Edizioni Clichy

Papà

 
 
 
 

Alle 22 del 19 settembre del 2018, Régis sta guardando alla televisione il documentario La polizia di Vichy. Un frammento di filmato del 1943 gli mostra il palazzo di Marsiglia nel quale è cresciuto, da cui escono due soldati della Gestapo che trascinano un giovane uomo precedentemente malmenato. Quell’uomo è il padre del protagonista, il quale pare coincidere con Régis Jauffret, autore di Papà, romanzo proposto al pubblico italiano nel settembre del 2020 dalle Edizioni Clichy (traduzione di Tommaso Gurrieri): “Io, il narratore, il creatore di storie, l’inventore di destini, ho improvvisamente la sensazione di essere stato generato da un personaggio romanzesco”, p. 12.

Quei pochi fotogrammi così significativi innescano in Régis un duplice desiderio: quello di ricostruire il passato del proprio padre e quello di attribuirgli virtù davvero lontane dal personaggio schivo e umbratile che il genitore è stato in vita.

Ecco allora che l’opera procede su due piani; il primo è quello della rievocazione di momenti di intimità familiare, nei quali al lettore non è dato di conoscere il confine tra la fedeltà a quanto realmente accaduto e il frutto della fantasia e dell’emotività del romanziere. Di certo, la figura che viene tratteggiata è quella di un uomo le cui tare fisiche e mentali (una forte sordità, che nell’età adulta diventerà pressoché totale, a cui si sommerà un disturbo bipolare sempre più opprimente) tengono come sospeso dalla realtà, e con ciò da una compiuta affettività verso il proprio figlio: “In realtà non avevo affatto avuto un padre, o quasi. Nell’infanzia avevo dovuto contentarmi di un pezzettino di papà come un bambino a cui si getta un ottavo di un quadrato di cioccolata per mangiarlo con il pane a merenda”, p. 31. E così, l’inopinata scoperta accende in Régis la volontà di riconquistare il padre perduto affidandosi alla memoria o forse – in virtù della finzione narrativa – di inventarsene uno mai avuto: “Quei sette secondi di pellicola hanno risvegliato il bambino annidato negli strati più profondi di me, dandomi un’inestinguibile sete di padre”, p. 26.

Un ulteriore piano si intreccia dunque con quello principale, scuotendolo e deformandolo: Jauffret, ad esempio, indulge quasi voyeuristicamente su dettagli della vita di coppia del padre e della moglie Madeleine; ma soprattutto inserisce in diversi luoghi del testo considerazioni anche contraddittorie nei confronti del genitore, rendendo l’intercettazione della vera natura paterna un’operazione in fieri.

Talvolta, la storia del padre pare un omaggio postumo a un’esistenza anonima e priva di sussulti: “non sembrava avere alcun progetto né nutrire il desiderio che il suo futuro fosse diverso dal presente. Una vita senza prospettiva, senza passato, rinchiusa nell’istante, in quella capsula”, p. 77; altrove, la prospettiva di Jauffret si fa nel contempo più esplicita e più indulgente: “Ho bisogno di quest’uomo, non posso accettare di vivere senza di lui lo scampolo di vita che mi resta. Progetto di restaurarlo sulle rovine della mia memoria, analizzando i minimi frammenti per cercare di riedificarlo senza tutti quei vizi di costruzione che gli hanno impedito di essere lui. Non si può avercela con qualcuno perché non è esistito”, pp. 79-80.

Tuttavia non mancano i momenti in cui il pessimismo prende il sopravvento, e lo scrittore parla di sé bambino come una “borsa dell’acqua calda di carne nata per riscaldare la tua disperazione”, pp.133-4. In altri passaggi, l’ambivalenza dei sentimenti dello scrittore si palesa in tutta la sua contraddittorietà: “Alfred, meriteresti di morire una seconda volta. Eppure scrivo questo libro per resuscitarti più bello di quanto sei stato”, p. 141. Ambivalenza che, in poche pagine, lo porta ad alternare affermazioni nette e non certo benevole (“Bastava poco per compiacermi, avresti potuto farmi contento senza nessuna fatica. Stronzo”, p. 181) con infantili vagheggiamenti di un papà-eroe: “Hai contribuito a liberare la Francia dal nazismo. Hai portato le tue prodezze nella tomba. Affermo, giuro, di essere stato testimone della visita di Charles de Gaulle la mattina del 10 novembre 1961. Andandosene ha perfino sfiorato la mia guancia con la punta delle dita mormorando Tuo padre è un coraggioso. Sarà la sola bugia di questo libro”, p. 185, corsivo nel testo).

Ma solo nell’ultimo, struggente capitolo, che si apre con le parole “Non bisogna mai fidarsi dei romanzieri” (p. 197), si libera l’autentico sentimento dello scrittore verso il padre. Come al termine di un lungo e faticoso percorso di analisi, o al culmine di un’ascesa verso un punto identificabile con la pacificazione o con la verità, dismesso ogni atteggiamento difensivo (e ogni artificio retorico), Jauffret si abbandonerà al coraggio di un affetto semplice e puro.

Il nucleo più autentico di ogni rapporto, sembra dirci lo scrittore, è al fondo di un processo di sottrazione, fitto di retrocessioni, coesistenze di opposti, incoerenze e investigazioni a vuoto: quasi che le energie profuse servissero non per confinare un legame, ma per esaurirsi, dissolversi, e mostrare finalmente la nuda relazione.

