Un giorno come un altro

 
 
 
 

Nel novembre del 2022 Adelphi ha pubblicato, tradotto da Simona Vinci, Un giorno come un altro di Shirley Jackson.

Si tratta dei ventidue racconti, originariamente apparsi in rivista tra il 1934 e il 1968, che compongono Uncollected stories. Ovvero la seconda parte di Just an Ordinary Day, uscito negli Stati Uniti nel 1995.

La distanza cronologica tra la pubblicazione in rivista e quella in volume, e tra l’edizione americana e quella italiana, potrebbero addebitarsi al fatto che la celebrata autrice de L’incubo di Hill House abbia qui fornito prove narrative di atmosfera assai diversa dal suo solito, e difficilmente riconducibili a un genere.

O al fatto che, aggiungiamo, le ventidue narrazioni sono disturbanti in un modo originale e scomodo. Poiché presentano tutte una situazione inizialmente ordinaria, a movimentare la quale interviene un umano comportamento forse non dei più terribili ma di certo nocivo, e di cui solitamente ci si vergogna: la perfidia.

È la perfidia stessa a presentarsi come comportamento scomodo. Perché allo stesso tempo è usuale, semplice da adottare e garantisce un successo pressoché sicuro, ora in termini di guadagno concreto ora di semplice appagamento individuale. Ma, assieme, rischia di far apparire come poco fruttuose le relazioni basate sull’empatia e la misericordia.

Lo sanno bene i personaggi di Un giorno come un altro, che con sottile intelligenza e misurata crudeltà riescono a far pendere il mondo verso la propria volontà.

Lo sanno bene, ad esempio, i due protagonisti di Offre la casa, il racconto che apre la raccolta. Ossia un cieco e la sua accompagnatrice, abilissimi a raggirare Artie Watson, venditore di liquori.

E lo sa bene Ellen, che tiene sotto ricatto la cara amica Marjorie dopo averla vista scambiarsi effusioni con John, il suo amante.
“«Ellen», disse Marjorie con tutta l’aria di essere sincera «sei splendida, stasera».
No, no, oh, no, pensò Ellen, non crederà di cavarsela così e, senza pensarci troppo, si rivolse ad Arthur: «Marjorie si è offerta di tenere i ragazzi questo fine settimana, così noi possiamo andare a sciare. Potremmo tornare al lago, in quel posto incantevole».
«Ma io…» cominciò Marjorie, ed Ellen la interruppe senza difficoltà: «Oggi in banca ho incrociato John Forrest» disse ad Arthur. «Ecco perché ho pensato allo sci – me ne ha parlato lui. E così, quando Marjorie si è offerta di tenere i ragazzi…». Rivolse all’amica un saluto affettuoso” (p. 121).

E se due differenti crudeltà si affrontano, la spunterà chi saprà dimostrarsi capace di restare più a lungo ben saldo nella propria posizione. Come Mrs. Melville, che infine otterrà l’agognata camicetta taglia 46 dopo aver subìto parole di scherno da parte di alcune commesse di un grande magazzino: “L’indecisione non era uno dei difetti di Mrs. Melville. Per un istante rimase ferma in mezzo al reparto calzature, poi, stringendo forte il sacchetto, sporse il petto in fuori e, piena di benevolenza verso il mondo, si incamminò con convinzione verso il cartello che la guidava, su per la scala mobile, dopo i tailleur minuscoli, il reparto casa, il ristorante – Mrs. Melville sapeva che stavolta ce l’avrebbe fatta – all’ufficio reclami” (p. 90).

Ecco il punto: la perfidia, per funzionare, deve agire in modo sotterraneo, né mai deve palesarsi come sintomo di una meno che piena “benevolenza verso il mondo”. I personaggi dei racconti di Shirley Jackson, anzi, mantengono sempre un comportamento socialmente inappuntabile, ai limiti del lezioso.

Il mondo ha una sua logica che non può essere scardinata. Ma c’è un altro àmbito d’azione, quello invisibile, nel quale – qui sì – almeno una porzione di realtà la si può manomettere.

Suscitando l’imprevedibile, se non addirittura l’impossibile. Magari nelle vesti di un’indimenticabile avventura, come accade in Viaggio con signora, in cui il piccolo Joe – che prende un treno da solo per raggiungere il nonno – accetta di fingersi figlio di una ladra ricercata dalla polizia, con grande divertimento di entrambi. O sotto forma di sequenza di accadimenti straordinari che, proprio in virtù della loro eccezionalità, saranno ricondotti al presunto potere de La moneta dei desideri.

