letture

La gioia avvenire

 
 
 
 

La gioia avvenire di Stella Poli (Mondadori, 2023) pone un dilemma caro agli scrittori, parlando della necessità di confessare un trauma, denunciare un abuso: ha un valore curativo raccontare la propria ferita o è una fatica inutile, se non – peggio – un’esibizione vanitosa? “Le cose non andrebbero mai dette” (p. 9) è la prima frase del romanzo. “Una cosa raccontata è tracotante: esige, estorce, quasi” (ibid.).
 
L’abuso raccontato è una violenza sessuale ripetuta, subita dalla quattordicenne Nadia a opera di un conoscente del padre, un professionista stimato, credente, impegnato in politica. Il lettore ne apprende le circostanze e gli sviluppi attraverso le parole della ventitreenne Sara, psicologa, all’atto di denunciare l’accaduto a un giovane avvocato, nove anni dopo i fatti.
 
La gioia avvenireTroppo tardi, dice la legge.
 
Troppo tardi perché la denuncia andrebbe sporta prima possibile. “«[…] subito. O entro la finestra prevista» […] «Non l’ha detto a nessuno, per mesi. Ci sono dei meccanismi molto precisi di interiorizzazione della colpa. Temeva che riconoscessero lei come colpevole. Temeva l’accusassero. Mi disse che pensava che sua madre non le avrebbe più voluto bene, se avesse saputo»” (p. 35). Un pensiero infantile che rende palese il cortocircuito con la seconda motivazione del ritardo: a quattordici anni pare si sia già abbastanza adulti per rifiutare o per acconsentire. “La pianura è un rilievo fino a trecento metri. Tre-settecento: collina. Oltre: montagna. Lo ripetono anche in classe, in coro. […] E intanto che lei racconta io penso: ma a che serve che una collina a 710 metri sia una montagna? A 695 no? Ma chi l’ha stabilito? Ma a che serve saperlo, poi? […] Dove inizia, adulto? La collina attorno ai settecento? Come si misura, posto che esista, l’adultità? […] Come faccio a dimostrare che non ero adulta, che non volevo, che mi feriva?” (pp. 55-6).
 
Per comprendere la violenza non servono parametri biometrici come l’età, spiega la metafora della collina, serve empatia, ed è necessario mettere in discussione la propria prospettiva, le proprie convinzioni.
 
Non lo fa il responsabile della sezione minori, nominato solo così, come se non importasse di quale tribunale o di quale caserma. “Le disse che non aveva neppure idea delle storie che gli capitava di sentire tutti i giorni. Che avevano stuprato una bambina di quattro anni il giovedì prima, per dire” (p. 36).
 
Non lo fa il padre di Nadia, impegnato in una relazione extraconiugale con la moglie dello stimato professionista il quale, consapevole del tradimento, in un perfetto meccanismo narrativo pare prendere la ragazzina più per vendetta che per desiderio.
 
Nadia stessa è costretta ad ammettere di odiare un’altra paziente, Elena, vittima di abusi a tredici anni da parte dello zio. “Aveva un anno meno di me. Ha avuto un processo. Ha avuto un processo e lo butta via, così, e io, quando la vedo, penso solo al male che le vorrei fare” (p. 84).
 
La comunità riesce a stento a proteggere i membri più deboli e il corteggiamento dell’uomo procede apparentemente senza ostacoli: la madre non si accorge di nulla e il padre finge di ignorare oppure accusa la figlia di essere una puttana. Anche Nadia, in fondo, sembra oppone una resistenza quasi nulla alle avances. “Ma ha urlato? No. L’hanno picchiata? No. Ha mai detto «non voglio farlo»? No. Provava desiderio? Sì. Rispondeva a quei messaggi? Sì” (p. 72). Anche per questo sarà così difficile denunciare l’abuso. “«Diceva che sono stati due, i tentativi di denuncia. Il secondo quando? E perché non portato a termine? Bisogna capire perché deraglino, prima di preparare nuovi binari»” (p. 53).
 
Ma con altrettanta difficoltà la società cerca di porre rimedio ai traumi, sperimentando cure psichiatriche che rischiano di sfociare nella coercizione. “[Elena, ndr] è un caso complesso. I farmaci smorzano l’aggressività, ma sembrano non intaccare la paranoia. La terapia è quasi incagliata. Elena scrive post sempre più confusi contro gli abusi di un sistema carcerario-psichiatrico” (p. 50).
 
