scritture

Il tredicesimo apostolo

 
 
 
di Leonardo Dragoni

 
 
 

Stiamo perdendo il controllo della barca, non ce la faremo.
 
Il porto è sottovento, rientrare sarebbe un suicidio. Proseguiamo al gran lasco. Dopo aver preso due mani alla randa e aver sostituito il fiocco piccolo con la tormentina, bisognerà predisporsi al peggio.
 
Siamo in quattordici a bordo, ma non tutti utili. Alcuni sono zavorra, come me. Con una mano mi sorreggo a una cima e con l’altra preservo questo stupido berretto dalla furia del vento: che rimanga sulla testa mentre affogo. Ai miei piedi c’è un uomo: prega. Deve aver capito che soltanto un miracolo potrebbe salvarci. Di fronte a lui c’è un individuo intimorito, a cui le preghiere sembrano rivolte. È al centro di un gruppetto che pare voglia proteggerlo. Il tredicesimo apostolo
Nessuno grida. Se anche si spolmonassero, le loro parole giungerebbero appena oltre la trincea dei denti dove verrebbero cancellate dal vento. Uno di loro tocca l’uomo accovacciato al centro. L’altro lo implora a distanza. Un altro ancora gli guarda le spalle, finché, vinto dalla nausea, sporge la testa fuori dallo scafo e vomita potenti fiotti di acido. Due membri della ciurma sono seduti dietro il gruppetto centrale. Uno, a babordo, guarda terrorizzato le onde proseguire la loro corsa verso la costa. Il secondo è il timoniere. Si tormenta sulla pala per deviare il flusso d’acqua sotto lo scafo, nel disperato tentativo di continuare a cavalcare la marea. Adesso le onde sono mostruose, una diversa dall’altra, alcune lunghe altre ripide, in serie ravvicinate e poi isolate, a volte perfino incrociate.
 
Sulle nostre teste incombono nuvole scure e minacciose, ma all’orizzonte si intuisce il sereno.
 
Alle vele stanno in cinque, sferzati dalla bufera. Si dannano l’anima per ridurre le velature. Non basta più terzarolare, bisogna ammainare la randa e proseguire col solo fiocco. Basterà?
 
L’equipaggio e l’imbarcazione incassano continue bordate, l’albero e le sartie fischiano e ululano. Ci sono almeno trenta nodi. Forse quaranta. Le frustate d’acqua giungono da ogni lato, feroci. Le onde esplodono contro la carena frantumandosi in mille zampilli che il vento nebulizza e ci sputa in faccia. Il natante s’inclina oltre le proprie possibilità. Imbarca mare e terrore. La fine sembra imminente. Il cavallone che sta arrivando sarà quello fatale. Sento che ci afferra e ci lancia verso l’alto. Eccola, la fine. Chiudo gli occhi, in attesa d’essere investito dal fendente d’acqua e ingoiato dal mare.
 
***
 
Quando li riapro sono accecato dalla luce. Riverbera su un pavimento imbrattato da chiazze di colore. Qualche bottiglia di vino vuota sparsa sopra un cimitero di cicche, in mezzo alle quali vedo la mia tavolozza e i pennelli con le setole incrostate di vernici agli oli essenziali, i barattoli con intrugli di trementina, mastice, damar, copale e ambra. Non è l’aldilà, è il mio atelier.
 
Alzo lo sguardo ed ecco la tela. È completa. Cristo nella tempesta, sul mare di Galilea. Ci sono anche io, il tredicesimo apostolo.
 
Manca soltanto la firma.
 
Afferro il pennello più piccolo e intingo le setole nel nero: Rembrandt.

