Albert Camus

Il nuovo corso

 
 
 

“In una remota città di provincia d’un paese che potrebbe anche essere il nostro […] il 5 ottobre d’uno di questi recenti anni” (p. 27) accade un fatto singolare: le cinquemila copie de La verità (organo dell’unico partito esistente e unico quotidiano distribuito) destinate a quella città, riportano la notizia dell’avvio di un non meglio specificato nuovo corso all’insegna della “definitiva libertà” (p. 28).

Così inizia Il nuovo corso, romanzo di Mario Pomilio dalla vicenda editoriale indubbiamente composita: uscì nel 1959 per Bompiani, poi per Rizzoli nel 1969, per Rusconi nel 1979, per De Agostini (in edizione scolastica) nel 1982, per Mondadori nel 1990, e oggi viene riproposto da Hacca (settembre 2014).

Alessandro Zaccuri, nella prefazione, rinviene suggestive analogie tra l’atmosfera del libro e la rivoluzione ungherese del 1956, di poco precedente alla stesura del testo (e ci ricorda che verità è traduzione italiana di Pravda); e nella postfazione Mirko Volpi individua, altrettanto acutamente, alcune ascendenze letterarie, Alessandro Manzoni e Albert Camus su tutti.HACCA_pomilio_OKMC_18mm

Eppure, al di là di questi agganci alle realtà politica e culturale, Il nuovo corso pare anzitutto un’impietosa ricognizione sul rapporto tra l’uomo e la libertà.

Pomilio ci presenta una serie di formidabili esemplari umani, ciascuno dei quali reagirà in modo personalissimo (ed emblematico) a questo presunto nuovo corso.

Primo a comparire è Basilio, “il più noto dei giornalai della nostra città” (p. 31), a cui la notizia procurerà attimi di smarrimento (“si sentiva sbalestrato e avvertiva, per la prima volta nella sua vita, per la prima volta acuto e tormentoso, un chiuso sgomento del futuro, una paura folle di sbagliare”, p. 36), altri in cui perderà di vista i termini della questione (“Più cercava che cos’era veramente la libertà, più gli capitava come quando si sbuccia una cipolla, che uno crede d’arrivare al bulbo e non trova altro che nuovi strati,” p. 37), altri ancora nei quali rimpiangerà la condizione precedente: “In fondo, era necessaria? A che serviva, la libertà? Non si viveva a meraviglia già prima, e se non proprio sereni, in pace gli uni con gli altri, visto che ad esserlo bastava tanto poco, bastava in pratica far finta d’avere le stesse opinioni che mostravano d’avere gli altri, e scoprire un motivo di reciproca simpatia, se non nella concordanza di quelle opinioni, almeno nell’intesa creata da quella finzione?” (p. 44).

Pomilio, inoltre, utilizza alcune scene di raccordo per descrivere con sarcasmo la cittadinanza (ma qui calzerebbe la parola massa), che si impossessa della libertà banalizzandola: “il nuovo corso divenne il pretesto per una di quelle rare giornate di suprema spensieratezza in cui pare che ci si precipiti a vivere esclusivamente nel presente e il fatto d’essere in tanti a condividere la medesima gioia sembra renderla più sicura, più fraterna e più dolce”, p. 67. (altro…)

Siamo buoni se siamo buoni

 
 
 

Ermanno Baistrocchi, ex editore di successo scampato a un serio incidente (“sono stato morto” si legge in diverse pagine del libro), oggi scrittore che gode di una certa fama grazie al romanzo La banda del formaggio (che l’editore di Baistrocchi avrebbe dovuto pubblicare dopo la sua morte e che invece dà alle stampe durante la sua degenza), padre di Daguntaj (“che significa, in parmigiano, «dacci un taglio»”, p. 17), separato da Emma, della quale per tutta la narrazione auspica il ritorno, è il protagonista di Siamo buoni se siamo buoni, romanzo di Paolo Nori uscito il 9 ottobre per Marcos y Marcos.

Nori ci ha abituati a uno stile riconoscibilissimo e inimitabile: ogni suo testo, a prescindere dall’ampiezza e dall’occasione per la quale è stato redatto, è non tanto un monologo interiore, quanto piuttosto la trascrizione di un ininterrotto monologo tout court, che del discorso orale ha tutte le caratteristiche: ripetizioni, correzioni o precisazioni di quanto già detto, intercalari, divagazioni, salti temporali, spaziali e logici, repentini cambiamenti di tono e di atmosfera, stilemi del linguaggio colloquiale (come, tra i molti esempi possibili, il che polivalente).

In Siamo buoni se siamo buoni c’è poi una massiccia presenza di quelle forme che in linguistica testuale prendono il nome di deissi testuali, ossia i momenti nei quali il testo fa riferimento a se stesso: “Non sono sicuro di aver detto cosa eravamo andati lì in Africa a fare”, p. 147; “devo averlo anche già scritto”, p. 155.Siamo buoni se siamo buoni

Ma se questo romanzo ha uno stretto legame con la realtà, è anche (se non soprattutto) per motivi che vanno al di là di questi aspetti formali. Per quanto stolido sia istituire collegamenti tra un autore e un’opera, nel caso specifico di Siamo buoni se siamo buoni sarebbe ottuso non rinvenire le profonde analogie tra il protagonista, Ermanno Baistrocchi, e l’autore, Paolo Nori. Intanto, le vicende biografiche: Nori ha avuto un grave incidente nello stesso giorno in cui lo ha avuto Baistrocchi; è l’autore de La banda del formaggio; codirige un’interessante casa editrice di libri digitali; e come Baistrocchi è nato a Parma, residente a Casalecchio di Reno ed esperto (nonché appassionato) di letteratura russa.

Se con le coincidenze biografiche, per non peccare di invadenza, è bene fermarsi qui, va notato che nel libro sono riportati addirittura stralci di interventi, scritti od orali, che Paolo Nori presta a Ermanno Baistrocchi: una rapida ricerca su Internet è stata sufficiente, ad esempio, per scoprire che il breve discorso tenuto da Nori sul palco del Concerto del Primo Maggio del 2013 appare quasi integralmente nel volume (pp. 81-83). (altro…)