La gioia avvenire è un romanzo sulla consapevolezza e sul consenso, sui rapporti di forza (adulto/minorenne, uomo/donna, psicologa/paziente), sull’arbitrarietà delle norme, sulla loro inevitabile fallibilità e sulla via per elaborare un trauma raccontandolo, scritto con uno stile diretto e a volte scomodo. “Rifiutavo gli psicofarmaci che prescrivevo giornalmente, quelli che avrei potuto prendere in reparto e nessuno se ne sarebbe accorto, quelli che avrei potuto timbrarmi le ricette, i campioncini dei rappresentanti, pure quelli coi nomi evocativi, e la ritrovarono nella sua villa a Santa Monica” (p. 91).
 
 
P.s.: nel 2020 è uscito su questo blog un racconto di Stella Poli intitolato “Riconosciuta”. È molto bello. Lo trovate qui.


 
 
(Giovanni Locatelli)
 
 

Cuori in piena

 
 
 
 

Con Cuori in piena, uscito per Mondadori nel marzo 2023, Alessio Torino torna a raccontare una vicenda che ha per protagonista, e io narrante, il dodicenne Corsi. Di cui si ignora il nome di battesimo ma non la coppia di amici fidati, Achille Spada e Giorgio Angradi.

I tre avevano già popolato le pagine di Tetano, seconda prova narrativa di Torino (minimum fax 2011, riproposto negli Oscar Mondadori una settimana prima dell’uscita di Cuori in piena).

Ci troviamo nuovamente nel paesino immaginario di Pieve Lanterna, nell’Appennino umbro-marchigiano. È l’estate del 1987.

L’anno precedente, tuffandosi dalle Caldare, è morto Andrea Gori, figlio di Arcangelo, amico sin dall’infanzia di Sebastiano Corsi, padre del protagonista.

Turbato dalla disgrazia, Sebastiano strappa al figlio – non senza fatica – un giuramento: il ragazzo eviterà di tuffarsi dal medesimo luogo in cui ha perso la vita Andrea.

Non a caso il romanzo di Alessio Torino comincia con un patto simbolico tra un proponente adulto e un (poco convinto) sottoscrittore adolescente. Cuori in piena narra infatti del rapporto tra l’adolescenza e l’adultità, non solo in senso generazionale, ma anche come abbandono progressivo di un’emotività ingenua, friabile, talvolta smossa ma più spesso tutelata dalle figure familiari.Torino_Cuori in piena

Per quanto riguarda il confronto con gli adulti, Corsi riveste quasi esclusivamente il ruolo di spettatore. Il ragazzo apprende dalla saggezza della nonna, accetta (quando non subisce) l’atteggiamento cauteloso di suo padre. Mentre al cospetto di quelli di Giorgio e Achille – rozzi, ottusi e violenti più per necessità ambientale che per indole – conosce il disincanto della maturità.

Specie quando Asha, il cane della famiglia Angradi, sarà avvelenato con la metaldeide, e i sospetti ricadranno su Arcangelo Gori, votato a una solitudine non priva di gesti eccentrici dopo la perdita del figlio.

Corsi, per non rischiare di essere travolto dall’incomprensibile aggressività dei padri dei suoi amici, li derubrica a provinciali, appropriandosi delle parole del proprio genitore: “Era proprio questo che mio padre non sopportava. Quel radicarsi in una sedia del bar che diventava l’unico punto di osservazione del mondo, quell’arringare che lui considerava l’assurda saccenza di persone che si smarrivano a Termini come bambini nel bosco delle favole” (p. 42).

Ma il passaggio dalla fanciullezza ai misteri e alle ombre dell’età adulta, dicevamo, avviene anche per mezzo delle esperienze personali del trio di ragazzi. Le cui innocenti avventure in BMX vengono sbaragliate dall’arrivo a Pieve Lanterna delle cugine belghe Federica e Céline (della quale Corsi si invaghirà). Il corteggiamento dei tre amici avrà come antagonista Brat, appartenente a una famiglia di giostrai, chiamati con disprezzo zingari.

