Eppure l’interesse di questi racconti va anche al di là del contesto storico. Al lettore contemporaneo appariranno, infatti, ugualmente devianti: non tanto per via delle tematiche affrontate da prospettive originali – tuttavia leggere di aborto e maternità nei termini in cui ne parla Masino, rispettivamente in Figlio e Latte, è di certo meno disturbante oggi che all’epoca –, quanto per gli aspetti linguistici, retorici e compositivi, tesi alla restituzione di una visione obliqua del reale.
A partire dal titolo, la lingua opera un vistoso scarto dall’atteso. Con Racconto grosso, l’ultimo del libro, l’autrice designa un testo lungo e faticoso da portare a termine – lo dichiarerà lei stessa in una lettera alla madre, ci informa Marinella Mascia Galateria nella prefazione al volume – e sceglie un aggettivo inconsueto, materico, per una vicenda di onirica indeterminatezza, benché riassumibile in un passaggio all’età adulta: un sisma psicofisico che richiama quello geologico del primo racconto, Terremoto.
Terremoto è leggibile come un manifesto e come la sua stessa attuazione: un attacco alle basi della realtà. “Famiglie che dall’alto piombavano intere, con l’abitazione, dentro il cortile aperto e al posto loro fioriva un’aiuola dei giardini pubblici. All’improvviso i bucati erano appesi ai fili della luce elettrica e sulla siepe stesi i malati. Il cielo si abbassava sempre più, mentre le ultime case che lo reggevano a stento sui comignoli cadevano al suolo. Dentro ogni stanza gli uomini, fatti deserti gli uni agli altri, guardavano il disfarsi dell’ordine stabilito come la peggiore delle condanne.” (pp. 16-7). Quando l’ordine tornerà, dopo il terremoto, sarà un ordine ormai consapevole della sua natura di precaria convenzione, al punto che perfino una gallina, nel suo atto più ordinario, deporrà un uovo “di un colore verdino, spaventato” (p. 24). L’accaduto avrà sconvolto per sempre il pensiero dei testimoni per averlo condotto “alla terribilità delle passioni scoperte, alla verità.” (ibid.).
Al centro del libro si trova Famiglia, la storia con il maggior numero di elementi fantastici e allo stesso tempo quella in cui più si avverte il velo triste del ventennio fascista. I Pada, inquilini di un condominio di case popolari, abitano nella stessa scala del narratore, un bambino incaricato dalla sorella maggiore di chiedere loro del basilico. Con questo espediente, il lettore verrà introdotto in un appartamento in cui la realtà soggiace a una sintassi alternativa: ogni membro della famiglia parla una lingua diversa ma tutti si capiscono perfettamente e sono per di più compresi senza sforzo dal nuovo arrivato; attributi non umani sembrano essere all’ordine del giorno, come l’incarnarsi di Lisabetta, la sorella della signora Pada, nella stessa pianta di basilico che il bambino è venuto a chiedere in prestito; momentanei atteggiamenti aleatori, come dare calci all’aria o “con le mani goccianti sangue scivolare a terra e cominciare a morire” (p. 112), accadono senza spiegazioni. In questo microcosmo altro, i personaggi vivono nella piena consapevolezza della loro alterità. Quando è Eva, la sorella del narratore, a salire dai Pada per ringraziare, accade ancora un fatto inspiegabile: l’udito del bambino si sdoppia facendogli ascoltare a un tempo ciò che sente la sorella e ciò che solo a lui pare udire. Eva domanda perché i bambini dei Pada non vadano mai a giocare in cortile con gli altri. Le risposte sono due: la prima corrisponde a ciò che abbiamo chiamato ordine o addomesticamento e che qui potremmo chiamare convenienza sociale; la seconda corrisponde alla verità oltre la soglia sbarrata dalla prima:
«Ma perché ve li atterrirebbero. I vostri figli hanno confini.»” (p. 115).
È in questo sdoppiamento che Paola Masino vede il dramma dell’umano: per scelta o per costrizione, quasi sempre dà la prima risposta.