Autore: Gianni Usai

Tutto falso

 
 
 
 
di Ornella Zen
 
 
 
 

Tutto falsoFino a che punto si può ricercare la verità? Lui le chiede cosa pensa e lei non vuol dirlo e ci gira intorno e lui intuisce la nebbia che lo avvolge, le parole sfioccate come fossero ovatta a coprire e a distogliere, a confondere. Mentre lui alza la voce, con tono imperioso, incalzante, chiede, chiede, lei risponde piano ed elude le sue domande e quasi sussurra piano: d’un tratto la sua voce sottile come una frusta gli dice alcune parole dure, e lui incassa il colpo, deglutisce. Intanto lei pensa a un altro momento, fugge la memoria a un giorno d’autunno in cui presa dall’ira (o era qualcos’altro? ribellione, voglia di riscatto?) presa dall’ira scatenò la sua rabbia su uno stupido collega, per una banalissima frase già sentita troppe volte. Che poi lo strascico sarebbe diventato tutt’altro, e avrebbe preso una direzione imprevista e impensata (profumata e allettante? da scacciare?). Era stato come giocare di sponda al biliardo, ecco. C’erano degli occhi neri, così neri mai visti, e un fuoco dentro; ma era già tutto troppo. Che differenza c’è tra camminare in un corridoio e invece fuggire? Se si guarda prima chi c’è, e poi si sgattaiola a passo svelto, forse è una fuga. Il fine era sciogliere il tempo, evitare, eludere. Perché lì era il regno del pettegolezzo, e lei non avrebbe tollerato quest’onta bugiarda, da mentecatti, pronti a cogliere il riverbero d’uno sguardo, d’una parola eccedente. Il libro arrivò a sorpresa: piccolo e accattivante, consegnato da un usciere che sottolineò il mittente. Lei scandì un grazie polare. Lui ripeté, lei pure. I presenti osservavano questo misterioso duetto carico di tensione. Gli sguardi puntati, cercavano, invano, spiragli che dissipassero il mistero. Dopo che si fu allontanato l’usciere, lei ripose con apparente nonchalance il libro nella borsa. Le dita le bruciavano, ma tutto fu fatto con calma assoluta. Un’altra storia fu decidersi a iniziarne la lettura, e leggendo di concentrarsi sul testo. Poi, si ripromise di restituirlo. L’occasione propizia ci fu, a sorpresa: la colse al volo, estraendo dalla borsa il volumetto e rendendolo con tanti ringraziamenti e un piccolo commento critico. Tutto per far sbiadire l’effetto di dono, di affezione. Finirono per convenire che la prima parte era effettivamente eccellente, mentre la seconda, etc. Non c’era nient’altro che gli occhi, gli occhi nerissimi e quello spirito furente, quella rabbia che le ispirava la voglia di sedare, di placare, di addolcire. Doveva esserci un’ultima occasione di incontro, lei scelse con cura il look. Tuttavia, un’ora prima fu raggiunta da una chiamata che l’avvisava dell’anticipo: ed erano già tutti là. Arrivò in tempo per i saluti. Lui scelse il momento di accomiatarsi. (Quanto dura una stretta di mano? Più dell’eco delle parole?)
 
 
 
 

Ornella Zen docente di matematica in pensione, dal 1994 collabora con la Settimana Enigmistica per i giochi in versi e occasionalmente ha pubblicato su altre riviste enigmistiche, sempre componimenti in versi. Ha partecipato a concorsi letterari enigmistici con diversi racconti brevi. Su Squadernauti ha già pubblicato il racconto Mondi paralleli – Due coppie.
 
 
 
 
Illustrazione originale di Carlotta Mazzi.
 
 
 
 
Carlotta Mazzi (03/04/1992)
Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera dove ho conseguito il Diploma di II Livello in Grafica d’Arte. Oltre alla passione per la grafica e la stampa d’arte coltivo da anni l’interesse per l’illustrazione. Oggi parallelamente alla ricerca artistica personale sono occupata come docente di arte e grafica nella scuola secondaria di I e II grado. Alcune mie tavole sono apparse su Squadernauti, qui, qui, qui e qui.

 
 

L’invenzione di Morel

 
 
 
 

Per sfuggire a una condanna ed evitare il carcere, un uomo il cui nome ci è sconosciuto si rifugia su un’isola malsana creduta disabitata. Qui, restando sempre nascosto come si addice a un fuggitivo, trascorre il tempo cercando di sopravvivere all’inclemenza della natura e osservando i misteriosi abitanti del luogo. Nell’impossibilità di interagire con essi per paura di venire catturato, proverà a capire chi siano e a spiegarne gli strani comportamenti.