In entrambe le direzioni – quella verticale del confronto con i padri, quella orizzontale delle relazioni con le ragazze e i giostrai – Corsi, Spada e Angradi alterneranno audacia e vigliaccheria, solidarietà fraterna ed egoismo. Si tratta pur sempre di tre dodicenni, che stanno prendendo le misure di sé e quelle del mondo. Che sono affascinati e intimoriti dall’universo dei grandi, di cui mimano modi e linguaggio nella speranza di decifrarlo ancor prima di accedervi.

Ma sono ragazzini: “Sapevo perché Giorgio era corso via. Gli era presa la stessa paura che aveva preso me sotto la pergola. Lui – di gran lunga il ragazzo più coraggioso che conoscessi – soltanto ad avvertire, tramite me, la presenza di Arcangelo Gori si era come rimpicciolito” (p. 98).

E la grande amicizia che, nonostante le profonde differenze di temperamento, tiene saldo il trio, è un tacito patto, è l’ingenuo tentativo di avvicinarsi assieme a un’età della vita in cui la speranza si trasforma progressivamente in amarezza, e l’amarezza in crudeltà verso se stessi e gli altri: “Era un sorriso di gratitudine. Perché, anche se non eravamo più bambini, ci eravamo appena casualmente dati la mano in questo mondo dove la paura è così grande che anche a scendere, scendere, scendere, non si tocca mai il fondale” (p. 262).

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

La parte di Guermantes

 
 
 
 

L’architettura della Recherche ha tempi di costruzione lunghi e in La parte di Guermantes, terzo volume dell’opera, la maestosità dei ricevimenti mondani si dispiega nella sua più snobistica arditezza.
A proposito di snobismo, va segnalata – nella bella nota introduttiva di Luciano De Maria (Oscar Grandi Classici, 1995) – un’analisi di Theodor W. Adorno che ben si attaglia agli innamoramenti dell’io narrante. Poiché “lo snob erotizza la società” (p. XI) e, nella fattispecie, il blasone, è l’allure di nascita a indirizzare il desiderio su Oriane (la Duchessa di Guermantes) e a farne uno schermo per il nuovo ciclo di proiezioni amorose.La parte di Guermantes

È pur vero che l’aristocrazia descritta da Proust non risulta essere un ceto omogeneo. Ci sono per esempio i nobili dell’esclusivo Faubourg Saint Germain – l’Ancien régime – e quelli creati da Napoleone; ci sono illustri famiglie che hanno saputo conservarsi nei secoli e altre che hanno inquinato il ceppo con scombinatissimi matrimoni borghesi.
I Guermantes – lo si è appreso in Dalla parte di Swann – sono la quintessenza dell’aristocrazia di Francia, il Nome per antonomasia. Ricordiamo la lampada magica con Genoveffa di Bramante, antenata della Duchessa, e feudi, castelli, vetrate di cattedrali che rievocano la storia della prestigiosa discendenza.

Ora, i tentativi di avvicinamento sono incessanti e, in apparenza, favoriti dalla sorte: la famiglia dell’io narrante, proprio in apertura, si trasferisce in un’ala di Palazzo Guermantes; e la nuova residenza diventa l’osservatorio di una fissazione, con Oriane che, ogni mattina, attraversa il cortile:
“nel mitologico oblio della sua grandezza nativa, controllava che la sua veletta fosse ben tesa, spianava le pieghe delle maniche, s’aggiustava il mantello, così come il cigno divino esegue tutti i movimenti della sua specie animale […] dimenticando d’essere un dio.” (p. 30)

Va da sé: un’enfasi così smaccata è destinata a scontrarsi con la realtà feriale. Il fascino leggendario dei nomi e la solennità dei titoli si dissolvono al cospetto di personaggi che, spesso, non eccellono per acume né per erudizione (tutto scade in motti di spirito e malignità salottiere).
A tal riguardo, il narratore della Recherche ostenta consapevolezza, sembra preparato alla delusione. Eppure, lo snobismo si rivela un’esperienza estetica. Non si può negare che il primo fastoso episodio di questo terzo volume, la serata all’Opéra, elevi ulteriormente il registro della narrazione. Sono pagine in cui il miracolo della scrittura proustiana, nella semioscurità dei palchi, si fa presto cascata di visioni, con sirene e tritoni che, deificati dalla loro stessa araldica, si stagliano in scintillanti ologrammi destinati a svanire sul proscenio della concretezza storica.
Dame, dee marine, che emergono da una barcaccia:
“occhi intagliati in un diamante reso allora fluido dall’intesa […], mentre quando erano a riposo, ridotti alla pura materialità della loro bellezza, al loro semplice fulgore minerale, bastava che un minimo riflesso li facesse oscillare lievemente perché incendiassero la profondità della platea con fuochi orizzontali, splendidi e disumani.” (p. 47)
(altro…)