I gustosissimi racconti di Un giorno come un altro, in fondo, adottano una prospettiva dolente. Perché sono messi in scacco dalla loro stessa forza propulsiva: l’umana perfidia è in grado di incidere solo ai margini del mondo, ma la perfidia del mondo (con la sua causalità e la sua univocità) vanifica ogni umana perfidia, relegandola appunto ai propri margini.

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

La vita nascosta

 
 
 
 

La vita nascosta di Raffaele Donnarumma (Il ramo e la foglia edizioni, 2022) racconta le vicende di R., professore universitario omosessuale che si ritrova single a quarantacinque anni e deve rispolverare le dinamiche sociali necessarie alla ricerca di un partner, dinamiche che la lunga relazione con l’ex compagno S. aveva fatte dimenticare – ed ecco allora l’assidua frequentazione della palestra e dei siti di incontri gay.
 
Ma La vita nascosta è anche il ritratto di una persona con più di un innamoramento alle spalle e in corso, che analizza, more geometrico, ma anche more proustiano, i suoi sentimenti, limiti, paure e meccanismi psichici, soprattutto quelli che tendono a incepparsi, e ne rileva le contraddizioni, la prima delle quali già evidente nelle righe iniziali del romanzo: “Niente mi fa paura come il sesso. […] L’unico modo per scappare davvero, però, è buttarsi in quello che chiamano sesso occasionale e che di occasionale non ha nulla” (p. 7).
 
La vita nascostaCapita che, in una di queste app di incontri, R. conosca L., più giovane, più disinibito, più freddo. Con L. il protagonista vive un cambio di paradigma rispetto alle esperienze precedenti: “Ma io, che sino ad allora ero sempre stato attivo e sperimentavo senza averlo previsto un’inversione di ruoli, mi rabbuiai: mi trovavo per la prima volta davvero dall’altra parte, mi ero messo là dove prima stavano i miei partner e cedendo a lui la mia parte abituale recitavo quella nuova con l’incertezza del principiante che pronuncia le sue battute nel tono sbagliato e senza essere padrone della scena” (p. 158).
 
Nel protagonista questa inversione di ruoli provocherà un ulteriore passo in un processo di annullamento che appariva già in atto: “Non sapevo più chi ero” (p. 158), “Neppure io allora esistevo più” (p. 159). “A quarantasei anni, quello che sapevo di me era quello che di me non mi piaceva e che tornava a galla contro la mia volontà, facendomi sentire vittima non certo di un bel ragazzo un po’ apatico o del caso, ma del mio nemico più infame, quello che si appiattava in attesa del momento migliore per saltarmi al collo mordendomi, e che non c’era verso di eliminare: me stesso” (p. 176).
 
Il protagonista si era già preoccupato di fagocitare l’autore stesso del romanzo: “quell’R. che in questo libro non appare mai, non perché mi vergogni, o per un ultimo scrupolo di cancellare le tracce, impedendo che il personaggio che qui parla coincida con la persona del suo autore; ma perché davvero, scrivendo di noi stessi, solo gli sciocchi possono credere che erigiamo un monumento, e sia pure di cartapesta, al nostro io: in realtà, a ogni parola, metodici e accaniti, ci distruggiamo” (p. 119).
 
Il processo di annullamento, conclusasi per sfinimento la relazione con L., coinvolgerà tutti i personaggi del romanzo, nominati pure loro tramite la sola iniziale, comparse destinate a uscire di scena: “Quanti ce ne sono stati dopo, che hanno mangiato la tua immagine sostituendoti, muta falange di un esercito risibile, di una guerra piena di affanno e di sconfitte? S., che ride e si tocca il naso prendendomi in giro; G. che taglia mele verdi e le infila nella centrifuga; L. mentre suona il campanello e dice in tono discendente, roco: «Sono io». Neppure voi avete più un nome, figuriamoci quegli altri” (p. 321).
 
Donnarumma, scrittore condannato a vivere in una società che ha sostituito i salotti aristocratici descritti da Proust con le app di dating, al diffuso nichilismo sin qui descritto contrappone una prosa ricca e ricercata, dai periodi lunghi e ben articolati, principale forza del romanzo, verrebbe da dire ultimo baluardo contro le delusioni d’amore. “Gli incontri irrelati e dispersi incrementano il tempo impiegato a cercarli, come un giorno di sagra paesana per preparare la quale si è speso un anno intero, e che è il solo tempo vero della nostra vita, fatto di progetti, di attese, di preparativi, di imprevisti, di ritardi che nessun fatto potrà colmare. Per quella mezz’ora, ti abbandoni all’ansia della conquista; e a volte non è neppure necessario farsi qualcuno, respingere un pretendente può dare una piena soddisfazione perché il vero fine è vedere l’altro che pensa: «mi piaci, ti voglio», e così, esistere” (p. 9).