 
 
 

Leonardo Dragoni, romano classe 1974, una laurea in scienze politiche, due master. Ha pubblicato due romanzi (“La psicologia del viola”, 0111 Edizioni, 2015; “I figli dell’oblio”, Clown Bianco Edizioni, 2018 – quest’ultimo candidato al premio internazionale Lattes Grinzane). Collabora col sito letterario “Thriller Cafè” e con la rivista “Leggere:Tutti”. Scrive anche racconti. Alcuni si sono piazzati o hanno vinto dei contest online, altri sono stati pubblicati su riviste letterarie, cartacee e online (“Un pallore straordinario” su “Il diario del riccio” n.3; “La caverna” su “Il diario del riccio” n.4; “Il combattimento” su “Carie letterarie” n.11; “Ossa” su “Racconticon” e “Il male fatto” su “La nuova carne” entrambi nell’estate del 2021; “Come ogni Natale” sulla rivista “Offline” n.13, del 30 settembre 2021; “La combinazione del Peyote” sul magazine letterario “Smezziamo” nell’ottobre 2021; “Le ore doppie” sul numero 5 della rivista letteraria torinese “Madre” nel novembre 2021; “Basterebbe non essere mai nati”, sulla rivista “Piegàmi” n.2 del marzo 2022).

 
 
 

Illustrazione originale di Anna Cigoli.

 
 
 

Anna Cigoli nasce a Cremona il 20 settembre 1978.
Mossa dalla passione per il disegno e la pittura frequenta prima il liceo artistico B.Bembo di Cremona, l’accademia di Brera a Milano e successivamente, sempre a Milano, un corso di comunicazione e stampa artistica dove si specializza nell’incisione e lavora per un anno in una stamperia della città.
Dal 1999 ha partecipato a varie mostre personali e collettive principalmente nel cremonese e nel milanese esponendo anche in gallerie come “Il Triangolo” di Cremona e la “Fondazione Luciana Matalon” di Milano.
Principalmente attiva come pittrice e illustratrice, ha sperimentato anche altri campi come la scultura, il fumetto e l’incisione. Su Squadernauti è apparsa un’altra sua opera, si può trovare qui.

 
 
 

Tutto falso

 
 
 
 
di Ornella Zen
 
 
 
 

Tutto falsoFino a che punto si può ricercare la verità? Lui le chiede cosa pensa e lei non vuol dirlo e ci gira intorno e lui intuisce la nebbia che lo avvolge, le parole sfioccate come fossero ovatta a coprire e a distogliere, a confondere. Mentre lui alza la voce, con tono imperioso, incalzante, chiede, chiede, lei risponde piano ed elude le sue domande e quasi sussurra piano: d’un tratto la sua voce sottile come una frusta gli dice alcune parole dure, e lui incassa il colpo, deglutisce. Intanto lei pensa a un altro momento, fugge la memoria a un giorno d’autunno in cui presa dall’ira (o era qualcos’altro? ribellione, voglia di riscatto?) presa dall’ira scatenò la sua rabbia su uno stupido collega, per una banalissima frase già sentita troppe volte. Che poi lo strascico sarebbe diventato tutt’altro, e avrebbe preso una direzione imprevista e impensata (profumata e allettante? da scacciare?). Era stato come giocare di sponda al biliardo, ecco. C’erano degli occhi neri, così neri mai visti, e un fuoco dentro; ma era già tutto troppo. Che differenza c’è tra camminare in un corridoio e invece fuggire? Se si guarda prima chi c’è, e poi si sgattaiola a passo svelto, forse è una fuga. Il fine era sciogliere il tempo, evitare, eludere. Perché lì era il regno del pettegolezzo, e lei non avrebbe tollerato quest’onta bugiarda, da mentecatti, pronti a cogliere il riverbero d’uno sguardo, d’una parola eccedente. Il libro arrivò a sorpresa: piccolo e accattivante, consegnato da un usciere che sottolineò il mittente. Lei scandì un grazie polare. Lui ripeté, lei pure. I presenti osservavano questo misterioso duetto carico di tensione. Gli sguardi puntati, cercavano, invano, spiragli che dissipassero il mistero. Dopo che si fu allontanato l’usciere, lei ripose con apparente nonchalance il libro nella borsa. Le dita le bruciavano, ma tutto fu fatto con calma assoluta. Un’altra storia fu decidersi a iniziarne la lettura, e leggendo di concentrarsi sul testo. Poi, si ripromise di restituirlo. L’occasione propizia ci fu, a sorpresa: la colse al volo, estraendo dalla borsa il volumetto e rendendolo con tanti ringraziamenti e un piccolo commento critico. Tutto per far sbiadire l’effetto di dono, di affezione. Finirono per convenire che la prima parte era effettivamente eccellente, mentre la seconda, etc. Non c’era nient’altro che gli occhi, gli occhi nerissimi e quello spirito furente, quella rabbia che le ispirava la voglia di sedare, di placare, di addolcire. Doveva esserci un’ultima occasione di incontro, lei scelse con cura il look. Tuttavia, un’ora prima fu raggiunta da una chiamata che l’avvisava dell’anticipo: ed erano già tutti là. Arrivò in tempo per i saluti. Lui scelse il momento di accomiatarsi. (Quanto dura una stretta di mano? Più dell’eco delle parole?)
 