 
 
 

Novelle

 
 
 

Pubblicato dalle Edizioni Clichy nel 2016, il volume curato e tradotto da Marco Gabellieri raccoglie nove racconti di Arthur Schnitzler, accomunati da una minuziosa indagine delle relazioni dei personaggi con se stessi, con gli altri e con il mondo, figure prese in una costante contraddizione tra meccanica e imprevedibilità.schnitzlercopertinasingola

Sia nel caso in cui la narrazione provenga dalla voce della prima persona singolare (come accade in Fiori, Il sottotenente Gustl, Il diario di Redegonda, La danzatrice greca e La moglie del soldato) sia che nasca dall’assunzione da parte del narratore esterno del punto di vista di un particolare personaggio (come succede in Geronimo il cieco e suo fratello, Il destino del barone von Leisenbogh, L’estranea e La morte del soldato), eguale è l’attenzione da parte di chi racconta alle zone d’ombra, alle inquietanti incompletezze dell’esistenza, all’ingovernabilità dei legami, all’impossibilità di sopportare le proprie colpe e di porre rimedio per sempre ai propri errori, come se ogni evento o azione facesse sempre e comunque parte di una rete resistente che limita la possibilità del cambiamento e induce invece a cedere alla ripetizione; come se ciascun essere fosse fragile e costantemente legato all’altro in un vincolo opaco e inconoscibile, che dura al di là del trascorrere delle stagioni e dell’aspetto visibile del reale.

Contemporaneamente, pare che ogni figura sia schiacciata in modo unico dal proprio particolare peso, che ogni condivisione e ciascun confronto tra i viventi risultino alla fine imperfetti.

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Iván lo scemo

 
 
 

La fiaba di Lev Tolstoj Iván lo scemo, pubblicata dalle Edizioni Clichy nel 2016 (volume curato da Alberto Schiavone e tradotto da Yuri D’Ippolito), racconta la storia di un uomo che sceglie di non difendersi, di non offendere e di accettare la vita proprio com’è, cioè limitata.

tolstojcopertinasingola“«Io […] ho già abbastanza così»” (p. 77), dice una donna del regno di Iván al diavolo travestito da “lindo signore”, che vorrebbe “spuntarla a forza di soldi” (p. 75) in un mondo in cui non ci si affida alla comoda mediazione del denaro ma al baratto e allo scambio.

Non esiste accumulazione nella quotidianità di Iván, la sua esistenza non è speciale, è un uomo legato ad altri uomini, lavora per vivere ma non è schiavo del proprio mestiere, che rappresenta semplicemente il dispiegarsi della sua persona.

Subisce ingiustizie ma pare non accorgersene e dimenticarle, dà a chi gli chiede senza calcolare perdite e guadagni.

Non vuole altro, non vuole di più, non vorrebbe moltiplicare i doni che riceve e condivide; Iván non conosce la tentazione che potrebbe portare con sé la gratuità quando meccanica, controllabile e ripetibile come un trucco; egli non desidera cioè vivere nell’illusione, nell’ebbrezza, nel sogno, eppure la sua attenzione per la realtà non ha nulla di violento, il suo coincidere con essa nulla di passivo; in altri termini, Iván si lascia attraversare dal mondo quasi distrattamente, quasi stupidamente (con “«Eh, beh»” inizia ogni sua risposta, perché lui non è mai il primo a parlare).

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Can che dorme

 
 
 

Ripubblicato nel 2015 dalle Edizioni Clichy nella traduzione di Tania Spagnoli, Can che dorme è un appassionante romanzo di Françoise Sagan, apparso per la prima volta in Francia nel 1980 per i tipi di Flammarion.

Protagonisti delle vicende sono il giovane Gueret e l’affittacamere Madame Biron, le cui vite saranno destinate a cambiare e a essere legate l’una all’altra a causa di un equivoco.

SAGANCANECopertinaSingolaGueret, anonimo impiegato particolarmente disprezzato dal suo superiore Mauchant, mentre percorre – in compagnia di un cane che ogni sera decide di seguirlo – la via che dalla ditta Samson lo conduce al suo alloggio, la pensione familiare “«Les Glycines»” (p. 14), un giorno rinviene dei gioielli sotto un cumulo di carbone.

“Nel pomeriggio aveva piovuto, e un sole umido faceva risplendere l’acciaio e i mattoni del paesaggio mentre Gueret camminava con passo rapido, il passo di un «uomo efficace» pensò. A dire il vero, camminare velocemente gli toglieva la possibilità di scegliere i suoi gesti, di sistemare le sue mani; camminare velocemente gli faceva sopprimere ogni spaventosa libertà da bighellone, lo sgravava da se stesso, dal suo grosso corpo infelice – o che comunque sentiva come tale fin dalla pubertà”, pp. 11-12.

Tuttavia, dopo l’iniziale entusiasmo ed euforia alla vista di una ricchezza immeritata e ingiustificata che lo coglierà impreparato, e lo farà sentire anche un po’ colpevole non appena se ne sarà impossessato (“Era ricco! Lui, Gueret, era un uomo ricco!”, p. 13), ecco che il giovane, una volta al sicuro dalla strada e dagli sguardi indiscreti, dovrà financo sostenere la figura ostile di Madame Biron, che al suo ingresso nella casa gli si presenterà di schiena e intenta alle faccende.

“[…] la schiena di una donna magra, energica, dai capelli neri e lucenti che, quando si voltava verso la porta, mostrava un volto del tutto inespressivo, inanimato, che ne aveva viste di cose in cinquanta o sessant’anni e che ne era rimasta spesso disgustata, un viso serio in cui stonavano degli occhi intelligenti, avidi, degli occhi che stonavano anche con il grembiule nero, gli scarponi e l’aspetto sciatto che si era visibilmente imposta. […] La donna gli lanciò un’occhiata sprezzante, stanca, e rispose al suo «Buonasera» seccamente”, pp. 14-15.

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