L’invenzione di Morel

 
 
 
 

Per sfuggire a una condanna ed evitare il carcere, un uomo il cui nome ci è sconosciuto si rifugia su un’isola malsana creduta disabitata. Qui, restando sempre nascosto come si addice a un fuggitivo, trascorre il tempo cercando di sopravvivere all’inclemenza della natura e osservando i misteriosi abitanti del luogo. Nell’impossibilità di interagire con essi per paura di venire catturato, proverà a capire chi siano e a spiegarne gli strani comportamenti.

È difficile dire altro riguardo L’invenzione di Morel, di certo il più conosciuto tra i romanzi di Adolfo Bioy Casares, senza rischiare di svelare troppo di una storia nella quale gli avvenimenti hanno valore trascurabile perché tutto si gioca su un sospetto che, pagina dopo pagina, diventerà certezza capace di scardinare nel lettore ogni punto fermo.

L'invenzione di Morel

Jorge Luis Borges, nel prologo all’opera dell’amico e collaboratore, la definì un esempio perfetto di romanzo d’avventura, rinvenendo in essa tutti gli elementi tipici del genere (l’intreccio, la tensione crescente con l’avvicinarsi del momento topico, le incursioni del fantastico) e cogliendo così l’occasione per esaltare tale forma narrativa in contrapposizione al romanzo psicologico ritenuto antiquato. Ce ne dà conto la traduttrice Francesca Lazzarato, nella postfazione al volume da lei curato per Sur e uscito nel 2017.

Sorprende, come fa notare Lazzarato, che ciò accada in riferimento a un’opera nella quale gli avvenimenti sono limitati a un continuo ripetersi di gesti, e le dinamiche umane (la paura, la solitudine, persino l’amore) giungono al lettore per deduzione, come mero presagio, in un non luogo che è esso stesso solo una spoglia riproduzione del mondo reale, popolata da ombre relegate in un perenne presente che vorrebbe ambire all’eternità ma finisce per concretizzarsi in una sua deludente e precaria imitazione.

Lo stesso protagonista, ora in fuga anche dalla solitudine, da semplice osservatore diventa attore in un surrogato che dell’esistenza ha soltanto le sembianze, intrappolato in una dimensione nella quale quella solitudine a cui cercava rimedio è destinata a perpetrarsi immutabile per un indeterminato tempo individuale.

La forza del romanzo dello scrittore argentino, pubblicato per la prima volta nel 1940 e ancora oggi attuale e modernissimo (si pensi, per esempio, alle riflessioni e inquietudini che scaturiscono dall’avvento del metaverso o dai progressi compiuti dall’intelligenza artificiale), risiede anche e soprattutto nella capacità di affidare a chi legge il compito di indagare le tracce che l’autore ha disseminato tra le pagine, non alla ricerca di una morale o di una interpretazione univoca e definitiva, bensì degli interrogativi che possano dare un senso all’opera. In tal modo il destino dei personaggi (e delle ombre) narrati da Bioy Casares e quello del lettore arrivano a sovrapporsi nel vano tentativo di raggiungere la consapevolezza di sé e della realtà, contestualizzandola in un tempo che appartenga loro e possa essere non certo governato ma almeno vissuto.

E in fin dei conti potrebbe essere proprio questa l’invenzione di Adolfo Bioy Casares: condurci al cospetto degli inesplicabili quesiti fondamentali cosicché, nel cercare delle risposte, possiamo affermare la nostra esistenza e cimentarci con quanto di più prossimo all’immortalità ci sia dato di sperimentare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

L’ottava vita

 
 
 
 

Se Jorge Luis Borges fosse vivo, forse direbbe che il libro di cui ci occuperemo in queste righe è un romanzo russo dell’Ottocento scritto per caso in lingua tedesca da un’autrice georgiana con quasi due secoli di ritardo.