 
 
 

Ornella Zen docente di matematica in pensione, dal 1994 collabora con la Settimana Enigmistica per i giochi in versi e occasionalmente ha pubblicato su altre riviste enigmistiche, sempre componimenti in versi. Ha partecipato a concorsi letterari enigmistici con diversi racconti brevi. Su Squadernauti ha già pubblicato il racconto Mondi paralleli – Due coppie.
 
 
 
 
Illustrazione originale di Carlotta Mazzi.
 
 
 
 
Carlotta Mazzi (03/04/1992)
Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera dove ho conseguito il Diploma di II Livello in Grafica d’Arte. Oltre alla passione per la grafica e la stampa d’arte coltivo da anni l’interesse per l’illustrazione. Oggi parallelamente alla ricerca artistica personale sono occupata come docente di arte e grafica nella scuola secondaria di I e II grado. Alcune mie tavole sono apparse su Squadernauti, qui, qui, qui e qui.

 
 

Breve viaggio attraverso la valle

 
 
 
di Paola Marcolini

 
 
 

La tempesta fu imprevista e abbatté gran parte della foresta. Ma la vera morte ha iniziato ad avvinghiare il bosco e le creature che l’abitano solo due anni dopo: nato dai cadaveri degli alberi caduti, il bostrico ha avuto ben sette stagioni per prolificare e iniziare ad attaccare quelli vivi. Il bostrico tipografo, o bostrico dell’abete rosso, è un coleottero, e veste una lucente ed elegante corazza nera. A ricoprirlo ulteriormente, una pelliccia color dell’ambra.
 
La breve storia che sarà raccontata si svolge quindi a quasi due anni — equivalenti alle sette stagioni sopracitate — di distanza dalla tempesta, in un afoso giugno.Breve viaggio nella valle
 
Alle cinque di quel pomeriggio di inizio estate, il sole illuminava la valle tagliata per il lungo da un treno, treno che i più esperti avrebbero descritto come parallelo a una vena geologica.
 
Alle nove di quella sera il sole sarebbe rimasto, solo di riflesso, nella nuvola dorata sopra la collina est.
 
Dando tempo all’astro di compiere questo viaggio, una donna dallo sgargiante abito giallo ambra ne avrebbe compiuto uno lei stessa: quindi un viaggio di quattro ore, che si potrebbe dire breve, ma in base a quale parametro si stabilisce la brevità di un viaggio?
 
Fatte tali premesse, si può quindi iniziare il racconto.
 
Alle cinque di quel pomeriggio di giugno, il sole colpiva felice e la donna vestita di ambra coglieva tutto quello che c’era da cogliere dall’asfalto tiepido davanti alla bancarella: alcune fragole, un cespo di insalata e una arancia. Gli alimenti scaldati dal calore del terreno erano privi di attrattiva, ma l’arancia si salvava: la sua pelle butterata l’aveva protetta dal caldo. Caldo e afa, ogni tanto una breve brezza. Nel cielo una sola nuvola, che la donna notò alzandosi e pulendosi le ginocchia. Si sfilacciava allargandosi e i venti freddi che vi soffiavano nel mezzo erano lenti dalla Terra, pieni di attese.
 