 
 
(Giovanni Locatelli)
 
 

Dorsi blu

 
 
 
di Maria Sole Cusumano
 
 
 

Akiko si era ammalata e nessuna se n’era accorta. Lei, che ancora a ottant’anni si tirava dietro due ceste di vimini e s’immergeva, battendo tutta la costa e strappando granchi, ricci e abaloni dalle rocce, era per noi indistruttibile.

Quando ci ritrovavamo a cena la prendevamo in giro pizzicandole il collo e il costato e Ina ripeteva: Dove sono le branchie, eh? Dove le tieni? Ma Akiko non ne aveva bisogno, perché aveva cominciato da bambina a familiarizzare con l’acqua. Diceva che respirare sott’acqua significava essere in modo diverso; la vita in mare aveva un suo tempo e Akiko si limitava a seguirne il ritmo. Era quasi immobile mentre cacciava, quasi nuda, come i pesci che le nuotavano intorno e le mangiavano la pelle morta dai polpacci.

La prima volta che mi portò a vedere le pescatrici subacquee avevo tre anni e non facevo molto oltre che mangiare la sabbia. Nella nostra famiglia di sole donne non ci si poteva sottrarre al battesimo dell’acqua, perciò quando Tetsuna, mia madre, mi aveva messo in braccio ad Akiko e le aveva detto che era il momento, lei non se l’era fatto ripetere.
Di quella giornata non ho alcun ricordo, ma ricordo tutte quelle che vennero dopo. La costa si popolava di donne, le più giovani di venti o trent’anni, le più anziane arrivavano oltre gli ottanta, tutte indossavano solo un perizoma e si lanciavano fra i cavalloni, nell’acqua gelida dell’oceano. Riemergevano vestite di alghe, con le ceste cariche, e ridevano. Akiko ne aveva quasi compiuti sessanta e ancora la sua agilità faceva invidia.
Dorsi blu

A sedici anni mi ritrovai a essere la più grande non ancora in età da immersione e, mentre Inata e Ame seguivano Akiko, io tenevo in braccio Ina. Seduta nella sabbia osservavo le loro schiene bianche venire su dall’acqua scura, stirarsi al sole; le sentivo fischiare e le vedevo sorridersi, testimoni dello stesso segreto.
A cena, mia madre e le mie zie cucinavano parte del pescato, di solito facevano qualche zuppa di granchio da accompagnare al riso; Akiko invece mangiava solo i ricci di mare, aperti con lo stesso coltello ricurvo con cui li aveva rimossi, e li ingoiava ancora crudi, che sapevano di sale.

Lei amava così tanto quel lavoro e quella vita, che continuò anche quando non serviva più. Inata e Ame smisero a neanche quarant’anni, io non iniziai mai e dove la spuma bagnava Akiko e i seni bianchi delle altre donne rimasero solo rocce, dure e nere. Eppure non ci facevo caso, finché Akiko sarebbe andata a pescare, nuda come al solito, finché i suoi capelli avrebbero fatto odore di alga marina, il resto sarebbe rimasto uguale.

Ma la malattia non potevamo immaginarla. Lei non ci diede modo neppure di sospettarlo. Aveva continuato a fare le cose come sempre, a riportare quei cesti di vimini, ad aprire i ricci col coltello e succhiarne l’interno, ma nessuna di noi andava più in spiaggia a vedere la sua schiena.

Il primo segno della malattia furono certe sfumature bluastre fra le scapole. Se ne accorse per prima zia Hana, che la scoprì nuda nella vasca, intenta a sbrogliarsi i nodi dai capelli. Seguirono visite mediche e trattamenti vari, nessuno si rivelò efficace perché le sfumature s’inspessirono, da acquerello divennero acrilico e tinsero tutta la schiena. Akiko però non sembrava lamentarsene e con noi si guardava bene dal fare qualunque commento riguardo al suo stato di salute. Metteva in pratica il più vecchio e caro insegnamento che le aveva lasciato il marito: “sei solo quello che senti di essere”. E lei era in salute, andava ancora a caccia di granchi.

