Gaja Cenciarelli

La saggezza nel sangue

 
 
 
 

La saggezza nel sangue (Minimum Fax, 2021, traduzione di Gaja Cenciarelli), romanzo di esordio di Flannery O’Connor uscito nel 1952, presenta il protagonista Hazel Motes, giovane uomo di ritorno dal servizio militare, su un treno mentre guarda fuori dal finestrino, disturbato dai tentativi di conversazione della sua vicina di posto. “[La donna, ndr] Disse che le pareva di non aver mai avuto il tempo per fare un viaggio che l’avrebbe portata così lontano. Da come succedevano le cose, una che tirava l’altra, sembrava che il tempo passasse sempre così in fretta da non riuscire più a capire se si era giovani o vecchi. L’uomo [Hazel, ndr] pensò che, se lei glielo avesse chiesto, sarebbe stato tranquillamente in grado di dirle che era vecchia” (p. 31).
 
Schietto, quindi, puro di cuore, rigido nell’atteggiamento, retto nel comportamento, Hazel sa di non credere in Gesù Cristo e sa di essere destinato dal sangue a diventare predicatore: annuncerà la Chiesa Senza Cristo e, privo di qualsiasi esperienza, lo farà per tentativi, alla contemporanea ricerca di un maestro e di seguaci. Purtroppo, attirerà a sé solo falsi profeti, truffatori, ritardati, gente che vive di espedienti, poliziotti sadici. E, come una valanga che si ingigantisce lungo la discesa a valle, così la sua schiettezza acquisterà tali proporzioni di intransigenza da diventare alla fine rovinosa.
 
Tre sono le direttrici lungo cui si sviluppa il romanzo: il senso di colpa, la saggezza nel sangue e la capacità di vedere.
Partiamo dall’ultima. Haze in inglese è la foschia, mote è il bruscolino, l’evangelica pagliuzza nell’occhio del vicino. Hazel Motes ha quindi sin nel nome un conto aperto con il senso della vista. Non bastasse, appena arrivato in città, insegue un predicatore cieco per diventare suo discepolo (almeno fino alla scoperta che il predicatore in verità ci vede benissimo). Incontrata una prostituta, Hazel penserà: “I suoi occhi risucchiavano tutto in blocco, come le sabbie mobili” (p. 70). Nell’episodio che è forse il punto di svolta di tutto il romanzo, verrà ingannato da un poliziotto che scaraventerà la sua auto da una rupe attirandolo con la scusa di fargli vedere il paesaggio dall’alto.
 
“«Ho capito che non ti diverti mai e poi mai né permetti a nessun altro di divertirsi perché tu non desideri altro che Gesù!» (p. 168) lo accuserà la sua giovane fidanzata, figlia del falso predicatore. «Io non desidero altro che la verità!», gridò lui. «E quello che si vede è la verità e io l’ho vista!»” (p. 169), risponderà alle accuse Hazel. Non a caso quindi Hazel cercherà di annullare la propria vocazione di predicatore accecandosi. “Doveva avere un piano, doveva aver visto qualcosa che non avrebbe potuto ottenere senza essere cieco a tutto il resto” (p. 190) penserà a quel punto la sua affittacamere.
 
La saggezza nel sangue è una sorta di destino ineluttabile che si eredita dai progenitori: Hazel sa di dover fare il predicatore come suo nonno, un uomo che viaggiava con una Ford e “ogni quarto del mese andava a Eastrod come se fosse arrivato in tempo per salvarli tutti dall’inferno, e si metteva a urlare ancora prima di aprire la portiera” (p. 38). Un altro personaggio, Enoch Emery, è costretto ad agire mosso da ordini che egli sente provenire da suo padre. “Non voleva avallare il sangue di suo padre, non voleva dover fare sempre qualcosa che qualcos’altro voleva fargli fare, del quale ignorava la natura e che era sempre pericoloso” (p. 128). In generale, e come già in questo passo, i personaggi sembrano mossi dall’esterno: “Era come se qualcosa dentro Hazel Motes si stesse caricando a molla, anche se fuori lui restava immobile” (p. 93); “La bambina girò lentamente la testa, come fosse azionata da una vite” (p. 102). Ma questa saggezza non ha nulla di saggio, né aiuta i personaggi a fare le scelte giuste. Al contrario, sembra solo spingerli verso il baratro.
 
