di Maria Sole Cusumano
Quando ci ritrovavamo a cena la prendevamo in giro pizzicandole il collo e il costato e Ina ripeteva: Dove sono le branchie, eh? Dove le tieni? Ma Akiko non ne aveva bisogno, perché aveva cominciato da bambina a familiarizzare con l’acqua. Diceva che respirare sott’acqua significava essere in modo diverso; la vita in mare aveva un suo tempo e Akiko si limitava a seguirne il ritmo. Era quasi immobile mentre cacciava, quasi nuda, come i pesci che le nuotavano intorno e le mangiavano la pelle morta dai polpacci.
La prima volta che mi portò a vedere le pescatrici subacquee avevo tre anni e non facevo molto oltre che mangiare la sabbia. Nella nostra famiglia di sole donne non ci si poteva sottrarre al battesimo dell’acqua, perciò quando Tetsuna, mia madre, mi aveva messo in braccio ad Akiko e le aveva detto che era il momento, lei non se l’era fatto ripetere.
Di quella giornata non ho alcun ricordo, ma ricordo tutte quelle che vennero dopo. La costa si popolava di donne, le più giovani di venti o trent’anni, le più anziane arrivavano oltre gli ottanta, tutte indossavano solo un perizoma e si lanciavano fra i cavalloni, nell’acqua gelida dell’oceano. Riemergevano vestite di alghe, con le ceste cariche, e ridevano. Akiko ne aveva quasi compiuti sessanta e ancora la sua agilità faceva invidia.
A sedici anni mi ritrovai a essere la più grande non ancora in età da immersione e, mentre Inata e Ame seguivano Akiko, io tenevo in braccio Ina. Seduta nella sabbia osservavo le loro schiene bianche venire su dall’acqua scura, stirarsi al sole; le sentivo fischiare e le vedevo sorridersi, testimoni dello stesso segreto.
A cena, mia madre e le mie zie cucinavano parte del pescato, di solito facevano qualche zuppa di granchio da accompagnare al riso; Akiko invece mangiava solo i ricci di mare, aperti con lo stesso coltello ricurvo con cui li aveva rimossi, e li ingoiava ancora crudi, che sapevano di sale.
Lei amava così tanto quel lavoro e quella vita, che continuò anche quando non serviva più. Inata e Ame smisero a neanche quarant’anni, io non iniziai mai e dove la spuma bagnava Akiko e i seni bianchi delle altre donne rimasero solo rocce, dure e nere. Eppure non ci facevo caso, finché Akiko sarebbe andata a pescare, nuda come al solito, finché i suoi capelli avrebbero fatto odore di alga marina, il resto sarebbe rimasto uguale.
Ma la malattia non potevamo immaginarla. Lei non ci diede modo neppure di sospettarlo. Aveva continuato a fare le cose come sempre, a riportare quei cesti di vimini, ad aprire i ricci col coltello e succhiarne l’interno, ma nessuna di noi andava più in spiaggia a vedere la sua schiena.
Il primo segno della malattia furono certe sfumature bluastre fra le scapole. Se ne accorse per prima zia Hana, che la scoprì nuda nella vasca, intenta a sbrogliarsi i nodi dai capelli. Seguirono visite mediche e trattamenti vari, nessuno si rivelò efficace perché le sfumature s’inspessirono, da acquerello divennero acrilico e tinsero tutta la schiena. Akiko però non sembrava lamentarsene e con noi si guardava bene dal fare qualunque commento riguardo al suo stato di salute. Metteva in pratica il più vecchio e caro insegnamento che le aveva lasciato il marito: “sei solo quello che senti di essere”. E lei era in salute, andava ancora a caccia di granchi.
Akiko aveva tenuto insieme la nostra famiglia. Quando gli uomini se n’erano andati e mia madre e le mie zie si erano sentite come colpite da una maledizione, condannate all’infelicità, Akiko aveva detto loro di tornare sulla costa e pescare. Aveva detto che solo le donne potevano farlo e che la ragione era semplice, aveva a che fare con la nostra natura: le donne sono duttili, la parte morbida e cedevole, il che non implicava, nella sapienza orientale, essere deboli, ma, al contrario, essere resilienti. La più forte era colei che piuttosto che resistere fino a spezzarsi, si piegava quel tanto che bastava per vincere. E quanto poteva essere difficile per un uomo imitare la lentezza dell’acqua, aspettare l’arrivo dei granchi, catturarli senza lasciarsi pizzicare, con mano decisa e presa leggera.
Akiko aveva insegnato a mia madre e le sue sorelle che non valeva la pena resistere al dolore, che bisognava accoglierlo, perché il dolore era come l’onda, e se un momento ti viene addosso quello dopo sta già ritirandosi. Questo l’aveva insegnato anche a me e alle mie cugine, che quando vedevamo i cavalloni piantavamo i piedi nella sabbia e ci coprivamo la faccia. Akiko ci sgridava, diceva che dovevamo immergerci, così l’acqua ci avrebbe fatto giocare con lei.
Mise in pratica i suoi insegnamenti nell’ultimo anno di vita. Non resistette alla malattia, la lasciò entrare convinta che, come l’onda, il mare se la sarebbe ripresa.
Aveva ottantaquattro anni e la schiena blu con chiazze celesti e viola, sembrava uno di quei granchi che a volte si vedevano sugli scogli, tanto più che ora vedevo il suo corpo raggrinzito cedere al peso degli anni e quelle pieghe mi ricordavano la mollezza degli abaloni.
L’ultimo dottore che interpellammo la visitò a lungo e Akiko continuava a prenderlo in giro, a chiamarlo per nome –Tako – e tirargli la cravatta.
Il signor Tako disse che mia nonna aveva un granchio nei polmoni. Poteva averlo preso durante una delle sue lunghe immersioni, lei sosteneva che le fosse entrato dall’orecchio sinistro che aveva sempre pieno d’acqua. Doveva essere molto piccolo all’inizio ma adesso era decisamente troppo grande per essere rimosso.
Mentre le sue figlie si disperavano, Akiko rideva con le mani sul petto, come nel tentativo di sentire quel suo granchio, ospite inatteso, zampettarle tra un polmone e l’altro. Disse che le pareva giusto, considerato che aveva passato più della metà della sua vita con i granchi, e li aveva cacciati e poi cotti, era quasi contenta che fossero di nuovo loro e non qualcos’altro, magari qualcosa d’ignoto.
Quando restammo sole disse: Bene, so come prenderli. (altro…)