Akiko aveva tenuto insieme la nostra famiglia. Quando gli uomini se n’erano andati e mia madre e le mie zie si erano sentite come colpite da una maledizione, condannate all’infelicità, Akiko aveva detto loro di tornare sulla costa e pescare. Aveva detto che solo le donne potevano farlo e che la ragione era semplice, aveva a che fare con la nostra natura: le donne sono duttili, la parte morbida e cedevole, il che non implicava, nella sapienza orientale, essere deboli, ma, al contrario, essere resilienti. La più forte era colei che piuttosto che resistere fino a spezzarsi, si piegava quel tanto che bastava per vincere. E quanto poteva essere difficile per un uomo imitare la lentezza dell’acqua, aspettare l’arrivo dei granchi, catturarli senza lasciarsi pizzicare, con mano decisa e presa leggera.

Akiko aveva insegnato a mia madre e le sue sorelle che non valeva la pena resistere al dolore, che bisognava accoglierlo, perché il dolore era come l’onda, e se un momento ti viene addosso quello dopo sta già ritirandosi. Questo l’aveva insegnato anche a me e alle mie cugine, che quando vedevamo i cavalloni piantavamo i piedi nella sabbia e ci coprivamo la faccia. Akiko ci sgridava, diceva che dovevamo immergerci, così l’acqua ci avrebbe fatto giocare con lei.

Mise in pratica i suoi insegnamenti nell’ultimo anno di vita. Non resistette alla malattia, la lasciò entrare convinta che, come l’onda, il mare se la sarebbe ripresa.
Aveva ottantaquattro anni e la schiena blu con chiazze celesti e viola, sembrava uno di quei granchi che a volte si vedevano sugli scogli, tanto più che ora vedevo il suo corpo raggrinzito cedere al peso degli anni e quelle pieghe mi ricordavano la mollezza degli abaloni.

L’ultimo dottore che interpellammo la visitò a lungo e Akiko continuava a prenderlo in giro, a chiamarlo per nome –Tako – e tirargli la cravatta.
Il signor Tako disse che mia nonna aveva un granchio nei polmoni. Poteva averlo preso durante una delle sue lunghe immersioni, lei sosteneva che le fosse entrato dall’orecchio sinistro che aveva sempre pieno d’acqua. Doveva essere molto piccolo all’inizio ma adesso era decisamente troppo grande per essere rimosso.
Mentre le sue figlie si disperavano, Akiko rideva con le mani sul petto, come nel tentativo di sentire quel suo granchio, ospite inatteso, zampettarle tra un polmone e l’altro. Disse che le pareva giusto, considerato che aveva passato più della metà della sua vita con i granchi, e li aveva cacciati e poi cotti, era quasi contenta che fossero di nuovo loro e non qualcos’altro, magari qualcosa d’ignoto.

Quando restammo sole disse: Bene, so come prenderli. (altro…)

Come scrivere un racconto

 
 
 
 

Gordon Lish, figura leggendaria della letteratura americana contemporanea, è soprattutto noto come editor. Più precisamente, è diventato famoso per aver operato profonde revisioni alla narrativa di Raymond Carver. Al punto da far affermare a Stephen King (lo leggiamo nella quarta di copertina del volume di cui parleremo) che “il cosiddetto minimalismo per cui Carver si è preso i meriti era in realtà un’invenzione di Lish”.

Altrettanto benevola (quasi in punta di ossequiosità) è l’introduzione di Francesco Guglieri, che di Lish rammenta – anche attraverso le parole di altri celebrati autori statunitensi – la perizia e il potere come professionista dell’editoria.

Introduzione che apre Come scrivere un racconto. Un libro di narrativa, uscito nell’ottobre del 2022 per Racconti Edizioni (traduzione di Roberto Serrai, illustrazione di copertina di Marta Signori). Il volume raccoglie trentadue racconti di Lish, la maggior parte dei quali non supera le quattro pagine.

Poco nuoce all’intelligenza del testo il fatto che manchi, per ciascun racconto, ogni riferimento (specie cronologico) alla prima pubblicazione. Perché la sensazione è che la narrativa di Gordon Lish sia priva di uno sviluppo, graviti tutta attorno a un medesimo centro.

Giusto per prendere subito una posizione scomoda, potremmo dire che si tratta di una prevedibilissima raccolta di buoni racconti scritti da un eccellente editor.

