Il lutto ripropone vecchi interrogativi: già alla vigilia della partenza, Antine si confida con la sorella: “Ho conosciuto un bel po’ di sardi o figli di sardi, ce ne sono un sacco all’università. Tutti tornano a casa almeno tre volte l’anno. […] Nostro padre dev’essere l’eccezione che conferma la regola. Mai una volta in trent’anni che ci abbia detto «ho voglia di starmene in Sardegna per qualche giorno». Mai” (p. 24-5)
Cos’ha potuto determinare un così grave allontanamento? Bertu, il nonno di Antine, nemmeno presenzia al funerale. Lascia ai nuovi venuti milanesi la propria casa e si ritira in collina, nello storico ovile, dove bada alle capre e si consacra a una solitudine sdegnosa – a condanna della modernità e di suo figlio Salvatore.
Tutti, al paese, ricordano la vicenda dei Farina, nessuno però vuol parlarne. Antine è confuso: neppure l’affascinante Niada, che negli ultimi anni aveva accudito Tzia Jubanna, intende spiegargli cosa sia successo. È una reticenza che si riconnette ai silenzi del luogo e a un senso di appartenenza quasi religioso, che vige di casa in casa, tra i cortili, nella serietà dei locoesi. Il ragazzo, estromesso, ne subisce il magnetismo arcaico; e per capire la rottura fra suo padre e Bertu dovrà prima sintonizzarsi con questo mondo arroccato fra nudi speroni calcarei e ritorta vegetazione, con il mare che, vicinissimo, è il più simbolico custode del segreto.
Quando i genitori e la sorella ripartono per Milano, Antine decide di trattenersi a Locòe. A pretesto adduce argomenti esistenziali: “avevo pensato di prendermi una pausa subito dopo la laurea. Ammetto che questo posto è un po’ troppo in pausa. Anzi, quasi fermo. Ma potrebbe fare al caso mio.” (p. 48)
È un’indagine sulla propria identità che esorbita dallo svago turistico e dall’incanto della natura incontrastata: fin lì “[…] aveva potuto visitare siti archeologici, grotte, laghi ben segnalati e facilmente raggiungibili. Ora era come inseguire un rocchetto di filo impazzito, adagiato sulle rocce senza un ordine apparente. La traccia da seguire svaniva fra le pietre ed era fatta di assenze.” (p. 107-8)
Quello della sua famiglia non è mistero che possa svelarsi al solo raccontarlo, ma Antine scalpita. Il nonno, burbero, gli ripete che “è troppo presto”, e si riferisce proprio alla necessità di una lenta assimilazione, all’inquadramento per gradi di un conflitto che è, sì, generazionale, ma su un piano – come si vedrà – di antropologia sociale.
Il tempio della loro conoscenza reciproca è l’ovile, e Antine tiene un diario in cui la resoconta: “Ho trovato nel padre di mio padre, che ancora mi stupisce chiamare nonno, l’eredità di un’appartenenza che non conoscerò mai. È un possesso al contrario. Lui non ha nulla, nessun oggetto gli appartiene. È la sua persona ad appartenere a questi luoghi” (p. 151, corsivo nel testo)
Come sospettare, da Milano, l’esattezza di piccole scienze quali l’accensione del fuoco, la pulitura dello spiedo, l’arrosto della carne o l’ammollare del pane? C’è una bellezza primitiva nel cimento fisico di salire all’ovile senza perdersi; e c’è un ammirevole coraggio nella vecchiaia scelta da Bertu, perché in fondo anche ciò che appare epico è sempre essenzialmente umano.
Così, nel pasto condiviso tra nonno e nipote aleggia un monito (e, di riflesso, una speranza): “chi mangia da solo muore da solo” (p. 146). Bertu, che mai rinuncerebbe alla solitudine della montagna o al fruscio degli scorci di mare tra gli arbusti, cerca un’umile sopravvivenza. È questo il messaggio che Antine impara a decifrare. Insieme alla pazienza di uno sguardo su quella che, forse, diventerà Casa:
“Poi lo vide. Mare infinito e piatto, a perdita d’occhio, fino a diventare cielo, fino a tenere ferme le montagne. La bellezza è piena solo la prima volta, e in quel momento Antine era un cieco che schiude gli occhi sull’aurora dopo una vita di ombre sfocate.” (p. 51)
Giulio Neri