di Angelo Calvisi
Spunto fuori dalla macchia di alberi, che alberi sono? Sono aceri querce e roveri, spunto fuori dalla macchia, dove gli alberi finiscono improvvisamente. Sono in cima a un monte, sul crinale, dietro di me la macchia di alberi che brevemente sale, vista da qui è un anello che gira attorno al monte e poi stop, la terra che diventa una sassaia e il pendio che termina in un castello, non è un castello, è una costruzione più piccola, un forte della seconda guerra mondiale, no è un forte delle campagne di Napoleone, non lo so che forte sto vedendo, comunque adesso è in disuso e fa squallore. Sul palo arrugginito c’è il cartello bucherellato dai proiettili, la scritta dice: ZONA MILITARE – PERICOLO ESERCITAZIONI. Il palo è conficcato su un tumuletto di terra gialla, al limitare del crinale. In fondo al monte, in basso, c’è il mare, il blu slavato si perde oltre l’orizzonte e circonda ogni cosa, anche la città, laggiù. Vedo il porto, molto grande, le navi, ci sono le gru, procediamo con ordine.
Sono sul crinale.
I due lati del monte sono un misto di erba e massi macchiati di muschio, emergono dal verde e si scende con discreta pendenza. Davanti a me, a venti o trenta metri, una recinzione con dentro antenne televisive, ripetitori scheletrici che si slanciano a una bella altezza e anche qui, attaccato alla griglia del recinto, c’è un cartello.
C’è scritto: ALTA TENSIONE e sotto c’è il famoso simbolo della morte, quello con le ossa incrociate sotto il teschio. Sto sudando. Non è per il simbolo della morte, non me ne frega niente. È l’umido, l’afa, il cielo è di un bianco compatto. Da quando sono arrivato, in direzione del mare si è alzata la foschia e i contorni delle cose sbiadiscono.
Uno sparo secco, gli uccelli, frullando, escono fuori dagli alberi. Un altro sparo, stessa provenienza, cioè dalla parte destra del crinale. Scendo giù dal lato opposto, dove le schioppettate non possono raggiungermi. L’erba è alta, brulica di insetti quali api tafani flebotomi. Io guardo dove metto i piedi, anzi guardo proprio i miei piedi, calzano scarpe da corsa gialle, marca Mizuno. Un barlume di ossigeno pescato non so come approda al mio cervello e d’un tratto mi sovviene che sono un runner, sono magrissimo, gambe magre, braccia magre, il torace naviga dentro la canottiera. Il pacco invece è ingombrante, nei miei pantaloncini ci sta stretto. Accelero il passo, giù nella pendenza, prendo una storta alla caviglia, una distorsione, termine più tecnico, e sento il terzo sparo. Sotto l’ombra di un gruppo di querce ho raggiunto un presepio scosceso, una cosa in miniatura con i tavolini di legno, con le panche, tutto messo insieme senza troppe pretese, in modo approssimativo. Sul fusto di due alberi affiancati hanno inchiodato una scatola, metà scatola inchiodata in un fusto metà nell’altro, e questa scatola è come una casetta per gli uccelli, solo che al posto degli uccelli c’è il crocifisso. Un tale armeggia sulla scatola, è vestito da prete, ci sono cinque persone vestite da esploratori, siamo a 300/400 metri sul livello del mare, la città è a un paio di chilometri in linea d’aria, però ci sono gli esploratori che stanno in piedi, lì vicino, con le mani giunte.
In linea di massima i preti mi fanno ribrezzo.
Questo prete poi è schifoso più degli altri perché mi sono accorto che gli manca il braccio sinistro. Mi guarda con gli occhi cattivi per l’invidia delle mie due braccia regolamentari, mi guarda mentre dice che è veramente cosa buona è giusta nostro dovere e fonte di salvezza. Forse non è invidia. Forse è spaventato da qualcosa. Me ne vado. Sento lo sguardo del prete che mi segue mentre proseguo nella discesa, allora cerco di fare in fretta anche se la distorsione alla caviglia mi fa male. C’è una gobba sul fianco del monte e una volta superato questa specie di dosso il contatto visivo si interrompe e io non sono più a disagio per le occhiate incomprensibili del sacerdote. Ancora pochi metri e finisco in una strada sterrata che costeggia il monte. La strada sterrata è delimitata verso valle da siepi continue di rovi. La città ora si è avvicinata, ma in questo momento sono più interessanti le siepi continue di rovi, cariche di more, mi sfilo lo zainetto dalle spalle, ne raccolgo tante.