O, per riformulare con più generosità la nostra affermazione, si tratta di trentadue racconti divertiti, talvolta divertenti, in cui Lish mostra una grande conoscenza dei meccanismi narrativi, sia nella costruzione di una trama che – soprattutto – nel depistaggio dei lettori.

Ma, a lettura ultimata, si ha la sensazione di una scrittura algida, tutta intellettuale, priva del vero elemento che fa spiccare il capolavoro dallo sfondo delle pur meritorie altre opere: la tensione verso l’altrove.

Ovvero, anche qui occorre spiegarci meglio, è proprio l’irresolutezza, intesa come slancio verso l’inconoscibile, a dare mobilità e fuoco a una narrazione.

Dicevamo del centro attorno a cui gravita l’intera narrativa di Gordon Lish. Che sembra proprio essere la volontà di esibire maestria narrativa, abilità di saltabeccare tra le svariate possibilità di inventare e gestire una storia, avvicinandola e allontanandola dal desiderio di comprensione del lettore.

“Credi che non mi renda conto della reputazione che mi faccio raccontando barzellette e cercando di convincere tutti che sono racconti?” (p. 279).

Forse questo atteggiamento nasce dalla consapevolezza di Lish, declinata con risultati eccelsi nel mestiere di editor, di saper rendere ogni unicum narrativo un meccanismo perfettamente funzionante.

Da lì deriva forse l’ulteriore consapevolezza, un po’ blasé, di saper prevedere tutto ciò che – in un determinato contesto – possa essere scritto o pronunciato: “È per questo che non provo un grande interesse per la gente, e nemmeno per me stesso. Sappiamo tutti esattamente cosa dire, e lo diciamo: l’uomo seduto davanti a me, che recitava un melodramma col suo bicchiere; io che parlavo con lui allora e con voi adesso; voi, che leggete e valutate queste pagine.
Non c’è scampo” (p. 38).

Ci permettiamo di contrariare Gordon Lish (o, perché lo stesso Lish non rimproveri la nostra ingenuità, il Lish fittizio che ha pronunciato simile sentenza): lo scampo sta nell’affidarsi non alla ricerca ossessiva di un senso, di un risultato, ma alle intercapedini tra un senso e l’altro, tra un risultato e un altro. Affidarsi ai vuoti e non ai pieni.

Forse il grande editor Gordon Lish non è mai stato un grande scrittore perché non ha mai voluto abbandonare le sicurezze del pieno (la struttura) per inoltrarsi nello spaventevole vuoto (la luce che vibra tra gli spazi della struttura medesima).

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

Poeta Cieco

 
 
 
 

Il Poeta Cieco, visionario, sapiente e folle, votato al Celibato Obbligatorio, sposato e fedifrago, da bambino raduna seguaci e da giovane fonda una setta, ma presto viene eliminato dalla moglie, la Professoressa Virginia, la cui furia omicida è il secondo motore della vicenda. La setta viene rifondata dalla moglie stessa e dal Pedagogo Boris sulla base di nuovi e più intransigenti principi educativi, salvo ammettere la pedofilia, ma sarà la lotta per la supremazia a impegnare i due fino all’ultima pagina. Del Poeta Cieco rimarranno gli scritti, interpretati e divulgati ossessivamente.

In queste poche righe è riassunta la parabola di Poeta Cieco di Mario Bellatin (Edizioni Arcoiris, 2022, per la collana Gli Eccentrici curata da Loris Tassi, traduzione di Raul Schenardi, arricchito da una necessaria postfazione di Federica Arnoldi).
Poeta Cieco
Tre personaggi femminili inchiodati a una singola caratteristica fisica (i capelli tinti, un grosso neo sulla spalla, tre piccoli nei su un dito) e due personaggi maschili a cui non è concessa neppure quella; nessuna introspezione psicologica; nessun rapporto degli adepti con la società esterna e scarsissime relazioni fra i seguaci stessi; gli unici momenti di incontro, carichi di erotismo derivante dalla prolungata astinenza e dalla nudità dei corpi, organizzati solo per mettere alla prova l’aderenza al principio di castità della setta, setta che impiega tutte le energie nell’educazione dei seguaci o nella loro eliminazione, due cose che sembrano in ogni caso coincidere: un racconto così scarno richiede al lettore uno sforzo di interpretazione, ma nello stesso tempo lo incoraggia.

