
Vagabondaggi e imbalsamazione sono i due estremi lungo cui si dipana il lavoro di Tokarczuk: il continuo mutamento della vita e la perfetta staticità della morte, verrebbe da pensare, ma nella morte, in natura, non vi è nulla di statico. Fermare il tempo è l’obiettivo troppo umano dei diversi trattamenti di conservazione descritti minuziosamente, a volte con sguardo da scienziato, altre con la curiosità del turista. Che siano tutti destinati a fallire non preoccupa l’autrice, la quale considera “che è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità. Ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione, e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre.” (p. 7), presupposto certamente scomodo per chi intenda scrivere un romanzo.
Due storie emergono prepotenti: quella di Philip Verheyen, chirurgo e anatomista fiammingo vissuto fra Sei e Settecento, che, sezionandone accuratamente i tessuti, scoprì il tendine d’Achille nella sua stessa gamba, amputatagli in giovane età e conservata in attesa della resurrezione dei corpi in un liquido a base di brandy e pepe nero, diventata fonte di dolore fisico e ossessione psichica per il chirurgo, che nei suoi appunti dichiara: “Ho passato la mia vita in viaggio, ho viaggiato nel mio corpo, nella mia estremità amputata.” (p. 199); e quella di Annuška, giovane donna che abbandona il figlio e il marito e vaga senza meta nella metropolitana di Mosca finché non viene arrestata insieme a una senzatetto che borbotta invettive contro qualsiasi ordine costituito: “Chi fa una pausa diventerà pietra, chi si arresta verrà infilzato come un insetto, il suo cuore sarà trafitto da un ago di legno, le sue mani e i suoi piedi saranno infilzati alla soglia e al soffitto. […] Muoviti, vai. Beato è colui che parte.” (pp. 243-4).
Se ciò che ritorna è una mera ripetizione-costellazione, se i numerosi leitmotiv sono da considerare ritornelli, necessari a dare solo “una parvenza di interezza sistematica generale” (pag. 75), allora elevarli a struttura portante equivarrebbe a normalizzare questo lavoro, imponendogli un ordine che non sembra essere nelle intenzioni dell’autrice. Per la stessa ragione, è importante dare il giusto valore a ciò che compare una sola volta nel testo: “Solo ciò che è diverso sopravvivrà” dice l’io narrante a p. 21 e sono molti gli argomenti-capitolo senza alcun seguito, apax legomenon tematici, numeri primi che ricorrono senza un ordine prestabilito: assorbenti igienici con scritte curiose sulla confezione; asini che fra i tanti turisti sanno riconoscere quelli di provenienza nordamericana e solo con loro recalcitrano; le riforme di Atatürk; appartamenti che si sentono abbandonati dai loro abitanti, in quanto usciti di casa o perché scomparsi dal mondo, descritti nel capitolo più enigmatico, Appartamenti abbandonati, appunto, con quell’accenno alla mano senza corpo che sembra scrivere appoggiata a un tavolo, priva però di penna, di carta e di scrittura.
A collocarsi nel centro ideale dell’opera potrebbe essere proprio uno di questi singoletti, intitolato Il tempo e il luogo giusti: la necessità di spostarsi, sembra dirci Tokarczuk, nasce dalla ricerca del luogo perfetto, ma lo spazio da solo non basta, va occupato nel momento propizio per poter “incontrare il grande amore, la fortuna, vincere al lotto o scoprire un segreto per il quale tutti si scervellano da anni; oppure la morte” (p. 77). Richiamato nell’ultima riga dell’opera: “forse rinasceremo e questa volta lo faremo nel luogo e nel momento giusto” (p. 374), l’auspicio si candida a possibile nesso fra i viaggi e la conservazione dei tessuti organici: e se fosse l’eventuale resurrezione dei corpi – dei corpi, non certo delle anime, “in fondo cosa ce ne frega dell’anima” si legge persino a p. 122, ma anche “il corpo e l’anima sono in realtà la stessa cosa” (p. 195) – se fosse la reincarnazione il sistema più estremo per vagabondare alla ricerca della felicità?
(Giovanni Locatelli)