheimer è stato felice, che ha fatto con me (e con Glenn) più di una passeggiata che lo ha reso felice ed è inoltre riuscito, com’è testimoniato dalle mie osservazioni, pensai, a trasformare in una situazione felice anche la solitudine a Leopoldskron, ma in effetti tutto ciò è svanito quando ha sentito per la prima volta Glenn Gould che suonava le Variazioni Goldberg, alle quali, come so, da quel momento in poi lui, Wertheimer, non ha più osato accostarsi.” (p. 114)
La volontà di essere artisti si scontra con la predestinazione del genio ben oltre un solido corredo di ambizioni e disciplina. E, infatti, non c’era sregolatezza in Glenn Gould, che aveva trasformato il suo radicalismo pianistico in una “mostruosità” (p. 12): raggricciato su una seggiola piuttosto che accomodato su panchette o sgabelli di prammatica, “suonava per così dire dal basso verso l’altro, non come tutti gli altri dall’alto verso il basso.” (p. 31) Il mondo ancora oggi lo ricorda così: scomposto, goffo nella postura, ma capace di una purezza e di una grazia ineguagliabili nell’esecuzione.
La predestinazione, in tal senso, è una diversità che reinventa la tecnica artistica, là dove la volontà e il tignoso desiderio di eccellere si limitano all’acquisizione dei mezzi canonici e al pedissequo esercizio.
Wertheimer voleva; Glenn Gould era, è, sarà – nonostante l’ictus che lo ha stroncato nel 1982, a cinquantuno anni.
In rapporto a questa ingiustizia – un’impossibilità fatale e catastrofica (Thomas Bernhard direbbe: micidiale) – sia l’io narrante che Wertheimer devono ritirarsi, lasciare il campo. Reagiscono alla sconfitta pianistica in una deriva di malanimo critico e incontentabilità. L’io narrante si vendica regalando il suo costosissimo Steinway alla figlia di un maestro di Altmünster (una ragazza priva di qualsiasi talento, p. 12); Wertheimer, al contrario, impiega diversi anni prima della resa definitiva, ostinandosi a suonare il suo Bösendorfer. Non accetta il proprio destino e sconta con la vita – un’espiazione – questo accanimento.
“Praticamente in due anni Wertheimer ha perso tutto: i risultati raggiunti nei precedenti dodici anni di studio non erano più percepibili, ricordo che quando […] gli feci visita a Traich, rimasi sconvolto dal suo strimpellamento, perché di questo e nient’altro si era trattato quando, in un accesso di sentimentalismo artistico, si mise al pianoforte per suonarmi qualcosa, e io non credo che nel propormi di suonare qualcosa egli fosse del tutto consapevole del proprio totale declino artistico, credo piuttosto che sperasse che proprio io a quel punto lo incoraggiassi e lo invitassi a intraprendere finalmente una carriera alla quale lui stesso non credeva più da quasi un decennio, ma un incoraggiamento da parte mia era davvero impensabile, e infatti gli dissi con la massima franchezza che ormai era finito, che non mettesse più le mani su un pianoforte, che essere costretto a starlo a sentire era stato penosissimo e nient’altro, che la sua esibizione era stata per me estremamente imbarazzante e mi aveva precipitato nella più profonda tristezza. Egli abbassò il coperchio del Bösendorfer, si alzò in piedi e andò all’aria aperta, per due ore non fece ritorno e per tutta la sera non disse una parola, pensai.” (p. 122)
Se, in questo trio della finzione bernhardiana, Wertheimer è il soccombente e Glenn Gould “l’inospitale” (p. 155), l’io narrante sembra proporsi come il custode della peculiare follia di entrambi. Un cantore del destino e della mortalità che – come Nietzsche – scova (o distribuisce) gli accenti comici della disfatta, e applica quella norma di deformazione che permette di ritrarre e comprendere uomini e fatti, e (magari) di riderne.
Un riso sardonico sull’assoluto, sull’eternità di una Legge – quella dello Spirito – che non è uguale per tutti. Per fortuna, verrebbe da dire.
(Giulio Neri)