Il volume in questione è L’ottava vita (per Brilka), composto da Nino Haratischwili e pubblicato in Italia da Marsilio nel giugno del 2020 (traduzione di Giovanna Agabio).

La vastità della trama è tale da rendere necessaria una sintesi brutale: è la storia della famiglia georgiana Jashi attraverso otto donne, ciascuna delle quali dà il proprio nome a un capitolo dell’opera.

Dopo una breve prefazione ambientata nel 2006, le oltre millecento pagine de L’ottava vita abbracciano un periodo di tempo che va dal 1917 al 2007. Voce narrante della saga Haratischwili_L'ottava vitafamiliare è la settima delle otto donne, Niza, la quale si rivolge alla nipote, la dodicenne Brilka, titolare dell’ultimo capitolo (composto unicamente da pagine bianche).

La cornice del libro, che corrisponde al suo elemento più debole, è rappresentata da una prodigiosa cioccolata calda la cui ricetta viene tramandata dagli Jashi di generazione in generazione. E che può procurare a chi la assaggia sommi godimenti estetici ma anche terribili sciagure.

Al di là di questo leitmotiv che, quando appare, incrina il realismo della narrazione, L’ottava vita è semmai un romanzo per così dire doppiamente vivido. Perché presenta al lettore le vicende intime di una famiglia, e le intreccia con le grandi vicende della storia. Che nel caso di un Paese come la Georgia è quasi sempre stata – dalla Rivoluzione di ottobre alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e oltre – un riflesso della (se non una reazione alla) storia della Russia.

Ne L’ottava vita – proprio come nei grandi romanzi russi – i sentimenti traboccano, e gli accadimenti raccontati finiscono per coinvolgere l’intera gamma delle principali emozioni umane.

Gli appartenenti alla famiglia Jashi, peraltro, aderiscono fino alla pervicacia ciascuno a uno specifico temperamento. Nonostante la vita li chiami a scartare dalla propria indole: “[Ida] con Kostja proprio non poté fare a meno di ricominciare a sperare, ma contro la sua volontà, senza alcuna intenzione, senza averlo voluto. Perché fino ad allora la disperazione era stata l’unica costante nella sua vita, e l’idea di sfuggire a questa costante le faceva paura, credeva che sperare ancora in un’altra vita potesse diventare molto pericoloso” (p. 227).

Altrove è la storia stessa (quella a cui talvolta si attribuisce l’iniziale maiuscola) a ostacolare le storie private degli Jashi. Come nel caso di Kitty, cantante trasferitasi in Cecoslovacchia per motivi di opportunità politica, che starebbe per rincontrare la propria madre proprio nei giorni della Primavera di Praga: “Centinaia di migliaia di soldati pronti a marciare contro il desiderio di una vita diversa. Centinaia di migliaia di soldati contro un paese. Un intero esercito per impedirle di incontrare sua madre”, p. 569.

In fondo L’ottava vita è anche un notevole ragionamento sulla peculiarità dell’esistenza, univoca e irripetibile per ciascuno, ma sovrapponibile l’una alle altre nello strenuo tentativo – comune a tutti – di trovare un senso ultimo, o un esorcismo che preservi dalla fine. Qui, in una delle pagine conclusive del romanzo, Niza parla di Brilka: “E in quelle sue fissazioni apparentemente irrazionali imparai a riconoscere un disegno razionale: quei piccoli trucchi le permettevano di affrontare il quotidiano e la proteggevano da una minaccia permanente, forse immaginaria – che non era altro che la morte. Con quei piccoli gesti pensava di poter allontanare la morte, di poterla raggirare” (p. 1101).

Libro ambiziosissimo, maestoso nell’architettura e capace di restituire psicologie (ed evoluzioni psicologiche) sorprendenti eppure credibili, oltre che scene drammatiche di grande efficacia, L’ottava vita impressiona all’idea che esso sia stato scritto da un’autrice trentenne.

Impressiona e rincuora, dimostrando come oggi il romanzo-romanzo, che poggia su una visione complessa, organica e matura della vita, sia ancora possibile.

 

(Claudio Bagnasco)