È difficile dire altro riguardo L’invenzione di Morel, di certo il più conosciuto tra i romanzi di Adolfo Bioy Casares, senza rischiare di svelare troppo di una storia nella quale gli avvenimenti hanno valore trascurabile perché tutto si gioca su un sospetto che, pagina dopo pagina, diventerà certezza capace di scardinare nel lettore ogni punto fermo.

L'invenzione di Morel

Jorge Luis Borges, nel prologo all’opera dell’amico e collaboratore, la definì un esempio perfetto di romanzo d’avventura, rinvenendo in essa tutti gli elementi tipici del genere (l’intreccio, la tensione crescente con l’avvicinarsi del momento topico, le incursioni del fantastico) e cogliendo così l’occasione per esaltare tale forma narrativa in contrapposizione al romanzo psicologico ritenuto antiquato. Ce ne dà conto la traduttrice Francesca Lazzarato, nella postfazione al volume da lei curato per Sur e uscito nel 2017.

Sorprende, come fa notare Lazzarato, che ciò accada in riferimento a un’opera nella quale gli avvenimenti sono limitati a un continuo ripetersi di gesti, e le dinamiche umane (la paura, la solitudine, persino l’amore) giungono al lettore per deduzione, come mero presagio, in un non luogo che è esso stesso solo una spoglia riproduzione del mondo reale, popolata da ombre relegate in un perenne presente che vorrebbe ambire all’eternità ma finisce per concretizzarsi in una sua deludente e precaria imitazione.

Lo stesso protagonista, ora in fuga anche dalla solitudine, da semplice osservatore diventa attore in un surrogato che dell’esistenza ha soltanto le sembianze, intrappolato in una dimensione nella quale quella solitudine a cui cercava rimedio è destinata a perpetrarsi immutabile per un indeterminato tempo individuale.

La forza del romanzo dello scrittore argentino, pubblicato per la prima volta nel 1940 e ancora oggi attuale e modernissimo (si pensi, per esempio, alle riflessioni e inquietudini che scaturiscono dall’avvento del metaverso o dai progressi compiuti dall’intelligenza artificiale), risiede anche e soprattutto nella capacità di affidare a chi legge il compito di indagare le tracce che l’autore ha disseminato tra le pagine, non alla ricerca di una morale o di una interpretazione univoca e definitiva, bensì degli interrogativi che possano dare un senso all’opera. In tal modo il destino dei personaggi (e delle ombre) narrati da Bioy Casares e quello del lettore arrivano a sovrapporsi nel vano tentativo di raggiungere la consapevolezza di sé e della realtà, contestualizzandola in un tempo che appartenga loro e possa essere non certo governato ma almeno vissuto.

E in fin dei conti potrebbe essere proprio questa l’invenzione di Adolfo Bioy Casares: condurci al cospetto degli inesplicabili quesiti fondamentali cosicché, nel cercare delle risposte, possiamo affermare la nostra esistenza e cimentarci con quanto di più prossimo all’immortalità ci sia dato di sperimentare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

L’uomo duplicato

 
 
 
 

«L’unica scoperta importante, che credo non riusciremo mai a fare, è quella di noi stessi». Parlava così José Saramago, nel marzo del 2001, in un’intervista televisiva rilasciata al giornalista Luciano Minerva. E poi aggiungeva: «Scrivo per comprendere, senza avere la certezza di aver compreso».

È difficile non interpretare le parole dello scrittore portoghese, all’epoca settantottenne, come una dichiarazione di intenti relativa al romanzo che sarebbe uscito l’anno seguente, L’uomo duplicato, edito in Italia nel 2003 da Einaudi, nella traduzione di Rita Desti. La prima edizione nell’Universale Economica di Feltrinelli è, invece, del 2010.

Inevitabile pensare che lo stravolgimento emotivo e psichico che si trovano a fronteggiare Tertuliano Máximo Afonso (insegnante di scuola media) e Daniel Santa-Clara (nome d’arte dell’attore Antonio Claro), dopo aver scoperto l’uno nell’altro non il proprio sosia ma una copia perfetta di sé, sia per Saramago un espediente letterario attraverso il quale indagare le dinamiche di quel percorso di auto-scoperta destinato a restare in parte disatteso ma al quale nessuno si può sottrarre.

