Si è vittima, con la letteratura, di un fenomeno di assuefazione simile a quello per cui – osservando per tutta la vita planisferi e cartine concepiti secondo la proiezione di Mercatore – ci si convince che l’Europa sia al centro del mondo, e che abbia dimensioni maggiori rispetto a quelle reali.
In estrema sintesi: perché l’uomo, essere marginale nel pianeta (e quanto altri mai nocivo alla sua salute), è quasi invariabilmente il protagonista delle narrazioni?
Nel suo romanzo, Esther Kinsky si occupa di ristabilire più congrue proporzioni tra gli esseri umani e gli altri elementi, animati e inanimati, che fanno il mondo.
Sul fiume narra la storia di una donna che si trasferisce in un sobborgo di Londra, nei pressi del fiume Lea, per vivere una vita solitaria.
Camminando lungo il fiume, il piano del suo presente si intreccia con quello di altre latitudini ed epoche, vissute sempre a ridosso di un fiume (il Reno negli anni dell’infanzia, e poi – ad esempio – lo Yarkon in Israele, o l’Hoogly, ramo occidentale del delta del Gange).
La protagonista, nei suoi itinerari senza costrutto, incontra luoghi per lo più desolati e personaggi spesso eccentrici.
Se inevitabilmente c’è un accumulo di incontri e situazioni, esso non è mai funzionale a un accrescimento del proprio io: come il fiume che, con il suo passaggio, tocca (senza scegliere né preferire, e senza potersi mai soffermare) tutto ciò che incontra, così la protagonista del romanzo vede, conosce ma senza entrare in relazione. Senza cessare di andare.
Non a caso, Sul fiume è del tutto privo di dialoghi. Lo strumento che accompagna i cammini della donna è una vecchia macchina fotografica, ma le immagini catturate non sono mai oggetto di successive riflessioni (alcune fotografie sono riprodotte nel libro).
Vivere accanto a un fiume costringe alla marginalità, alla sostituzione dello sguardo all’azione, oltre a insegnare l’impossibilità di versare il proprio spazio in quello altrui: “Il Reno è stato il primo confine che io abbia mai sperimentato, ed era sempre presente. È stato lui a insegnarmi il qui e il là. Il «nostro» lato, con la sua essenza paesana soggetta a un’inarrestabile disgregazione, con le fabbriche, le baracche e i treni merci, contrapposto a quel che c’era di là, dove il sole tramontava”, p. 36.
La periferia nei pressi del lungofiume, evidentemente esclusa da ogni piano urbanistico, si compone di paesaggi abbozzati e opere architettoniche abbandonate durante il loro farsi, metafora visiva dell’incompiutezza e separatezza della vita: “Nella mia infanzia c’erano stradine come quelle, asfaltate in tutta fretta senza che portassero da nessuna parte, nell’attesa che sorgessero insediamenti tra il fiume e il paese, lungo i terrapieni della ferrovia, oltre i sottopassi umidi, e all’ombra di tremanti alberi appuntiti”, p. 121.
Vivere vicino alla sponda di un fiume significa avere costantemente la vista della distanza tra sé e gli altri: “Ogni fiume è un confine: era uno degli insegnamenti dell’infanzia. Forma lo sguardo sull’Altro, costringe a fermarsi, a esaminare con attenzione quel che c’è dalla parte opposta. Il fiume è il palcoscenico in movimento cui la riva di fronte si unisce formando un’immagine fissa, un dipinto sullo sfondo che si imprime nella memoria”, p. 169-70.
A seguire gli itinerari muti della protagonista di Sul fiume, ci si ricorda che ogni vita è un passaggio, e al suo limite estremo nessuna esperienza è valsa più di un’altra, nessun tentativo di trattenere persone, cose o esperienze è stato fruttuoso, tutto è stato trascinato via dalla corrente del fiume, e quel fiume eravamo noi.