La madrivora di Roque Larraquy, tradotto da Carlo Alberto Montalto per Alter Ego Edizioni, è un romanzo dalla diffusa ambiguità: l’autore argentino, infatti, non ne fa solamente un fatto diegetico ma anche un vero e proprio strumento di scrittura; ne fa, infine, una questione strutturale: il libro consta di due sezioni di lunghezza non omogenea – 94 e 55 pagine – che corrispondono a vicende in apparenza indipendenti, separate da un secolo: 1907, 2009.

Nella seconda, il narratore è un artista che realizza installazioni a base di malformazioni, mani sottratte a un obitorio, gambe divorate da larve e operazioni chirurgiche: prima da solo, poi con il suo sosia Lucio Lavat. Un crescendo di macabra notorietà si alterna, con frequenti salti temporali, alla parabola esistenziale dell’ex bambino prodigio. Ricordando la sua giovinezza, parlerà di “un monologo interiore in cui non si frappongono altre voci finché una voce, sempre mia ma più lucida, mi dice che presto o tardi bisognerà dare vita al mostro.” (p. 111).
Queste le coordinate del libro, a cui è bene aggiungere, a proposito di ambiguità, un’osservazione sul tono: a dispetto dei contenuti, la narrazione mantiene un approccio ludico. Ciò accade specialmente nella prima parte, in cui personaggi caricaturali e psicologicamente esili indugiano in una grottesca competizione per conquistare la caposala Menéndez nelle stesse pagine in cui Silvia, una “pazza” convinta che una mosca le esca di bocca a ogni parola, viene decapitata per testare il metodo: emetterà un controverso “sì” post mortem.
Ora: perché le due storie, al di là dell’intreccio che le annoda nelle ultime pagine, sono in realtà una?
Risulta illuminante, in questo senso, l’esergo tratto dal Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure: “Ciò che domina in ogni alterazione è la persistenza della materia antica; l’infedeltà al passato non è che relativa”. Sotto questa lente, La madrivora è la giustapposizione di due filtri sulla stessa immagine: la sua essenza risiede nell’invariato piuttosto che nelle varianti.
I filtri sono forniti da due espressioni della cultura umana, la scienza e l’arte, e da due epoche. La prima è un’epoca di passaggio, in cui procedimenti e obiettivi di stampo positivista non escludono incursioni di pensiero misticheggiante: “nell’arco delle esperienze umane morire non è che una congettura: dunque non è un’esperienza. E tutto ciò che non è esperienza è inutile all’essere umano. Chiaro? Per questo oggi lanceremo un bengala nell’aldilà e vedremo cosa illuminerà lungo la sua traiettoria.” (p. 51). La seconda epoca è la nostra: gli eccessi di banalizzazione e spettacolarizzazione dell’arte – complici gli attuali mezzi di comunicazione – sono all’ordine del giorno, ed è plausibile questo pensiero: “Ho bisogno di un’opera prima che stimoli la volgarità e la vergogna altrui. Una performance nazista o antinazista in cui un vero ebreo venga preso a botte. La mutilazione genitale di un’africana proiettata a ripetizione sul muro di un ospedale.” (p. 130).
Messi da parte i filtri, entrambe le narrazioni sono così riassumibili: alcuni esseri umani conducono, in bilico tra amoralità e immoralità, esperimenti che mettono a repentaglio le vite altrui e le proprie al solo scopo di superare un limite oltre il quale se ne indicherà un altro e poi un altro ancora.
Non a caso una storia si travasa spesso nell’altra, in un paio di occasioni con un vero e proprio copia-incolla ricontestualizzante. Ledesma esprime la sua posizione sul futuro esperimento: “lo faremo perché abbiamo i mezzi e perché siamo stati i primi a pensarci.” (p. 34). Ritroviamo le stesse parole centoventi pagine dopo a proposito dell’ultima installazione di cui leggeremo. Ancora: l’artista riceve in dono da Sebastián, il suo ex compagno, due rane di metallo, giocattoli per ciechi che descrive con queste parole: “Se le si preme sul retro, saltano facendo vibrare un campanellino nascosto al loro interno; il tintinnio, acuto, dura finché non ritornano a terra e serve per recuperarle.” (p. 115). Cinquantadue pagine prima Quintana ha usato gli stessi termini per descrivere la collezione di rane ereditate dal collega Sisman, da cui provengono quelle di Sebastián.
Su iterazioni e traslati da una storia all’altra è organizzato l’intero libro: dopo cento anni le formiche continueranno a descrivere un cerchio quasi perfetto su una parete dell’ex sanatorio; il cancro dei pazienti ingannati rimerà con un cancro disegnato dal bambino prodigio; a un soffitto basso e reale, notato da una delle teste, corrisponderà il metaforico soffitto basso delle ambizioni altrui in un’osservazione dell’artista; Sebastián finirà per fare il giardiniere nel luogo in cui misteriosi incendi hanno più volte devastato proprio il capanno del giardiniere… Non manca un caso di ripetizione interna a una stessa storia: si tratta di un passaggio che mette in dubbio l’attendibilità dell’intero impianto narratologico e dunque del mondo di riferimento del libro, rischiando di distruggerlo dall’interno. Una testa dichiarerà: “Ci sono persone che non esistono” (p. 87). Sono le parole con cui è iniziata la storia, nella prima persona di Quintana.
“Una digressione botanica: l’isola di Thompson, nella Terra del Fuoco, è l’unico luogo al mondo dove cresce una pianta dalle foglie aghiformi conosciuta come madrivora, la cui linfa produce (in un salto tassonomico poco approfondito) microscopiche larve animali. Le larve hanno il compito di divorare il vegetale fino a inaridirlo completamente. I resti si disperdono e fecondano il terreno, riavviando così il processo.” (p. 93).
Difficile non vedere somiglianze.
(Carlo Sperduti)