Non so se, come hanno detto altri, il libro sia l’elaborazione di un lutto, la testimonianza dell’eccezionalità di un’esistenza normale (con buona pace di chi si ostina a credere che notorio e straordinario siano sinonimi) o un affresco sociale composto da una prospettiva intima. Di certo L’eredità dei vivi è la storia di Rosa Sammarco raccontata da sua figlia, Federica Sgaggio. È la storia di una donna nata a Solofra, in provincia di Avellino, e trasferitasi nel comune vicentino di Arzignano nel 1959; Rosa è caparbia e schietta, aliena a ogni perbenismo, capace di interrompere un’amicizia per una frase ambigua rivolta indirettamente alla figlia ma anche di grande accoglienza e sensibilità, ironia e disincanto: “Mi colpivano il tuo intuito spietato, violento e primitivo, la profondità, la trama raffinata delle tue sentenze”, si legge a p. 45.
Federica riconosce in sé la stessa estraneità alla sofisticazione che era propria di Rosa: “ogni nostra cosa è stata autentica, qualunque fosse la situazione, e non siamo mai state due damine” (p. 42).
Il motivo del rapporto strettissimo, quasi simbiotico, tra madre e figlia, va anche ricercato in un episodio della vita familiare: per la grave disattenzione di un medico, il secondogenito Francesco – nato sottopeso e dunque messo in un’incubatrice – soffrirà di una forte disabilità; ecco che la condizione di Francesco, oltre a incanalare la vitalità e il desiderio di giustizia sociale di Rosa nella frequentazione di un’associazione di familiari di bambini disabili, eleggeranno Federica a ruoli dai quali solitamente i giovanissimi sono sollevati: quelli, ad esempio, di confidente della madre e di sua collaboratrice nella gestione della quotidianità del fratello.
Il reciproco bisogno di complicità dà vita a un rapporto di straordinaria sintonia, che da un lato porta con sé momenti di grande divertimento; dall’altro, la condivisione così ravvicinata di fatiche e frustrazioni (sono diversi gli episodi in cui i diritti di Francesco vengono conculcati o quanto meno misconosciuti) nega a Federica l’ipotesi di un futuro autonomo: “Non ti perdonavo di essere stanca, sconfitta, sfiancata: l’incarnazione di tutto il dolore che mi avevi chiesto di caricarmi sulle spalle”, p. 39; “Sapevo solo che ero esclusa dal mondo degli altri, rinchiusa in un mondo speciale; l’eremo, una prigione in cui mia madre mi amava di un amore così intensamente materno e passionale da diventare virile. Era un amore eroico, smisurato e asfissiante”, p. 223.
Allora la morte di Rosa viene vissuta da Federica con la medesima lucidità e assenza di retorica che ha contraddistinto il suo legame con la madre viva: un affrancamento, lancinante quanto necessario, da un vincolo che allo stesso tempo garantiva protezione e illusorio senso di onnipotenza, per restituire l’unica superstite alla fragilità miracolosa dell’esistenza: “La morte di una madre, di una persona che hai amato, non chiude il passato ma lo riapre e te lo restituisce. Ti dà la libertà di guardarlo nel suo autentico dinamismo, che mentre vivevi non potevi cogliere se non nei momenti in cui il viaggio cambiava repentinamente pendenza e direzione. Ti dà la possibilità di esaminarlo nei fragili nessi di causalità che legano le sequenze degli avvenimenti”, p. 266.
Ne L’eredità dei vivi, struggente retrospettiva dedicata a Rosa, ci azzardiamo a dire che Federica Sgaggio rende un doppio omaggio alla strenua sincerità della madre: il primo è rappresentato da una lingua sicura, precisa ma mai calligrafica né compiaciuta; il secondo è dato dal fatto che ogni capitolo è autoconclusivo, ha collegamenti e rispondenze con altri punti della narrazione ma non compone alcuna progressione cronologica né di senso.
Come se i rapporti che formano una vita si alimentassero di energie sotterranee e segrete, debitrici più dell’istinto e del ritmo che della continuità causale; come se attingessero alla totalità del mondo, che è fatto di pieni e di vuoti, di cose conoscibili e inconoscibili, di drammi e frivolezze.
E proprio in questo modo pare abbia vissuto Rosa Sammarco: nell’accettazione dell’esistenza nella sua completezza, nella sua – si prenda il vocabolo in entrambe le accezioni – complessità: “Abbracciava il male della vita con uno sguardo largo e comprensivo, ma non si scomponeva. Aveva un cinismo pieno di delicatezza.
Non c’era niente di così atroce da non poter essere riferito in modo secco.
Non c’era niente di così banale da non poter essere descritto con ricchezza di particolari, fogliame e volute.
Niente di così brutto da dover essere abbellito, niente di così sciocco da non poter essere bello in sé”, p. 276.