In un saggio intitolato Uccisione del padre o sacrificio della sessualità? (Arcanes, 1996) Maurice Godelier, antropologo francese, cerca di dimostrare come non sia l’uccisione del padre, nel senso inteso da Freud, il principio fondante della società, ma la rinuncia alla sessualità, rinuncia necessaria nel momento in cui la femmina della specie homo perde l’estro, e il desiderio sessuale si dilata prima e dopo il periodo fertile, svincolandosi dalla funzione riproduttiva. Secondo Godelier, questa mutazione naturale, involontaria, occorsa a una specie già sociale, avrebbe sconvolto gli equilibri della comunità, essendo il sesso per sua natura antisociale, se non fosse stata arginata tramite un intervento culturale, volontario, destinato a limitare la libertà sessuale di ciascuno.

Nel lungo racconto, l’uccisione del padre è certamente un leitmotiv: i veri genitori del Poeta Cieco sono sconosciuti; i suoi genitori adottivi verranno trovati morti a letto, forse assassinati, forse dalla Professoressa Virginia; il Poeta Cieco, padre della setta: assassinato; il Pedagogo Boris, seconda figura maschile in termini di importanza: assassinato; il padre della Straniera Anna: scomparso.

Quello che nella teoria di Freud è un sistema per arginare e redistribuire il potere del capo, qui viene messo in scena con una semplice variazione: ad assumere il ruolo di leader sarà una donna, la Professoressa Virginia. Il meccanismo però non sembra avere la forza di fondare una nuova società, quanto piuttosto di cannibalizzarla.

Lasciandosi ispirare dall’ipotesi di Godelier sulla limitazione della sessualità autoimposta dalla specie homo per salvaguardare la comunità, invece, si può vedere nella regola del Celibato Obbligatorio la base della vita sociale, all’interno della setta: “…tutti dovevano riunirsi nel salone dei bagni turchi, dove erano soliti incontrarsi. […] Il Poeta cieco aveva l’abitudine di usare il salone una volta al mese. Cercava in quelle occasioni di mettere alla prova i princìpi del Celibato Obbligatorio. L’idea fondamentale era che soltanto in una situazione limite si poteva verificare la reale adesione a quel precetto” (p. 20).

Il desiderio, mai consumato, fra il Pedagogo Boris e la Straniera Anna, sembra essere l’unica ragione di una relazione che li accompagnerà lungo tutte le pagine del racconto. “Il Pedagogo Boris spinse, dolcemente, la Straniera Anna all’interno di una delle docce. Non era la prima volta che si vedevano. I due avevano una lunga relazione, durante la quale non avevano mai avuto l’opportunità di parlare o di toccare i loro corpi” (p. 23).

L’applicazione ferrea di questa regola porta però a conseguenze terribili e grottesche. “Il grosso gatto rosso era impalato sulla scopa che il ragazzo della casa usava per fare le pulizie. […] Mentre si avviava in strada, [il Pedagogo Boris, ndr.] trovò un pezzo di carta attaccato alla parete della cucina. Si trattava di un messaggio, nel quale si affermava che le abitudini sessuali del gatto erano simili a quelle del Poeta Cieco” (p. 30).

I membri della setta si rendono conto della necessità di dare sfogo alle pulsioni sessuali, ed è curioso osservare che verrà infranto proprio quello che per Godelier è il fondamentale tabù della nostra società. È sui minorenni, sostiene Godelier, che il sacrificio della sessualità si applica in prima battuta “regolamentando i rapporti sessuali fra individui di generazioni diverse, interdicendo in particolare i rapporti sessuali fra individui membri di quelle unità familiari e imponendo quella che fu chiamata «proibizione dell’incesto»” (Uccisione del padre o sacrificio della sessualità?, p. 13 della versione pdf consultabile on-line).
Nella Nuova Organizzazione, invece, saranno proprio i minorenni l’unica eccezione ammessa al Celibato Obbligatorio. “… i minorenni non dovevano ubbidire a quell’ordine. Si spingevano ancora più in là, infatti, se un adulto commetteva l’atto carnale con un minorenne non trasgrediva il proprio voto di castità” (p. 47).

Come a dire che le stesse norme che danno senso e ordine alla nostra società possono, per semplice eccesso di zelo, sfociare nel settarismo e da qui nel terrore. Come a dire che quel mondo chiuso, ottuso, in cui le pulsioni naturali sono considerate minacce, in cui valgono regole arbitrarie e domina la violenza descritto in Poeta Cieco potrebbe essere una condizione ancestrale, contemporanea e futura anche del nostro.

 
 
(Giovanni Locatelli)