I vagabondi

 
 
 
 

Una bambina intrappolata in una scuola: così inizia I vagabondi di Olga Tokarczuk (Bompiani 2018, traduzione di Barbara Delfino) ed è l’unico punto fisso dell’opera, è il voi siete qui delle cartine agli incroci nelle città turistiche – non per niente il capitolo si intitola proprio Sono qui –, è il centro di un sistema di assi cartesiani rispetto al quale misurare la distanza percorsa pagina dopo pagina leggendo un lavoro che spesso potrebbe disorientare, sicuramente difficile da etichettare. Lo si può definire un romanzo di viaggi, oppure una raccolta di racconti brevi e a volte brevissimi, una guida turistica, seppure sui generis – d’altronde l’autrice considera anche Moby Dick una guida turistica –, un taccuino di appunti zeppo di aforismi, riflessioni, curiosità, una Wunderkammer cartacea, un manuale per costruire un oceano, persino, sebbene il recensore nutra qualche dubbio, trattandosi di istruzioni scovate dall’autrice su una rivista, ma in sogno. Senza dubbio, questo è un libro costellazione, un libro in cui la concatenazione causa-effetto viene annullata, e al suo posto – come nelle costellazioni in cui stelle appartenenti a galassie diverse formano disegni intelligibili solo alla fantasia umana – si sostituisce una sequenza di storie non necessariamente interdipendenti, a volte vicine nella tematica, altre del tutto discordanti.
 
I VagabondiLa misteriosa sparizione della moglie di Kunicki, le lettere di Josephine Soliman all’Imperatore d’Austria Francesco I per la restituzione del corpo imbalsamato del padre, i racconti da Mille e una notte di una poetessa che si reinventa guida turistica, i brevi capitoli sulla psicologia di viaggio, neo-scienza insegnata nelle sale di attesa degli aeroporti, sono solo alcuni esempi a cui si aggiungono gli innumerevoli riferimenti ai viaggi e alle mappe da un lato e all’anatomia, alla tassidermia, alla plastinazione, allo studio e alla conservazione dei corpi dall’altro.
Vagabondaggi e imbalsamazione sono i due estremi lungo cui si dipana il lavoro di Tokarczuk: il continuo mutamento della vita e la perfetta staticità della morte, verrebbe da pensare, ma nella morte, in natura, non vi è nulla di statico. Fermare il tempo è l’obiettivo troppo umano dei diversi trattamenti di conservazione descritti minuziosamente, a volte con sguardo da scienziato, altre con la curiosità del turista. Che siano tutti destinati a fallire non preoccupa l’autrice, la quale considera “che è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità. Ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione, e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre.” (p. 7), presupposto certamente scomodo per chi intenda scrivere un romanzo.
 
Due storie emergono prepotenti: quella di Philip Verheyen, chirurgo e anatomista fiammingo vissuto fra Sei e Settecento, che, sezionandone accuratamente i tessuti, scoprì il tendine d’Achille nella sua stessa gamba, amputatagli in giovane età e conservata in attesa della resurrezione dei corpi in un liquido a base di brandy e pepe nero, diventata fonte di dolore fisico e ossessione psichica per il chirurgo, che nei suoi appunti dichiara: “Ho passato la mia vita in viaggio, ho viaggiato nel mio corpo, nella mia estremità amputata.” (p. 199); e quella di Annuška, giovane donna che abbandona il figlio e il marito e vaga senza meta nella metropolitana di Mosca finché non viene arrestata insieme a una senzatetto che borbotta invettive contro qualsiasi ordine costituito: “Chi fa una pausa diventerà pietra, chi si arresta verrà infilzato come un insetto, il suo cuore sarà trafitto da un ago di legno, le sue mani e i suoi piedi saranno infilzati alla soglia e al soffitto. […] Muoviti, vai. Beato è colui che parte.” (pp. 243-4).
 
Se ciò che ritorna è una mera ripetizione-costellazione, se i numerosi leitmotiv sono da considerare ritornelli, necessari a dare solo “una parvenza di interezza sistematica generale” (pag. 75), allora elevarli a struttura portante equivarrebbe a normalizzare questo lavoro, imponendogli un ordine che non sembra essere nelle intenzioni dell’autrice. Per la stessa ragione, è importante dare il giusto valore a ciò che compare una sola volta nel testo: “Solo ciò che è diverso sopravvivrà” dice l’io narrante a p. 21 e sono molti gli argomenti-capitolo senza alcun seguito, apax legomenon tematici, numeri primi che ricorrono senza un ordine prestabilito: assorbenti igienici con scritte curiose sulla confezione; asini che fra i tanti turisti sanno riconoscere quelli di provenienza nordamericana e solo con loro recalcitrano; le riforme di Atatürk; appartamenti che si sentono abbandonati dai loro abitanti, in quanto usciti di casa o perché scomparsi dal mondo, descritti nel capitolo più enigmatico, Appartamenti abbandonati, appunto, con quell’accenno alla mano senza corpo che sembra scrivere appoggiata a un tavolo, priva però di penna, di carta e di scrittura.
 
A collocarsi nel centro ideale dell’opera potrebbe essere proprio uno di questi singoletti, intitolato Il tempo e il luogo giusti: la necessità di spostarsi, sembra dirci Tokarczuk, nasce dalla ricerca del luogo perfetto, ma lo spazio da solo non basta, va occupato nel momento propizio per poter “incontrare il grande amore, la fortuna, vincere al lotto o scoprire un segreto per il quale tutti si scervellano da anni; oppure la morte” (p. 77). Richiamato nell’ultima riga dell’opera: “forse rinasceremo e questa volta lo faremo nel luogo e nel momento giusto” (p. 374), l’auspicio si candida a possibile nesso fra i viaggi e la conservazione dei tessuti organici: e se fosse l’eventuale resurrezione dei corpi – dei corpi, non certo delle anime, “in fondo cosa ce ne frega dell’anima” si legge persino a p. 122, ma anche “il corpo e l’anima sono in realtà la stessa cosa” (p. 195) – se fosse la reincarnazione il sistema più estremo per vagabondare alla ricerca della felicità?

 
 
(Giovanni Locatelli)
 
 

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