I roveti con le more sono un’immagine che mi riporta a quando ero piccolo e mi ricorda mia nonna. Mia nonna era un pezzo di donna che sembrava un uomo anche per via di certi baffetti che le erano spuntati con l’età a causa delle sue misteriose disfunzioni ormonali. Era molto forte, più forte del nonno, che era un tapino e si faceva comandare. La nonna metteva l’aglio nel mortaio di marmo, lo pestava con il pestello, l’aglio con il sale, pestava tutto con cadenza di galoppo, poi prendeva le foglie di basilico e le pestava, poi ci metteva il formaggio sardo, non il pecorino che per il pesto non va bene, ci metteva il formaggio sardo e pestava e pestava che le erano venute due bicipiti che lèvati, alla fine l’olio, che ce ne vuole tanto, si capisce.
La mia povera nonna era bravissima a fare le lasagne al ragù, il pesto le veniva male. Aveva una casa da qualche parte in una località di campagna dove andavo a trascorrere le vacanze estive, una grossa casa in muratura, con il pozzo in giardino e una stalla con le mucche e una stia con le galline, tutte le mattine l’uovo fresco, il latte appena munto non mancava mai. A causa di questa alimentazione primitiva durante l’estate soffrivo di disturbi gastrici, ero colpito dalla brucellosi e sudavo, mi veniva la febbre, passavo gran parte dell’estate a letto e non vedevo l’ora che cominciasse di nuovo la scuola. La nonna comunque era una donna d’altri tempi. Masticava tabacco, sputava per terra, bestemmiava tutti i santi del calendario. Per rivolgersi a me che ero suo nipote mia nonna alternava colorati epiteti, cioè qualche volta mi chiamava pellerossa oppure mezzosangue e certe volte se era particolarmente in vena mi diceva bastardo sanguisuga mantenuto. La mia povera nonna quando doveva ricevere il don mi diceva: alzati mantenuto, fuori dai coglioni, e io infatti uscivo anche se avevo la febbre. Il don era il prevosto della collegiata di sant’Eufemia, quando veniva lui uscivo io, quando veniva il don che anche il don era senza il braccio sinistro. E allora penso che forse è il prete che ho visto prima, quello che officiava dal crocifisso dentro la casetta degli uccelli, è stato il prete che mi guardava male a farmi venire in mente la nonna e il suo mondo agreste, sono indeciso tra il prete e le more, e va detto che la nonna mi obbligava a uscire anche se avevo i disturbi gastrici, anche se cagavo liquido e farneticavo per la febbre, uscivo con le coliche e salivo in collina, andavo a cercare le more, e sono pieno di dubbi se i disturbi gastrici mi coglievano prima o dopo l’arrivo del don nella casa della nonna, la mia povera nonna che la sera mi preparava la crostata di more, ma le veniva meglio la torta di mele, erano cattive entrambe, immangiabili, e una mattina, di punto in bianco, dalla casa in muratura della nonna, con il pozzo in giardino, e le mucche nella stalla e le galline nella stia, di colpo una mattina ho aperto la porta e mi sono trovato qui, poco sopra, all’altezza del crinale, mentre uscivo da una macchia di alberi che erano probabilmente aceri querce e roveri.
Ipossia da runner, percezioni svagate.
