di Angelo Calvisi
Le luci pallide dei lampioni soffondono Roccarda di un alone patetico. Sono le sedici e quarantaquattro. In chiesa la funzione è terminata da un paio di minuti e la bara di legno chiaro è già stata deposta nell’auto funebre, al centro del sagrato parrocchiale. Mi sforzo di considerare che dentro la bara c’è Silvano. Lo avevo appena conosciuto, la settimana scorsa ero venuto qui per conoscere l’autore del memoir che con la casa editrice avevamo deciso di pubblicare. Come libro, dal punto di vista letterario, non è un granché, però non gli manca niente. Descrive con nostalgia autobiografica una comunità contadina del secolo scorso, è affettato, banale ma non del tutto stupido, e contiene perfino una spruzzatina di Resistenza. E poi vuoi mettere? Un outsider ottantanovenne che esordisce nella collana dei Granchi.
Adesso non so cosa fare.
Quanto potrebbe pesare la dipartita dell’autore, l’assenza del fenomeno da promuovere? Mi accorgo che non mi fa alcuna impressione pensare a Silvano come persona morta, al corpo recluso, all’aria immobile sopra le sue labbra. A dire la verità non saprei nemmeno spiegare il motivo per cui sono venuto al suo funerale. Forse si tratta di non volerla dare vinta alla concorrenza. Senza farmi troppo notare prendo il block notes e scrivo questa frase: “Il mio stato d’animo sono le cose che vedo”, e le cose che vedo sono la vegliarda rattrappita che si bacia i polpastrelli deformati dall’artrosi e poggia la mano sul vetro, verso il feretro, e gli uomini delle pompe funebri che si danno da fare per stipare sopra la cassa i fiori che puzzano di marcio, e la piccola folla di editor che si è radunata per le esequie, sei o sette stronzi, me compreso, che si salutano sollevando appena il mento. Evidentemente Silvano ha mandato il suo romanzo a cani e porci, ed è stupefacente come il suo lavoro abbia fatto breccia su ciascuno. È questo interesse diffuso, quest’aria di gara la ragione per cui non ho ancora deciso. Il libro di Silvano va pubblicato o devo lasciare che se lo contendano gli altri?
A parte gli editor, sul sagrato i vecchi sono la maggioranza, ma ci sono anche dei quaranta-cinquantenni, non molti, probabilmente sono gli ultimi alunni a cui Silvano ha insegnato prima di andare in pensione. Non piange nessuno, c’è invece un signore con due baffoni asburgici che sorride parlando di Silvano, protagonista di storie che risalgono ai tempi dell’ultima guerra. A fianco dell’auto funebre un enorme albino con dei formidabili occhi rosa ascolta con la faccia impassibile e quando il signore asburgico con uno schioccare di tacchi se ne va, l’albino riprende a smoccolare piano tutta la sua impazienza. Io cerco con lo sguardo la sorella di Silvano, si chiama Lucia, ed è facilmente individuabile perché si è truccata in maniera vistosa, come una ex tenutaria di casino. Le vado incontro con la mano tesa, lei fa un gesto che vuol dire “dopo”, poi scambia poche parole con l’albino che annuisce, entra nell’abitacolo, mette in moto.
Seguo l’auto funebre che procede a passo d’uomo e si ferma poche centinaia di metri più avanti, nella piazzola d’ingresso del cimitero. Scesi dall’auto, i portatori vestiti da gangster aprono il portellone, si caricano la bara sulle spalle e la sistemano nel deposito assieme alle corone di fiori, ai cesti, ai copricassa, perché per l’inumazione è troppo buio, bisognerà fare il lavoro domani, e allora giusto il tempo per qualcuno di entrare a toccare il legno lucido del coperchio e la targhetta d’ottone con il nome inciso, finché non arriva il guardiano a chiudere i lucchetti.
L’ultima a uscire dal deposito è la sorella di Silvano, le si è sbavato leggermente il trucco. La scena è quasi uguale a quella di prima, io che le vado incontro con la mano tesa eccetera eccetera, solo che adesso la sorella di Silvano non fa alcun gesto e me lo dice proprio, mi dice: – Dopo.
