Sorprendentemente, i personaggi di Viaggio nella terra dei morti non si muovono nelle brume di un cimitero, ma fra i vapori profumati di una stazione termale. Una donna, Natsuko, torna a passare un fine settimana in un hotel di lusso in cui aveva soggiornato da bambina, immersa in un benessere economico che nella sua vita adulta le è negato. Il fatto che ci torni spingendo la carrozzina del marito invalido è in fin dei conti solo un dettaglio a margine, perché quello che affligge Natsuko è una malinconia acuta, prima di tutto per la persona che non è mai diventata. Nel costante paragone con il passato, trova le stanze meno sontuose, il cibo meno saporito, i pavimenti troppo scricchiolanti.
“La navetta traballava. Marito e moglie traballavano.” (p. 31)
Natsuko adulta e Natsuko bambina si studiano a vicenda, attraversate dalla leggera vertigine che dà guardare una fotografia sfocata. L’autrice le sovrappone per creare un senso di dépaysement profondo, come vagassero in un paese di cui non capiscono né la lingua né i codici culturali. Questo viaggio (reale e simbolico) prende, alla fine, una piega imprevista. Dissezionando i propri ricordi, Natsuko capisce che, se non ha avuto la vita che sembrava essere stata tracciata per lei, è perché non lo ha voluto. La malattia del marito è stata la rottura che le ha permesso di tirare il freno di emergenza ed uscire dalla porta sul retro.
“A ben pensarci si trattava di un avvenimento singolare, quasi di un miracolo. La spinosa edera di arroganza e sperpero che per tre generazioni si era rampicata sulla sua famiglia aveva cominciato ad avviluppare Natsuko con l’intento di sottrarle l’anima. Erano state le convulsioni di un uomo come tanti a sradicarla”. (p.67)
La traduzione di Anna Specchio conserva molte parole trascritte dell’originale giapponese, perciò i lettori più coscienziosi inizieranno saltellando avanti e indietro dal glossario in coda al testo. Addentrandosi nella storia, però, si fa sempre più fatica ad abbandonare i personaggi, e si finisce per fare ciò che si fa quando si legge in una lingua straniera: cercare di attribuire alle parole che non si conoscono un significato plausibile a partire dal contesto. E non è forse questo il senso ultimo della lettura? Cercare di spremere dalle lettere stampate un senso segreto, profondo. Non necessariamente questo coincide con ciò che l’autore intendeva comunicare, ma certamente risponde alla necessità umana di credere che ci sia sempre di più di quanto si vede ad occhio nudo. Dietro un fulmine, la collera divina. Dietro una parola, un intero universo.
(Lara Zambonelli)