La strada sterrata è bianca e polverosa, disseminata di pietre aguzze e ci sono anche dei sassetti scuri e ben levigati, delle palline, che poi mi accorgo non sono né sassetti né palline, è la merda delle capre. Ho riempito lo zaino di more, la prima che ho assaggiato era amara, ho buttato via tutto perché forse non erano more, forse erano bacche velenose oppure era merda di capra. La strada sterrata procede in piano, costeggia il monte, è un bel vedere la strada in lontananza che asseconda il profilo del monte, è un bel vedere il binario della ferrovia, sulla fascia sottostante, ma è una ferrovia strana, piena di curve, e il treno che passa è più piccolo dei treni normali. Sulla strada sterrata si incontrano altre persone che corrono. Le persone che corrono tengono la destra, vestiti da runner come me, con le scarpe da corsa e le canottiere, con il pacco compattato dai pantaloncini. Quando mi vedono accelerano, corrono a tutto spiano. Allora comincio a correre anch’io, la caviglia non mi fa più male. Le persone che mi vengono incontro, nel momento che ci incrociamo, mi guardano con insistenza, ma io sono certo che non ci conosciamo. Forse si tratta di una consuetudine dei runner. Forse i runner sono costretti a guardarsi, cercano di capire le caratteristiche della corsa degli altri, siamo tutti avversari, bisogna carpire i segreti dei tuoi nemici. Alcuni runner con lo sguardo ottenebrato hanno meno fiato di me, e alzano soltanto il braccio. Io rispondo a tutti con la voce, faccio finta di aver fiato da vendere, saluto con la voce che sembra un grugnito, saluto con il sorriso che sembra un ringhio, sono il più forte e corro sulla strada sterrata, ogni tanto altre macchie di alberi, molta erba intorno, in generale è un posto gradevole, questo, un ottimo posto dove correre.
Avanzo verso la città, che è Genova, e percorro una parte del cosiddetto Parco Urbano delle Mura, e il monte in cui si trova il Parco Urbano delle Mura si chiama monte Righi, viene citato nella famosa canzone Ma se ghe penso, la canzone degli emigranti genovesi in Argentina, e dice il protagonista della canzone che se pensa a ritornare lui vede il Righi e gli si stringe il cuore, e tutti i genovesi sono molto affezionati a questo monte, che per loro è un po’ come la Svizzera. Quello che sto scrivendo è tutto quello che so, anzi è tutto quello che sto per sapere, intendo dire che lo so dopo averlo pensato, e mi sorprendo, perché pochi minuti fa l’unica cosa che sapevo era che uscivo dalla macchia di alberi che erano probabilmente aceri querce e roveri. Ad ogni modo sono qui, sulle alture di Genova, a correre, la gente viene sul Righi a correre, a fare ginnastica o bicicletta, a tirare con l’arco o passeggiare, ci sono molti forti, forti francesi forti sabaudi, era una zona strategica per sorvegliare viandanti truppe mercanzie, e il forte che ho visto poco fa era solo uno fra i tanti. Un po’ più giù ci sono anche degli slarghi per parcheggiare le automobili, ci vengono con le automobili le coppie clandestine, gli innamorati della pausa pranzo, e ci sono venuto anch’io, ci sono venuto una volta sola perché mi vergognavo, avevo paura di suo marito o forse era mia moglie, c’era qualcuno che minacciava la tranquillità della nostra relazione, ma non mi ricordo chi, e insomma ci sono venuto una volta sola e le altre volte andavamo in albergo.
Corro, sarà vero che la corsa fa bene?
Se mi concentro sul ritmo della corsa mi sembra di essere un treno, ma non uno di quei piccoli treni che ho visto nella fascia sottostante, sono un treno vero e proprio. Non è una questione di velocità. Se fosse una questione di velocità non potrei certo paragonarmi al FrecciaBianca che collega Genova a Roma. Comunque l’ho già detto, non è una questione di velocità, si tratta piuttosto di sentire che le gambe girano, ti modificano il respiro, e il respiro tenta di sincronizzarsi alle pulsazioni del cuore. Tu-tum tu-tum, l’unico ricordo che ho davvero, e che non mi viene fuori nello stesso momento che lo penso, l’unico ricordo che è sempre esistito è questa sensazione che provo correndo, questo battito costante, tu-tum tu-tum, il rumore di una macchina che a modo suo funziona, come il FrecciaBianca, anzi meglio: come il FrecciaRossa che però da Genova non ci passa. Ascolto il mio corpo, è un rapporto confidenziale, un rapporto a cui sono abituato perché nella mia vita di tutti i giorni faccio il runner, e difatti ho le scarpette gialle marca Mizuno, la canottiera dove il torace naviga, le palle stritolate nei pantaloncini.
Ascolto il mio corpo.