Mi colloco in una posizione defilata senza socializzare con i colleghi, mi tengo pronto a salire in auto e a scomparire appena il corteo avrà raggiunto il paese. Non sto percorrendo la via asfaltata da cui sono arrivato, ma mi sono inoltrato come tutti nello strassetto, la sorella di Silvano l’ha chiamata così, è una stradina sterrata che comincia di fronte al cancello del cimitero e scende, si snoda con discreta pendenza nella macchia compatta degli alberi. Nel silenzio del bosco un gufo, oppure è un’upupa, insomma l’uccello notturno sopra le nostre teste emette il suo verso da brividi. Ho un soprassalto, davanti a me c’è una voragine nera, la luce della luna appena sorta si è fermata sulle foglie più alte degli alberi, e se non fosse per i passi trascinati sul pietrisco dello strassetto dubiterei della presenza di altre persone. Poi, però, i miei occhi si abituano all’oscurità e allora posso distinguere le sagome del gruppetto che mi precede. Sono tre uomini, hanno iniziato a chiacchierare, a parlare di Silvano, e quasi in coro dicono che u nu l’ea marottu[1] e che u l’ea forte cumme’n camallu[2]. Il dialetto di questa vallata ha dei vocaboli, delle cadenze comuni al dialetto dei miei nonni, che erano emiliani, o almeno così mi sembra ad un primo ascolto, perché, mano a mano che la conversazione fra i tre uomini si infittisce, le espressioni che mi suonavano famigliari diventano un brontolio, una nenia sorda a cui si aggiungono gradatamente altri rumori da ospizio, colpi di tosse grassa e scracchi, flatulenze, sghignazzi dei vecchi che ora parlano tutti assieme, a voce alta, anche quelli che sono in testa al corteo, e non è più un coro, ma un’accozzaglia stonata e indecifrabile che trasforma il dialetto di Roccarda nella lingua che si parla all’inferno.
Improvvisamente mi esplode il mal di testa.
Forse mi ha avvelenato qualcosa che ho mangiato a pranzo, all’autogrill, perché oltre al mal di testa ho anche la nausea. Il pensiero della nausea e lo sbocco acido del vomito sono fenomeni simultanei. Non è uno sbocco isolato. Vomito a ripetizione e in maniera molto coreografica, molto chiassosa, se ne accorgono tutti, gli editor ridacchiano. Sto facendo un figurone, penso, e scappa da ridere anche a me, rido e vomito, e così, alternando con regolarità, arrivo al termine della stradina sterrata, nei pressi dell’abitato di Roccarda.
I colleghi editor si sono precipitosamente dileguati, l’ultimo ad ammainare bandiera sono io, il vomitante. La signora Lucia mi intercetta nel parcheggio, a pochi metri dalla macchina e dalla fuga. Mi ripete la storia che mi aveva già detto al telefono, ovvero la circostanza del foglietto con il mio nome e il mio numero di cellulare che Silvano aveva con sé nel momento della morte, e aggiunge anche una frase – “lei è stato l’ultimo pensiero di mio fratello” – che mi provoca un piccolo disgusto. Per il resto, la signora Lucia è premurosa. Insiste per offrirmi una tisana digestiva che secondo lei mi rimetterà a posto lo stomaco e non accetta defezioni. Con altre due signore, amiche di Lucia, salgo a casa sua, al secondo piano di una palazzina con l’intonaco ripristinato da poco, e sprofondo in una delle colossali poltrone di pelle del piccolo salotto. Nella casa piena di ritratti di padre Pio e di campane di vetro con le statuine del Bambin di Praga, le due signore si muovono con familiarità, vanno avanti e indietro, aiutano la sorella di Silvano a preparare l’infusione per la tisana. Mi chiedono anche per tre volte come facevo a conoscere Silvano, però non ascoltano le mie risposte e dopo avermi fatto la domanda riprendono a discorrere tra di loro. Gli argomenti vengono trattati in maniera ondivaga. Dalle corna portate con disinvoltura da un’amica molto più giovane passano alle vicissitudini del ragazzo di un paese vicino che è stato arrestato dai carabinieri perché coltivava maiurana nel terrasso e infine approdano, con insospettabile profondità d’analisi, alla rispettabilità internazionale riconquistata dal nostro Paese grazie all’azione del governo Rensi. La sorella di Silvano, nel frattempo, è arrivata in salotto con tisana e biscotti.
