Pubblicata nel 2010 da Valigie Rosse, edizioni no profit di Livorno, Sala d’aspetto di Matteo Marchesini (opera vincitrice del Premio Ciampi “Valigie Rosse” nel medesimo anno), raccoglie quattordici poesie d’amore e di pensiero, accompagnate dai bellissimi disegni di Riccardo Bargellini.
I componimenti paiono attraversati dal sentimento di una costrizione.
Suddivisa in due sezioni di sette testi ciascuna, Sensi unici e Due, la silloge si muove infatti tra un’attenzione lucida alla realtà, anche imposta al sé quasi come un’ossessione contro le derive dell’esprimere personale e soggettivo più trito, di logori sentimentalismi, e un desiderio di abbandono e di obbedienza semplice alla vita, di liberazione di tutto ciò che è un di più, di accettazione della realtà.
In altre parole, da un lato, si assiste a un’analisi insaziabile, un catalogo, una accumulazione di elementi e all’intelligenza acuta e tagliente dell’osservazione, della cultura (“[…] le riviste engagées,/gli allenamenti di calcio e poi il tedesco,/gli oratori barocchi, le ragazze/che danno il primo bacio a dieci anni”, Ultimamente, p. 7, vv. 2-5, corsivo nel testo; “«L’ipocondriaco, il folle a caccia/di rimorsi, l’ossessivo-compulsivo/col suo mobile zodiaco, e tutti quelli/che esigono sia sempre dimostrata/per equazione l’impossibilità/che li abbia morsi un cancro in certe cellule,/che si trovi una traccia o un segno vivo/della loro presenza all’ora e al luogo/in cui un qualche ordigno fece strage […]», La nottola di Minerva si congeda, p. 8, vv. 1-9), dall’altro, la voce chiama a una frontalità senza scampo (“Ma questo so: che alle mie mani i nomi non/risponderanno”, I nomi, p. 11, vv. 29-30), che forse è financo natura (“La paura della morte sotto i portici:/ della natura, in mezzo a tutta quella storia.//Del gelo, dei vermi la paura/improvvisa, lì tra la boria degli stucchi dove/i morti sembrano addomesticabili/concetti, forme.”, Passi in Emilia, p. 16, vv. 1-6).
Il moto interno al libro è quindi tra il gesto e la cosa (“Non ha un gesto […].”; “«Bisogna solo fingersi una cosa»/dice allora a se stesso […]”, Mito, pp. 13-14, v. 1; vv. 29-30) e tra il pensiero, a cui si tenta di dare estrema concretezza (“Manovro nella mente”, I nomi, p. 11, v. 1; “La senti la slogatura dei pensieri”, Hotel, mattino, p. 15, v. 1), la conoscenza e l’infanzia, l’animalità (“Ma per salvarti in me così non resta/oggi o domani altro che abbandonarmi/alla folla di un bosco senza simboli/che non ama ma appesta,/che non parla ma voracemente latra./Dove non conosciuto non conosco”, Seconda lingua, p. 37, vv. 6-11).
La costrizione è propria, al contempo, dell’esistere e del pensare, cioè dell’io, ed è il luogo di un movimento mai sopito (forse una sala d’aspetto, dove forze opposte portano a uno stallo: “Vivo tempi di proroga, mio amore,/non tempi d’esperienza/e perdo anche i conforti dell’addio:/quaggiù dove ti scrivo/chi si uccide non lo fa/per il dolore/lo fa per l’impazienza.”, Ultimamente, p. 7, vv. 13-19).
E l’inquietudine latente di questo libro si dà perfino tra l’uno e il due.
L’altro-io e la donna amata, l’amore stesso non sono occasione di fuga, di evasione, di annebbiamento sensuale, incarnano il tu che limita e stravolge e inchioda alle verità (si veda, ad esempio, La nottola di Minerva od Oroscopo, dove la seconda persona singolare spiega, dice).
Distacco e durezza caratterizzano il dettato, eppure tra le righe si avverte una misericordia, costante e senza pietà, che non porterà salvezza, e financo una passione per la distinzione esatta e per la lontananza, quasi che persino quando viste da distante le cose rimanessero diverse, non potessero muovere il facile pretesto di confondersi e di essere confuse.
Si legga ad esempio in Collaborazionismo, p. 33: “Il redattore chiama e tu componi, limi/le frasi aguzze dentro certi limiti –/senza, per carità, farti mai alibi/di supposte censure: mentre calibri/lo sai che sono sempre casuali –/poi sfiori un tasto e il testo è già laggiù./Tutto pulito, quasi senza mani./Sul web trovi il bonifico domani./Assapori la liscia servitù.”
Il ritmo, le rime e una musicalità interna e chiaramente udibile, se delimitano e arginano il pensiero, lo misurano e impediscono che la ragione, la ricerca delle cose come sono, cedano al rischio di soffocare la voce, di sopprimere il non detto e l’indicibile.
Al di là delle citazioni più o meno esplicite rinvenibili in questi testi, si percepisce l’orma della tradizione studiata e fatta propria; in Patto pare, ad esempio, di sentire Eugenio Montale, in particolare in Le occasioni (“la pausa che cade/tra due fatti e legittima il getto/dei dadi, una risacca/del tempo e dello spazio: è lì soltanto/che fioriscono i patti”, p. 28, vv. 3-8), di intuire Franco Fortini nella chiarezza e nella vertigine di dirsi, di riascoltare Vittorio Sereni de Gli strumenti umani per le voci e le presenze fantasmatiche (“In questa nuova casa notte e giorno/non c’illudono mai: questo è un ritorno/di due di rame o di pietra o di legno./La tavola, il letto sono un segno.//Non parlare. O parla. (Parleranno)”, Secondo amore, p. 19, vv. 1-5, corsivi nel testo), di ricordare Luzi per quegli incontri tra i viventi che riconducono all’umanità di Nel magma, Giorgio Caproni per l’ironia esatta, Umberto Saba per il piccolo e il quotidiano mai domestico, ecc.
Ma questo prezioso volumetto vale l’attenzione del lettore anche solo per le “rime chiare” che chiudono il componimento intitolato Promemoria, dove l’attesa si interrompe e ci si può accordare al ritmo dell’esistere (p. 34, vv. 9-13: “ti accorgerai che l’atto/ è già gratuito, e la salvezza/sta solo nel mutare/ogni gesto del giorno in esercizio./Amare, respirare”.