L'uomo duplicato

È significativo come tutto abbia inizio davanti allo schermo di un televisore, il non luogo in cui per decenni, prima del tempo di Internet ovunque e dei social network, una consistente porzione di umanità si è specchiata percependo un’immagine distorta di sé che poi si è riverberata nella società. Lì, Tertuliano si riconosce nei panni di un impiegato d’albergo in un film di terz’ordine: “Sono io, disse, e di nuovo sentì che i peli del corpo gli si rizzavano, non era vero, non poteva essere vero, qualsiasi persona equilibrata […] lo avrebbe tranquillizzato. […] Le persone equilibrate sono così, hanno l’abitudine di semplificare tutto” (p. 23).

Ma gli equilibri che governano la vita di Tertuliano sono destinati a essere scompaginati dalla scoperta appena fatta e da quel momento niente nella sua esistenza, come in quella del suo alter ego, potrà essere più definito semplice. L’insegnante di storia, annoiato e rassegnato a una vita alienante scandita dalla monotonia di riti quotidiani codificati fino alla meccanicità, e l’attore frustrato da una carriera mai decollata si incontreranno, e nel riconoscersi identici nell’aspetto, persino nella voce, e allo stesso tempo tanto diversi, soccomberanno al desiderio di indagare quel doppio impossibile eppure reale, alla ricerca delle radici dei propri fallimenti e della frazione sommersa della loro anima, quella su cui non avevano prima di allora osato posare lo sguardo. E se il viaggio per Saramago è metafora di scoperta e conoscenza mai del tutto compiuta, per i protagonisti si tratterà di un percorso senza possibilità di ritorno. Le rispettive esistenze, fin lì spese lungo traiettorie parallele e distanti, collideranno per poi intrecciarsi al punto da non poter essere più in alcun modo districabili. Perché, una volta persa l’illusione dell’unicità, questa non può più essere riconquistata. E dopo avere sperimentato quanto siano profonde le voragini e le contraddizioni che si annidano in noi, non c’è più concesso ignorarle.

Il romanzo del premio Nobel è opera letteraria che si offre al lettore concedendogli ampi spazi interpretativi. Probabilmente anche per questo nel 2013 il regista e sceneggiatore canadese Denis Villeneuve è riuscito ad avvicinarsi alla medesima tensione e intensità, interamente giocate sulla ricerca introspettiva dei due personaggi principali, con un film che, a parte il titolo (Enemy), segue abbastanza fedelmente la storia originale per poi discostarsene con una libertà eccessiva proprio nell’ultima scena. Ci sono però dei punti fermi imprescindibili nel lavoro di Saramago: una radicalità consapevole e mai rassegnata nel guardare al destino dell’individuo, e di conseguenza all’intera società; e il dubbio come dogma e propellente indispensabile per continuare a sentirsi vivi.

In letteratura i temi inediti sono una chimera più che una rarità, e quello del doppio ricorre sin dall’epoca classica, al punto da poter essere considerato un archetipo. E dunque, dove risiede la peculiarità dell’approccio che ci viene proposto da Saramago in questo suo romanzo? Per rispondere dobbiamo tornare alle parole dalle quali siamo partiti. La comprensione di noi stessi è l’unica di cui abbiamo davvero bisogno, e sebbene ne siamo consapevoli e ad essa irrimediabilmente tendiamo, non siamo fatti per raggiungerla né tantomeno tollerarla.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Nostalgie della Terra

 
 
 
 

«Proveniamo dalla grande isola che non ha nome, […] sputati sulle rive di rena conchilifera nel Villaggio Pescatori, là dove il mare si quieta e diventa laguna» (p. 13). Si prova un sorprendente senso di familiarità nel confrontarsi con la prosa di Mauro Tetti, nel leggere le storie, i personaggi e i luoghi raccontati nelle pagine di Nostalgie della Terra, il nuovo romanzo dello scrittore oristanese uscito nel 2021 per Italo Svevo, raro tentativo italiano di letteratura ergodica, esito del fortunato incontro tra la veste grafica ed estetica della casa editrice triestina (solita proporre al lettore i suoi volumi con le pagine intonse) e le intuizioni coraggiose dell’autore che sceglie di mantenere nel testo, barrate, alcune parti cassate in fase di editing. Il genere di familiarità inconscia e acquisita che si avverte in certi sogni, e allo stesso tempo rassicurante come accade nei luoghi che ci appartengono in misura più intima.

