I tentativi di avvicinamento al mondo, di decifrazione del mondo, di cattura del mondo, non solo non vengono esecrati (benché basterebbe avere visto una sola volta nella vita il profilo di una montagna, le onde del mare, per capire che il mondo non si farà mai conoscere né tanto meno acciuffare).
Al contrario, si celebrano le intuizioni, le competenze, i guadagni. Addirittura si istituiscono premi per favorire i percorsi più promettenti, per onorare le carriere più luminose. Intanto le vite si consumano inesorabilmente, si spengono a una a una, perché la natura è ignara delle nostre misere ambizioni.
Lo stesso è per la scrittura. Piace la parola piena, con la quale si dice tutto, o meglio: con la quale si è convinti di prendere la totalità di un istante, di una cosa, di un pensiero. Avvincono gli intrecci ben congegnati, affascinano i personaggi coerenti, fanno sospirare i colpi di scena, si desiderano finali in cui trionfino i rappresentanti del bene, magari dopo aver patito una piccola sofferenza che provochi al lettore un minimo brivido, uno sgomento facile da gestire.
Invece la scrittura dovrebbe dire l’inevitabilità, la dismisura, il caso.
Si provi a raccontare un sogno, un amore, una violenza. Ecco: più un’esperienza è governata dall’inevitabilità, dalla dismisura, dal caso, più essa è ardua da riferire.
Tuttavia si pensi a un sogno, a un amore, a una violenza: le esperienze governate dall’inevitabilità, dalla dismisura, dal caso, sono le più vivide, le più vere.
Ogni volta, allora, lo scrittore è chiamato a una scelta: festeggiare la fantomatica conquista del mondo o dire la verità.
Illustrazione originale di G. C. Cuevas.