Ultima componente della valanga che travolgerà Hazel è il senso di colpa. All’inizio del romanzo, Hazel semplicemente ritiene di potersi tenere lontano dal peccato: “Il ragazzo non aveva bisogno di ascoltare. C’era già in lui una profonda, nera, tacita convinzione che il modo di evitare Gesù consistesse nell’evitare il peccato.” (p. 39); “…vedeva l’opportunità di liberarsi di tutto senza corruzione, di convertirsi al nulla invece che al male” (p. 40); “Quando l’esercito finalmente lo congedò, fu felice di sapere che era ancora incorrotto” (p. 41).
 
Da predicatore, Hazel rivede la sua posizione, radicalizzandola, e si dichiara convinto che peccato e castigo non esistano: “Predicherò che non c’è stata nessuna Caduta perché non c’era nulla da cui cadere e nessuna Redenzione perché non c’è stata Caduta e nessun Giudizio perché le prime due cose non sono mai esistite” (p. 104).
 
Inesorabile, il senso di colpa si manifesta nel finale, potente e diretto, seppure misterioso nelle cause. Così, quando l’affittacamere scopre che Hazel tiene della ghiaia nelle scarpe mentre cammina e chiede il motivo di una tale penitenza, Hazel risponde: “«Per pagare», disse lui con voce roca. «Pagare cosa?» «Non fa differenza cosa», disse lui. «Devo pagare»” (p. 195).

 
 
(Giovanni Locatelli)
 
 

Pensiero madre

 
 
 

Uscito nel giugno del 2016 per Neo Edizioni a cura di Federica De Paolis, Pensiero madre raccoglie i racconti di diciassette scrittrici sul tema della maternità. Esse sono, in ordine di apparizione: Gaia Manzini, Taiye Selasi, Simona Sparaco, Gilda Policastro, Gaja Cenciarelli, Veronica Raimo, Camilla Costanzo, Chiara Valerio, Chiara Barzini, Cinzia Bomoll, Melissa Panarello, Carla D’Alessio, Simona Baldanzi, Caterina Bonvicini, Ilaria Bernardini, Kamin Mohammadi e Silvia Cossu.

Queste narrazioni, per quanto sia sempre arduo (e soprattutto arbitrario) intravvedere somiglianze e istituire raggruppamenti, si potrebbero quasi suddividere in tre categorie. Appartengono alla prima i racconti forse meno riusciti, nei quali (con una rivendicazione di autonomia esibita talvolta un po’ troppo platealmente) la condizione di madre viene percepita come un possibile ostacolo alla propria crescita umana e professionale; non manca nemmeno il paragone, non si sa se più ingenuo o più azzardoso, tra figli e libri.

copertina_pensiero_madre.inddLa seconda categoria ci restituisce pagine in cui la maternità è, in modi diversi, uno strumento per dire od ottenere altro. Ne La caccia, ad esempio, Melissa Panarello ci presenta una coppia composta da due giovani, Piera e Renato, che evidentemente non si sono mai conosciuti, mai ascoltati. Basta infatti un divergente giudizio morale riservato a un servizio di un telegiornale per scatenare non solo un litigio, ma soprattutto un profondo stupore in Piera, che solo in quel momento pare accorgersi delle profonde differenze tra il Renato da lei presunto e quello autentico; e allora il dialogo su una possibile genitorialità, che sarà sempre Piera a introdurre faticosamente, assume contorni grotteschi, come se appartenesse ad altri o a un tempo ormai irrecuperabile.

Gaja Cenciarelli nel suo Nuda verità allestisce una storia di perfidie incrociate basata sul classico schema del triangolo: lo strumento della maternità sarà stavolta adoperato dalla protagonista, la dottoressa Donatella Mugghiani, per ricattare il proprio amante nonché marito di una giornalista, la quale si è vendicata della loro tresca scrivendo un articolo infamante sul suo conto.

Ne L’orologio biologico, di Kamin Mohammadi, una quarantacinquenne senza figli nell’accompagnare l’anziano padre all’ospedale si concede una riflessione dolente sulla sua mancata maternità e, più in generale, sulle stagioni della vita: “È un argomento a cui raramente penso, ed è solo qui, nei corridoi di questo ospedale, mentre accompagno mio padre a questi appuntamenti, che immagino quel luogo di un futuro lontano in cui si trova la mia vecchiaia e mi chiedo come si presenterà, quale sarà l’orizzonte che mi aspetta, chi ci sarà lì con me”, p. 209.

Tuttavia si sospetta che le narrazioni più riuscite siano quelle in cui la maternità è vista, al riparo da ogni retorica (sia essa all’insegna del cinismo o del sentimentalismo), come un fatto della vita. Un fatto grande, certo, che dunque si può accogliere solo in due modi: o piegandosi alla sua eccezionalità oppure provando a ridimensionarlo per mezzo dell’ironia. (altro…)