Un poeta – impegnato in un corpo a corpo, quello con l’indicibile, che non ammette distrazioni – non può essere anche altro.
Un soldato – impegnato in un corpo a corpo, quello con il nemico, che non ammette distrazioni – non può essere anche altro.
La condizione di poeta e quella di soldato sono due assoluti.
L’assoluto, per sua stessa natura, non entra in relazione. L’assoluto messo in relazione non diventa l’assoluto meno qualcosa, bensì smette di essere.
Giuseppe Ungaretti, soldato semplice sul fronte del Carso, nel 1917 scrive una serie di lettere, biglietti e cartoline in franchigia a Mario Puccini, ufficiale presso il Comando supremo.
Coi toni più svariati (“Sono macerato dalla malinconia”, p. 26; “sono in uno stato di nevrastenia tremenda […] Vienmi ad abbracciare”, p. 33; “mio caro Puccini, ma da che mondo cadi?”, p. 46; “Perdonami, se mi hai sentito per amarezza cader quasi in bestialità, l’altro giorno”, p. 47; “Mio caro Puccini, si può aver l’onore di avere una tua risposta”, p. 54), Ungaretti parla a Puccini di due cose: gli chiede di essere esentato dal corso per diventare ufficiale (obbligatorio per chi avesse un titolo di studio) nonché di venire reintegrato nel suo reggimento originario “dove ero l’idolo” (p. 36); e lo tiene aggiornato sulla scrittura propria (“Ti ho scritto ieri che Apollinaire mi traduceva in francese”, p. 34) e altrui (“Papini m’informa che ti ha mandato a Milano le sue poesie”, p. 45).
Ma in fondo non fa che ripetergli una preghiera: liberami da questo assoluto che non mi compete, riportami al mio.
(Giuseppe Ungaretti, Lettere dal fronte a Mario Puccini, a cura di Francesco De Nicola, Archinto, Milano 2014).