Quella primavera, l’esemplare maschio di bostrico aveva scavato, scavato e scavato. Come risultato del suo lavorio, nella corteccia era apparso un foro che sembrava prodotto da un minuscolo proiettile: la segatura resinosa color arancio, cadaverico sangue dell’abete, era raggrumata ai bordi dell’apertura.
 
Prima di proseguire nel dedalo del mercato, la donna vestita di giallo ambra prese forza da un respiro intenso, rumoroso per chi le stava accanto. Uno sguardo furtivo si posò su di lei: un signore vestito di grigio e azzurro, le parve, le rimandava una rapida occhiata prima di voltarsi e proseguire.
 
Si allontanò consapevole di riempire oziosamente il tempo con problemi inesistenti: problemi come l’aver scelto un abito così sgargiante (ma aveva così caldo che non poteva immaginare di indossare altro), il non farsi vedere o notare troppo (ma una parte di lei voleva forse sfidare quegli sguardi che tanto temeva), il dover raccogliere velocemente ed essere furtiva: precauzioni che alla fine non sarebbero valse a nulla. Nonostante la speranza di salvarsi — speranza nutrita dal treno che l’attendeva — pensava che in fondo la sua fosse una sopravvivenza vana. Prima o poi l’avrebbero presa, e che differenza c’era poi tra l’essere presa un giorno oppure l’altro. Eppure, si disse, doveva prendere tutto, anche al solo scopo di poter poi perdere tutto.
 
Tastò la polpa del tronco, e decise (come solo il bostrico può decidere) che quello era il luogo adatto per costruire la camera nuziale. Muovendosi con precisione, creò un grande squarcio sotto la pelle dell’abete, ampio e caldo. Nella camera nuziale, il maschio si accoppiò con due femmine. Queste scavarono gallerie lunghe circa dieci centimetri e parallele all’asse del tronco, dove deposero l’una cinquantatré uova, l’altra settantuno.
 
La donna dal vestito giallo ambra aveva preso abbastanza per nutristi e vestirsi nei giorni che sarebbero seguiti. Si incamminò verso il treno. Aveva tutto. Aveva deciso come solo un umano può decidere. Un giorno come un altro la foresta sarebbe scomparsa, e con essa tutto.
 
Il bostrico tipografo scriveva con pazienza e cieca obbedienza alla propria natura, e nella pelle interna della corteccia tracciava, con la grazia delle necessità precise, corridoi che molti bambini ritenevano opera di alieni capaci di sacre scritture. Di cortecce così redatte ne era pieno il bosco.
 
La donna vestita di giallo camminava verso la stazione. Il vento si levò, e lei poté sentire con precisione, le parve addirittura ciascuno distintamente, gli aghi e le foglie colpirla. Era stanca, così stanca.
 
Il corpo avvinghiato nei riflessi ambra procedeva lento e stanco, sempre più lento e stanco, finché non si fermò per riposare, perché altro non poteva fare. Piegò le giunture, si accasciò.
 
Il treno era uscito dalla galleria giusto in tempo.
 
Il corpo si rilassò, le pareti strette intorno si sarebbero prese cura delle sue fatiche. Le pareti del cunicolo, le pareti del treno.
 
Effimera e prodiga di beatitudine, l’arancia il cui peso nella borsa era stato una promessa, una promessa durata l’intera giornata, rotolava brevemente sul tavolino davanti al sedile. La donna guardò fuori dal finestrino. Nel cielo che imbruniva c’era un’unica e solitaria nuvola, dorata e piena di attese.
 
Giunsero così le nove, e il sole rimase intrappolato nella nuvola sopra la collina est. La donna iniziò a incidere la buccia d’arancia con precisione.

 
 

Paola Marcolini Classe 1990, è nata e vive a Trento, dove lavora come editor. In passato si occupava, in un certo senso, di un altro tipo di editing: era assistente alla sceneggiatura e alla regia di Razi Mohebi, regista di origini afghane. Dopo aver accettato il fatto di avere la mente assediata da strane immagini — che sospetta racchiudano storie — ha deciso di confessare i suoi misfatti da prosatrice. I suoi racconti sono apparsi su Bomarscé, Clean, Micorrize e Inutile.

 
 
 

Illustrazione originale di Paola Marcolini.