“La perdita di gusto per la vita può essere segnale di depressione, ma anche di saturazione.”
(da Cesare Viviani, Non date le parole ai porci)
Quando si ha per le mani un libro composto da una narrazione e una serie di fotografie non inserite esplicitamente a commento del testo (e dove non vale nemmeno il contrario, cioè che sia il testo a commento delle immagini), si può provare un certo straniamento. Perché alla consueta urgenza di rinvenire un senso nella narrazione, e un altro nelle fotografie, si aggiunge quella di istituire un qualche nesso tra l’uno e le altre. Il bisogno di rassicurazione, anche quando rivestiamo il ruolo di lettori, è sempre in agguato.
Con questo animo ho affrontato la lettura di Condominio Oltremare (L’Orma Editore), un lungo e mirabile racconto di Giorgio Falco intramezzato da cinquantanove splendidi scatti di Sabrina Ragucci.
Falco racconta la vicenda di un quarantacinquenne milanese che decide di tornare nell’appartamento dei cosiddetti Lidi Ferraresi acquistato alla fine degli anni Sessanta dai suoi genitori. Le pagine iniziali sono un breve excursus sulla nascita di quei complessi residenziali, con continui riferimenti ai costruttori, gli “uomini delle berline nere” (riferimenti che in alcuni passaggi si fanno assai più circostanziati: “Pochi chilometri più a nord, Lido delle Nazioni era territorio della Nesco Italiana sas, il cui titolare era diventato in pochi anni, dalla Sicilia a Milano, uno dei commercialisti più potenti d’Italia: Michele Sindona,” p. 21).
Dopodiché ci ritroviamo a oggi, al tempo zero del protagonista adulto, che “un lunedì di gennaio” giunge al Condominio Oltremare. Egli vagherà per le stanze dell’appartamento, e poi nei quartieri circostanti, e poi ancora nei paesi limitrofi, con sguardo inquieto e onnivoro. Con sguardo, cioè, che se talvolta si sofferma minuziosamente sugli oggetti rinvenuti in un cassetto (“apro uno dei cassetti, trovo vecchi scontrini, libretti di manutenzione, di istruzioni per piccoli elettrodomestici, garanzie scadute una decina d’anni fa; caricabatterie dei telefoni, di altri apparecchi ignoti, pile esauste, un vecchio termometro a mercurio, 39 gradi, la mia ultima febbre da adolescente, la vecchia cartina della zona di Comacchio, il mare blu, le sue vicinanze”, p. 133), talaltra amplia i propri orizzonti sino ad affacciarsi sugli eventi cruciali della più recente storia d’Italia (“A Lido di Pomposa, la famiglia Mader aveva passato quindici giorni di ferie, in una pensione. Era arrivata a metà mese, nel luglio del 1980, come molte altre famiglie tedesche, per poi rientrare in Germania nei primi giorni di agosto. […] Alla stazione di Bologna, la famiglia Mader avrebbe dovuto attendere la coincidenza, […] Ma lui aveva il peso della valigia più grande e così era andato alla ricerca del deposito bagagli, voleva lasciarla lì e ritornare dalla moglie e i figli, nella sala d’aspetto. Allora era scoppiata la bomba”, p. 127).
Anche il tono è mutevole. Se l’intimità dell’ambiente domestico concede al protagonista alcuni ricordi sul filo dell’ironia (“Una cucina monoblocco bianca, gracile, ricavata da un neonato frassino, la cappa in acciaio inox, il frigorifero incassato, e accanto a esso, un forno a microonde, che strideva con quanto avevo sempre sentito fin da bambino: noi siamo contrari al microonde”, p. 45), più spesso gli impone ragionamenti dolorosi (“Mi sono sdraiato con indosso il giaccone, il copriletto a fiori, rose rosse dai petali così grandi da contenere un bambino. Il materasso ha risucchiato il mio corpo nel centro, ho tradito tutte le aspettativa dei miei genitori, non sono stato il figlio che si aspettavano potessi diventare”, p. 46).
Una medesima mobilità, una medesima irrequietezza si ritrovano nelle immagini, dove si alternano (o coabitano) senza requie interni ed esterni, luci e ombre, paesaggi naturali e costruzioni umane, rigogliosità e desolazione, presente e passato. Ogni fotografia è la tappa di una ricerca, inesausta, che inevitabilmente rimanda a quella del protagonista del racconto.
Quale desiderio accomuna dunque il testo narrativo e la sequenza fotografica?
Lo scopriamo nelle pagine finali: “Sono alla ricerca di qualcosa che mi parli di morte, di un fossile di me, devo rassegnarmi, tutt’intorno è vita, anche i campi addormentati di gennaio, per quanto allusivi, sono la vita. […] Mi sono aggrappato alla memoria per accogliere tutto dentro questo corpo, che avviene e archivia segni dissolventi, l’esperienza suggerisce il futuro di cui mi interessa molto poco. Non è desiderio totale del mondo, necessità di abbracciare la vita, anzi, è il contrario, voglio scomparire in essa”, pp. 149-150.
Allora la ricerca non era ricerca di un approdo in qualche punto dello spazio o del tempo, ma di un’uscita. E le immagini (anch’esse corpi) erano così sature di energia solo perché dall’energia volevano liberarsi, non alenando a dinamismi ulteriori bensì alla fissità, quella fissità ben espressa dalla statua leonina posta non a caso al termine della narrazione.