– Sono ingredienti della nostra valle, – dice, – le erbe, le uova, la farina.
Assaggio. I biscotti sembrano pezzetti di bitume e la tisana è così amara che mi manda il cervello in confusione. Mentre finalmente riesco a descrivere alle tre signore le circostanze del mio incontro con Silvano, la sorella mi guarda strano. In effetti mi accorgo che sto sbagliando le date, i riferimenti, e mi mangio le parole. Sono sul punto di vomitare di nuovo. Dico: – Vado in macchina a prendere il manoscritto.
Esco di casa, sul ballatoio sbando sensibilmente, scendere le scale è un viaggio nello spazio siderale, ma quando torno sono più lucido, la boccata d’aria mi ha fatto bene. Porgo alla sorella di Silvano il manoscritto e lei comincia a sfogliarlo con gesti cauti, delicati.
– Non l’avrei mai immaginato, – dice la signora Lucia.
– Che cosa?
– Che mio fratello scrivesse.
Penso che si stia commovendo. Le dico: – È un libro bellissimo. Parla di questa terra e dell’amore di Silvano per il suo lavoro. I suoi ragazzi dovevano volergli molto bene.
– I suoi ragazzi?
– L’ultimo maestro di Roccarda, – dico sorridendo.
La signora Lucia si toglie gli occhiali e mi ero sbagliato: non è commossa.
– Mio fratello non faceva il maestro, – dice un po’ schifata, – mio fratello non ha mai lavorato in vita sua.
Penso che sia pazza, lo penso sul serio. La signora Lucia se ne accorge, dice: – Lei è come san Tommaso, – poi esce dal salotto e rientra con in mano una scatola di latta colorata, una di quelle vecchie scatole di caramelle Sperlari dove le nonne conservano le loro reliquie, e inizia a tirare fuori le fotografie del fratello da giovane. Aveva la faccia segnata, da pugile, e un’aria spavalda. Ad uso e consumo della mia incredulità, la sorella racconta che Silvano era sempre impegnato a imbastire burle, raggiri, piccole truffe.
– Ma non era per il denaro, – precisa, – denaro ne aveva fin troppo, se l’è mangiato tutto lui il patrimonio della famiglia.
Sotto i miei occhi sfilano le immagini di una persona ogni volta diversa, diversa anche dalla persona che ho conosciuto soltanto una settimana fa, e quella che mi colpisce di più è la foto di Silvano in smoking al Lido di Venezia, la volta che è andato al Festival del cinema per presentare alla stampa un film che non è mai stato girato. A parlare del fratello e delle sue avventure la signora Lucia si ammorbidisce, e quando arriva il momento dei saluti è commossa, ma stavolta davvero. Sulla porta di casa si è avvicinata per darmi un bacio sulla guancia. Ha la punta del naso gelata e i vestiti odorano di sapone di Marsiglia. Le dico che mi farebbe piacere lasciarle il manoscritto di Eravamo del bosco, il libro di Silvano, ma lei preferisce di no, dice che le bugie di suo fratello le conosce tutte a memoria. – Però non era cattivo, – sospira poi, – era solo uno che voleva prendere in giro la vita.
[1] Non era malato.
[2] Era forte come uno scaricatore di porto.
Angelo Calvisi, nato a Genova nel 1967, divide i suoi interessi tra la scrittura e la recitazione. Il suo ultimo romanzo, Un mucchio di giorni così, è uscito per l’editore Quarup nel 2012. Per i pennelli di Roberto Lauciello ha firmato il soggetto e la sceneggiatura del graphic novel Sulla cattiva strada, ispirato alla vita di don Gallo, uscito per Round Robin nel maggio del 2014. Su questo blog ha pubblicato due racconti inediti (vedi qui e qui) e un dittico poetico (qui). Nel corso del tempo, in qualità di attore, ha collaborato con registi come Fiammetta Bellone, Gianluca Valentini, Paolo Dotti e Paolo Pisoni. Di questi lavori sono reperibili in rete inquietanti tracce. Lavora per una cooperativa sociale genovese e nel tempo libero disegna casette (e le colora con gli acquarelli).
Illustrazione originale di G. C. Cuevas.