Nostalgie della Terra

Il viaggio attraverso il quale ci conduce Tetti si dipana in una dimensione sospesa, e contesa, tra l’onirico e la realtà, in un “delirio della tempesta. Della vita o della morte. Della vita tanto vicina alla morte” (p. 89) nel quale spazio e tempo sono “deformati”, perché “Quando non sei niente il tempo non è più […] in un millesimo di secondo il mondo potrebbe cadere, in una manciata di giorni sarà passato lo stesso tempo utile ai vivi per vedere l’ingresso di Andromeda nella Via Lattea” (p. 88).

Un non tempo e un non luogo, che sono tutto il tempo e ogni luogo, popolati da spettri, ombre, proiezioni della mente obnubilata del protagonista, anch’egli senza nome. L’uomo lascerà il natale Villaggio Pescatori prima diretto a Cagliari, la città verso la quale i bambini sulla spiaggia di Giorgino edificano ponti immaginari per colmare una distanza che è già metafora delle aberrazioni che lo attendono lungo il suo itinerario, per ritrovare la sua Naira, inseguendo il ricordo di un incontro che potrebbe non essere mai accaduto. Trovata la donna che aveva sognato e idealizzato per anni, presto la abbandonerà, imbarcandosi su “un vecchio peschereccio portoghese a cui era stato dato il nome di un’isola” (p. 71), con una ciurma di marinai e cercatori di fortune, reali quanto un moto di ribellione dell’inconscio che si palesa. Partiranno alla ricerca di un magico oggetto dai poteri strabilianti, seguendo le tracce sui diari e le mappe lasciate da Maddalena, la vecchia dai “segni d’inchiostro che cambiano forma […], seguono la via delle clavicole e scendono sui seni, si dividono per le braccia in ogni direzione per tornare indietro e incontrarsi tra le scapole” (p. 16).

I personaggi raccontati da Tetti provengono da un immaginario che attinge alla mitologia mediterranea, a leggende, superstizioni e credenze popolari sarde — ma verrebbe da dire universali — mescolando fantasia e lucido vaneggiamento. E come spesso accade nei grandi miti del passato o tra le pagine degli scrittori che lo hanno preceduto in un analogo visionario approccio alla scrittura (ci vengono in mente Borges, a cui il titolo stesso rende omaggio citando un suo saggio sul tempo, il Marquez di Cent’anni di solitudine, o il Sergio Atzeni di Passavamo sulla terra leggeri e Il quinto passo è l’addio, che a tratti pare quasi di scorgere oltre i bastioni in pietra sbiancata della città murata), personaggi e luoghi finiscono per fondersi in un solo nome, in una sola immagine: “L’arcipelago ha terramare di conchiglia e sabbia, per molte e molte miglia. Costiere di sabbie dolci e colorate […]. Non abbiamo fretta e il pescato è sempre abbondante, non viene mai sprecato. Qualcheduno prende a chiamarlo col mio nome, l’arcipelago di Maddalena, è una sciagura, dico io” (p. 163).

Ma quegli stessi luoghi, tappe di un viaggio che potrebbe dipanarsi nell’immobilità dinamica di un’allucinazione, vedono la loro aura mitica violata, inquinata dall’impronta oscena della degradazione umana. E se “Un tempo le anse dell’isola [di Malu Entu] dovevano essere cave di quarzite” (p. 92), nel presente indeterminato di Nostalgie della terra “Nell’acqua melmosa galleggiavano le trappole: plastica, buste nere per i rifiuti, reti ingannatrici, frammenti affilati nella pelle umida dei rettili” (ibid.). E ancora: “L’arcipelago [di Maddalena] subiva una volta all’anno un potente cataclisma, […] tali cataclismi erano causati dalle bombe all’uranio sganciate durante le esercitazioni militari al largo del Tirreno. […] E di veleni erano piene le acque e i terreni pure, perché proprio quando gli spargitori credevano di rendere fertili terre e mari col proprio seme, li stavano in quella maniera avvelenando” (pp. 144 – 145).

Dove ci conduce, dunque, il viaggio al quale ci invita Mauro Tetti? Ancora una volta in nessun luogo e in ogni luogo, ci porta davanti all’universo noto e ignoto, oltre l’orizzonte degli eventi, faccia a faccia con la singolarità in cui si addensano le contraddizioni della nostra coscienza, individuale e collettiva.

 
 
(Gianni Usai)