L’isola che non c’era

 
 
 
 

Pubblicato nel mese di febbraio 2021 da Il ramo e la foglia Edizioni (primissimo titolo della casa editrice romana, in attività da metà del 2020), con una concisa e illuminante postfazione di Antonio Prete, L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti è una narrazione fantastica, una fiaba morale, un racconto sulla parola, un romanzo di formazione, un dialogo e finanche un monologo filosofico.

Caratterizzata da una scrittura ricca, vasta, larga, capace di contenere ed elaborare forme e immagini e tutta interna, letteraria più che iconografica, ossia immersa nel processo del farsi delle cose piuttosto che nella sintesi e nell’urgenza di una totalità frontale di impulsi di azioni e reazioni; eppure piana, vicina, leggera e disinteressata alla seduzione della parola; quest’opera si fonda su una continua tensione implicita e silenziosa, che regala ritmo e compattezza ai venticinque capitoli.

Sembra che questa scrittura chieda al lettore non soltanto di seguire con la mente e di vedere, ma forse soprattutto di sentire intuitivamente (non sentimentalmente) ciò che accade mentre accade.

Protagonista del libro è il giovane Leo, il quale lascia una vita – così è tratteggiata ironicamente nelle prime pagine – quasi avvolta in un sonno, svagata, vissuta con “umile ingenuità” (p. 9) e d’un tratto libera da legami esterni, per un viaggio verso un luogo misterioso.

“Leo, si sa, fa parte di quella famiglia di individui solitari che assecondano le illusioni più consuete: astinenza da TV e giornali nella professione del meno, ultima religione. Creature inconcluse, sconfitte senza battaglia, colte da lieta disperanza, alla ricerca e all’attesa d’una risurrezione costantemente temuta.
Per questo dunque, un giorno come altri, si sarebbe avventurato alla volta dell’isola portando con sé nient’altro che la sua umile ingenuità” (p. 9).

Partirà dalle Marche, da una cittadella affacciata sull’Adriatico, per raggiungere un’isola su cui “ogni collegamento è bandito. Così che tra i saggi del paese più vicino si resta in ascolto per ore a sentire la voce dell’isola, affacciati come un palmo d’Africa all’orecchio del Mediterraneo.
La zona produce un campo magnetico che impedisce l’uso dei moderni sistemi di comunicazione, obbligando ad avvicinarvisi solo a motori spenti; né è previsto l’utilizzo di mezzi a propulsione o, men che meno, altre diavolerie atte all’automatismo. Ecco perché Leo da subito ha issato le vele con orgoglio sperando nel favore dei venti e dello spirito stesso del suo sogno” (p. 21).

Inafferrabilità e sottile anelito all’avanzare percorrono il romanzo, dentro un’immaginazione costruita per sequenze visibili (e rimandi a figure mitiche della letteratura italiana del Novecento, come l’iguana Isolina, che riporta immediatamente alle opere-mondo di Anna Maria Ortese, scrittrice di cui qui sembra si raccolga ed elabori l’eredità stilistica e morale), ma soprattutto fatta di scrittura e discorsi, cioè di tempo.

In questo libro, la tensione precede i fatti e la trama di superficie, ha origini profonde: gli eventi paiono nascere dall’interno, non come proiezioni ma quali necessità che a poco a poco si disvelano agli occhi del protagonista e del lettore, costantemente immersi in un’atmosfera dove l’incomprensibilità è solo un aspetto di evidenza del reale, e non un rifugio.

La lingua letteraria sfuoca le situazioni in ampie volute, movimenti di divagazione e ritorno: la lentezza della profondità gira agilmente intorno al mondo dei fatti, che si rivela brutale ma in fondo inessenziale.

I dialoghi sono pregni di racconti allusivi, misteri, presi in un continuo movimento d’espansione.

Fino al punto in cui il lettore, accompagnando Leo, ha l’impressione che tutto sia al di fuori del personaggio e di sé, tutto sia materia, liberata dall’illusione della solidità, proprio quando avviene la coincidenza – razionalmente inconoscibile – con il fuoco più interno dell’esperienza.

Allora l’ansia di ricerca del senso e di un centro cede il passo alla capacità di sostare, di stare nella dispersione e nella dilatazione che ogni incontro con altri personaggi (caratterizzati da nomi propri che nel procedere della narrazione rimandano a figure d’altrove, come Arsenij od Oleksandra, oppure Cora) procura al protagonista.

Leo costituisce il filo e il fulcro del racconto; alla sua vicenda si affianca la volontà nascosta di Aldina, una ragazza dell'”isola di sopra” che armeggia magicamente con la ronca, fidanzata con Giorgino, proposito che Leo aiuterà a realizzare: una coppia di esseri tra il reale e il fantastico, i cui nomi conducono alla dimensione di una qualche forma d’infanzia.

La parola, spazio di comunione e conoscenza, e insieme di potere e illusione (in contrasto con il silenzio e il segreto dell’isola, o forse da essi semplicemente contenuta), e – nel mondo narrato – intimamente collegato alla natura, attraverso la figura dell’albero, è l’altra protagonista di questo romanzo: “I tre fratelli, prima di iniziare a mangiare, hanno lavorato a uno scritto che ora leggeranno a voce alta; uno per volta, alzandosi e accennando un inchino prima della lettura, mostrano senza vergogna la sollecitudine a cui sono soliti dedicarsi ogni giorno dopo il rientro” (p. 27). E ancora: “«Tutto si regge sulla parola. E a questo si dedica ogni energia»” (p. 41); oppure: “«[…] Lo troverà ridicolo, ma mi sono andato convincendo che è proprio nella parola che risiede la radice della mia vergogna» fa il Dottor Elwin senza guardarlo. […] «Mi accade così: quando mi sorprendo a formulare un pensiero, un concetto, cresce in me il sentimento di una colpa non meglio precisata. Una colpa umana, per dirla meglio»” (p. 46).

Ecco che tra tutte le figure si staglia proprio quella del Dottor Elwin, quel “Dottor timido” (così chiede di essere chiamato il personaggio; corsivo nel testo, da p. 43) che gli ricorda che “ci si libera solo smettendo di specchiarsi” (p. 46), colui che accompagnerà Leo al termine della sua avventura.

Proprio sino al mirabile finale, la conclusione che pare irridere con determinazione e delicatezza la pratica predatoria della conoscenza. Come se conoscere se stessi significasse finalmente prendersi come si prende e possiede un oggetto.

“Credono, essi, alla realtà del libro pensando che sia conoscibile; proprio come se la realtà stessa lo fosse. Vogliono conoscere l’isola per conoscere se stessi. Non sognano più la loro rivoluzione” (p. 152).

Il senso della vita, sembra ricordare L’isola che non c’era, allora non è nemmeno cercare e trovare se stessi ma semplicemente “[…] sperimentare fino in fondo” (corsivi nel testo, p. 100) e lasciar andare.

 
 

3 comments

  1. Mi affascina il pensiero di fare questo viaggio insieme al mio carissimo cugino, in questa isola sconosciuta ma intrigante e lasciare andare le emozioni che sono dentro ognuno di noi…..forse quelle vere…..!!!

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