Non sono sicuro, o comunque non mi pare significativo annotarlo (al contrario di come hanno fatto altri recensori prima di me), che Mette pioggia di Gianni Tetti (Neo Edizioni, 2014) narri l’ultima settimana dell’umanità.
È vero, le sette sezioni di cui si compone il libro corrispondono ciascuna a un giorno settimanale, a partire dal lunedì fino alla domenica, giorno in cui effettivamente sembra avvenire una sorta di catastrofe (anche se l’ultima frase del libro, “Il cielo trema nero. La pioggia si fa più fitta. Picchia la terra. Ma sembra una carezza”, ne stempera la tragicità e forse addirittura ne invalida il carattere di evento definitivo).
Tuttavia non nell’eventuale cronaca dell’estremo tempo umano risiedono la forza e l’originalità del testo.
Mette pioggia ci racconta una settimana delle esistenze di alcuni individui che abitano tutti nella medesima via di un paesino del sassarese, Li Punti. Le sette sezioni del libro sono a loro volta suddivise in due parti. La prima, scritta in terza persona, raccoglie le vicende di Zanon, medico proveniente da tutt’altre coordinate geografiche, riottoso all’ambientamento, che se pure intuirà prima e meglio di tutti un’oscura verità, non solo non sarà capace di arrestarne la diffusione, ma proprio come gli altri ne rimarrà vittima.
La seconda parte di ogni sezione, scritta in prima persona, ci presenta di volta in volta un diverso abitante della via. Ciascuno di essi sembra chiuso in una solitudine prossima all’autismo, eppure nel corso del libro le storie individuali si intersecheranno. Tutti i personaggi, Zanon compreso, sono poi accomunati da uno stesso malessere fisico – eccola, l’oscura verità – in progressivo peggiormento.
Un gran caldo, un opprimente scirocco e una prolungata siccità (almeno sino alla pioggia finale) fanno da cornice climatica al libro.
Va ancora segnalato l’unico personaggio estraneo ai residenti nella via: un bizzarro testimone di Geova, dalle caratteristiche somatiche ben lontane da quelle dell’eroe classico (è un tizio calvo, sudaticcio, che indossa una camicia a righe rosse e bianche e tiene sottobraccio una cartella marrone). Suonerà a tutti i campanelli e tenterà di consegnare un volantino su cui è scritto: “L’uomo rovinerà completamente la terra?”. Ma pure lui, per quanto profetico sia il suo messaggio, non riuscirà a farsi ascoltare: nelle pagine di Mette pioggia non si instaura mai una vera comunicazione, ogni incontro essendo solo strumentale al proprio allucinato egoismo.
In questa atmosfera surreale il vero, il verosimile e il falso, gli accadimenti reali, le fantasie e gli incubi, la vita umana e quella animale convivono tutti insieme con identica dignità. E la peculiarità più sorprendente del libro è la maniera in cui Gianni Tetti restituisce questa grande libertà d’immaginazione. Lo fa, per contrasto, con uno stile che potrei definire claustrofilico, fitto di frasi brevi e brevissime, povero di subordinate, con un’aggettivazione ridotta al minimo, privo di ornamenti, nel quale l’onnipresente punto fermo acquista una forza espressionistica, isolando ogni frase e moltiplicandone (nonché spesso deformandone) il significato.
In virtù di questo ritmo serrato e di questi continui scarti di senso, si segue l’evoluzione della storia senza mai domandarsi se ciò che sta accadendo sia o meno plausibile, sia o meno giusto.
Si legga ad esempio questo passaggio (p. 74): “Ho guardato il soffitto. Sono salito sulla scala. Ho guardato dentro il buco. C’era il ratto. Grande con gli occhi rossi. Mi ha guardato anche lui. Ho guardato le bustine verdi. Ne ho presa una. L’ho mangiata. Verde. Il verde è il mio colore preferito. Il verde è il colore della calma e della clorofilla. E io sono secco. L’ho mangiata e ho ucciso il ratto che ho in pancia. Ma il mal di pancia è rimasto. Perché magari c’è il figlioletto del ratto.”
La sensazione dominante è che in Mette pioggia tutto nuoccia, a prescindere dal suo grado di verità, perché manca qualunque riparo. Perché cioè l’uomo (e sospetto che quella via del paese di Li Punti sia emblematica dell’umanità intera) si trova ad abitare uno spazio non approntato per lui, dunque assolutamente impraticabile, invivibile.
Ecco perché dico che, nonostante l’apocalittico finale, quella descritta in Mette pioggia potrebbe tranquillamente essere una settimana qualunque della storia del mondo.
Mi sembra opportuno chiudere la recensione con alcune preziose parole di Anna Maria Ortese. Intervistata nel 1977 da Dario Bellezza, alla domanda “Che idea, dunque – letteratura a parte – ti fai, o ti sei fatta, dell’uomo?” la Ortese così rispondeva (corsivi nell’originale): “Di uno che vive in un posto non suo. Così – non suo, non dell’uomo – mi appare l’Universo quando lo penso, non tanto al lume della ragione umana, ma di fronte ad essa. Un luogo estraneo totalmente alla ragione, dove la ragione non ha senso, un luogo nemico, profondo, senza luce, senza indicazioni, senza direzioni, senza nomi. Noi diciamo sole, ma chi l’ha detto che il sole è il sole? Così di tutto. Nessuno ha mai detto niente su che cosa significhi o da dove sia uscito tutto questo. L’Universo – o gli Universi – sembrano dunque il vero Irreale, il luogo non pensabile o non pensato.”
Anche questa volta c’è da riflettere: riflettere su una settimana qualunque della storia del mondo! Concetto rafforzato dal pensiero della Ortense che ci porta in un mondo che viviamo ma non è nostro…
Complimenti!!!
M. Laura
SEmbra di vivere in un’atmosfera surreale, tipica di meriggi assolati e silenziosi dove la fissità del tempo e dello spazio prelude a qualcosa di dirompente che deve accadere. A questa finta immobilità si accompagna un malessere sottile che non può essere detto e coinvolge tutti i personaggi , proiettandoli su un altro piano, quasi metafisico.
Bravi ! Scegliete testi intriganti e li recensite benissimo.