Mi rendo conto che il rapporto confidenziale è saltato, è una cosa del passato, ed è necessario un aggiornamento, come per gli antivirus, perché il mio corpo ora si comporta in tutta un’altra maniera, direi affaticata. Poi sento una goccia, ne sento un’altra, in pochi minuti viene giù un acquazzone, anzi è un temporale con i fulmini, e forse mi dovrei fermare, solo che non ci sono ripari, c’è qualche albero che però è meglio non sostare perché è noto che gli alberi attraggono i fulmini, e allora invece di fermarmi accelero di brutto perché tra poco, manca meno di un chilometro, c’è una deviazione dalla strada sterrata e si sale al rifugio del pastore, il pastore delle capre che hanno scagazzato per tutto il percorso, e tra un tuono e l’altro, in mezzo al rumore degli scrosci d’acqua mi pare di sentire le campanelle delle capre, il pastore le ha già messe all’asciutto, e tra cinque minuti, in mezzo alle capre, ci finisco anch’io. Una puzza. A qualcuno piace questa puzza, c’è qualcuno che si esalta. Dice: ah, l’odore di stallatico! Ah, com’è bella la natura! Nell’ovile non ci entro. Ho provato a chiamare il pastore, non mi ha risposto nessuno, soltanto le capre, che si sono messe a belare più forte. Questi pastori sono gente strana. Se entro nell’ovile senza permesso è capace che il pastore si incazza. Me ne sto sotto la tettoia, la pioggia prima o poi vedrai che smette, ho il fiatone. Sai cosa ci vorrebbe? Ci vorrebbe una bella fetta di formaggio di capra. Questi pastori sono gente strana, però se gli cacci i soldi ti danno dei formaggi che sono la fine del mondo, e anche il pane è la fine del mondo. Vado alla capanna del pastore, basta arrampicarsi sulla fascia e io, ormai, sono tutto bagnato. La capanna del pastore è cadente. Dalla finestra senza vetro vedo il tavolo e sopra il tavolo ci sono tre o quattro formaggette bianche, candide, e c’è il pane grosso, quello che mi piace. Busso alla porta, che è aperta. Il pastore non c’è. Questi pastori, che sono gente strana, se entro e mi prendo una formaggetta e un pane, se mi approprio di queste cose, si incazzano?
Ho fatto così, sono entrato, ho preso la formaggetta e il pane, me li sono infilati nello zaino, ho lasciato sul tavolo i tredici euro che avevo nella tasca interna dei pantaloncini, tutto molto rapido senza dare fastidio, e sono uscito. Ormai non piove quasi più. Mi sono incamminato giù dalla fascia, per raggiungere la strada sterrata che sarà tutta infangata, adesso, e mi dovrò inzaccherare. Di fronte a una pozza che sembrava un lago ho sentito uno scoppio alle mie spalle, è l’ultimo tuono del temporale, ho pensato, però mi sbagliavo, perché invece era il quarto sparo del pomeriggio, era il fucile del pastore che mi voleva colpire alla schiena, e per scappare ho dovuto mettermi di nuovo a correre, e sono inciampato proprio al centro della pozza che sembrava un lago, giù con la faccia nell’acqua marrone, anzi rossa, poco a poco, perché il pastore mi ha beccato e quello lì è il mio sangue che zampilla.
Angelo Calvisi, nato a Genova nel 1967, divide i suoi interessi tra la scrittura e la recitazione. Il suo ultimo romanzo, Un mucchio di giorni così, è uscito per l’editore Quarup nel 2012. Per i pennelli di Roberto Lauciello ha firmato il soggetto e la sceneggiatura del graphic novel Sulla cattiva strada, ispirato alla vita di don Gallo, uscito per Round Robin nel maggio del 2014. Nel corso del tempo, in qualità di attore, ha collaborato con registi come Fiammetta Bellone, Gianluca Valentini, Paolo Dotti e Paolo Pisoni. Di questi lavori sono reperibili in rete inquietanti tracce. Lavora per una cooperativa sociale genovese e nel tempo libero disegna casette (e le colora con gli acquarelli).
L’immagine proviene da qui.
il ritmo di scrittura è fedele allo stile del runner : mentre leggi ti sembra che il respiro ti manchi progressivamente. Segui i suoi pensieri e i suoi movimenti in un crescendo inquietante.
Decisamente curioso ed avvincente !
lui ringrazia per le belle parole. lui, io.
Ed anche questa volta il testo riesce ad attirare l’attenzione del lettore! Ipossia? Spaesamento? Comunque vuoi arrivare alla fine…